Tutto finisce, anche il Quantitative Easing

Negli ultimi cinque anni la politica monetaria accomodante della BCE ha consentito a molti Paesi europei di non perdere la bussola e rimanere a galla durante una delle peggiori crisi finanziarie della storia: l'Italia e l'Europa tutta sapranno farsi trovare pronte all'appuntamento con la fine del QE?

Niccolò De Rossi

Le conseguenze dell’ultima crisi finanziaria che ha contagiato la maggior parte dei Paesi europei sembrano oramai quasi del tutto superate. Anche l’Italia sta infatti tornando sui livelli occupazionali e produttivi molto vicini (in alcuni casi anche superiori) a quelli registrati prima del 2008. Per arrivare a questo risultato però, oltre alle misure adottate dai singoli Stati, spesso giudicate “impopolari”, c’è stato bisogno dell’aiuto della Banca Centrale Europea. Chi potrebbe dimenticare ad esempio l’ormai famoso “Wathever it takes” (“faremo tutto ciò che è necessario”) pronunciato dal Presidente della BCE Mario Draghi per porre fine all’ondata di speculazioni sul rischio di tenuta dell’Unione monetaria. Proprio come avvenne in America dopo il celebre crack di Lehman Brothers, una delle più grandi banche d’affari americane, qaundo la Federal Reserve decise di mettere in campo una serie di misure correttive straordinarie che aiutassero l’economia a ripartire, tra cui quella del Quantitative Easing (QE).

La crisi che ha contagiato l’Europa ha dunque fatto in modo di aumentare il rischio percepito sulla tenuta dell’euro, generando così una contrazione generalizzata di investimenti, domanda interna, produzione e conseguentemente una crescita della disoccupazione. Di ancor maggior rilievo probabilmente è stata la percezione, da parte delle istituzioni europee, di un possibile innesco della spirale deflattiva: i prezzi cominciano a scendere e, poiché vi è appunto la percezione da parte dei consumatori stessi che il trend possa continuare, questi rimandano i propri acquisti non indispensabili. Si genererà così un effetto diretto sulle imprese che tenderanno ad abbassare ulteriormente i prezzi per riprendere a vendere, ridurranno produzione e investimenti, innescando un circolo vizioso difficile da interrompere. Davanti alla prospettiva di un tale scenario, seppur non completamente verificatosi, la BCE, nel marzo del 2015, decise di intraprendere un percorso di politica monetaria estremamente espansiva per immettere liquidità nel sistema economico europeo e dare così sostegno alla dinamica inflazionistica, dapprima abbassando i tassi in maniera ripetuta avvicinandoli allo zero e, successivamente, adottando il QE.

Il QE è quindi uno strumento non convenzionale di politica monetaria espansiva utilizzato dalle Banche centrali per condizionare l’offerta di credito e i mercati finanziari. Il programma consiste nell’acquisto di ingenti quantità di titoli di Stato (e non solo) dalle banche per immettere nuova liquidità nell’economia. Il finanziamento di uno Stato passa infatti soprattutto attraverso la vendita da parte dello stesso di obbligazioni che vengono sottoscritte da cittadini, imprese e in particolar modo dalle banche, che hanno così grandi quantità di denaro immobilizzate. Proprio ricorrendo al QE, la BCE ha “creato moneta” acquistando i titoli direttamente presso gli istituti bancari e abbassandone così il rendimento; il tutto affinché, attraverso la messa in circolazione di più denaro, le banche potessero riprendere l’erogazione di credito verso famiglie e imprese e riattivare quindi gli investimenti.

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Al contempo, il programma prevede il sostegno alla dinamica inflazionistica, che per quanto riguarda l’Eurozona è stata fissata sul punto di equilibrio del 2%. In particolare, la prima fase del QE, durata circa un anno, prevedeva l’acquisto mensile di 60 miliardi di euro rivolto prevalentemente ai titoli di Stato. Nel 2016 la BCE, oltre ad ampliare ad 80 miliardi di euro la quantità di titoli mensili da acquistare, ha poi ritoccato il tasso di rifinanziamento portandolo a zero e spingendo in territorio negativo (-0,40%) il tasso sui depositi (ciò che le banche devono pagare per tenere liquidità presso la banca centrale), rimasto tutt’ora a quel livello. Quest’ultimo è stato un segnale molto importante lanciato al sistema bancario, poiché ha dimostrato la chiara intenzione da parte della BCE di voler incentivare, corrispondendo un rendimento negativo, la circolazione delle risorse finanziare disincentivandone il deposito nel sicuro porto della banca centrale. Gli acquisti netti di titoli sono continuati poi per tutto il 2017 al ritmo di 60 miliardi di euro mensili allargando la tipologia di titoli acquistabili anche ad alcune categorie quali, ad esempio, Abs, covered bond, obbligazioni societarie. Il Presidente della Banca Centrale Europea ha inoltre più volte ribadito durante le riunioni del consiglio direttivo, «che tale percorso non sarà abbandonato fino a quando la dinamica inflazionistica non si dimostrerà abbastanza stabile verso l’obiettivo target del 2%». Attualmente, gli acquisti netti di attività viaggiano al ritmo mensile di 30 miliardi di euro, quantità che rimarrà invariata fino a settembre; per gli ultimi mesi del 2018 l’importo mensile dovrebbe dimezzarsi a 15 miliardi se i dati sulle prospettive dell’inflazione confermeranno la tendenza di fondo di correre verso l’obiettivo prefissato, per poi esaurirsi con la fine dell’anno.

Sembra quindi molto probabile che la spinta monetaria che ha caratterizzato gli ultimi anni si concluderà con la fine del 2018, catapultando l’Europa, con il nuovo anno, verso uno scenario più “normale”, ma non privo di sfide. Se infatti, da un lato, la politica monetaria espansiva contraddistinta da bassi tassi di interesse - che dovrebbero comunque rimanere tali per buona parte del 2019 - ha fatto in modo di sostenere soprattutto i Paesi con debito pubblico elevato (gli interessi sono stati di gran lunga inferiori al normale), dall’altro, l’interrogativo che gli addetti ai lavori si pongono è come reagiranno proprio questi Paesi, compresa l’Italia, alla conclusione degli stimoli monetari che hanno consentito alle economie più fragili di continuare a finanziarsi a tassi favorevoli.

Le preoccupazioni quindi per il ritorno alla normalità sembrano essere quanto meno giustificabili, se non fosse che, almeno in parte, l’Italia potrebbe probabilmente beneficiare della fine del QE. Se gli effetti combinati di acquisti netti mensili e bassi tassi di interesse hanno appiattito la curva dei rendimenti anche su scadenze di lungo periodo (in Germania i rendimenti sono scesi in campo negativo anche su scadenze prossime ai sette anni), in Italia il fenomeno ha investito principalmente la parte breve della curva. Ciò ha inevitabilmente spostato l’interesse di investitori e risparmiatori dalla componente obbligazionaria ormai quasi priva di redditività, verso il mercato azionario, comportando un vero boom sui listini. Paradossalmente, il sistema bancario potrebbe allora trarre maggior beneficio della fine del QE: se infatti le banche si finanziano oggi a tassi bassi e concedono prestiti su scadenze lunghe con tassi in risalita, il loro guadagno aumenta, consentendo probabilmente di erogare più credito e continuare ad alimentare lo sviluppo economico soprattutto di quella parte di imprese virtuose che sono sempre alla ricerca di risorse da investire. Il graduale rialzo dei tassi di interesse che avverrà nei prossimi mesi consentirà inoltre a risparmiatori e investitori istituzionali di poter tornare a disporre di una fonte di rendimento meno rischiosa, ma comunque remunerativa, potendo soddisfare nuovamente e (quasi) completamente la “personale” propensione al rischio.

Non da ultimo c’è naturalmente da considerare l’effetto che la fine del QE e il rialzo dei tassi avranno sullo spread. In questi anni infatti la politica monetaria espansiva ha consentito di ridurre i differenziali tra i rendimenti dei titoli di Stato italiani e quelli tedeschi (utilizzati come benchmark di rischiosità), condizionando la reale valutazione del premio per il rischio legato all’emittente. Venendo meno un costante e sicuro compratore di ingenti quantità di titoli nazionali, a prescindere dalle tensioni sui mercati generati dalla speculazione dei grandi investitori internazionali che detengono una grande quantità del nostro debito pubblico, l’Italia dovrà certamente riuscire a dimostrare che la percepita instabilità politica del nostro governo non intaccherà il percorso di crescita che faticosamente siamo riusciti a costruire negli ultimi anni.

Nonostante l’uscita dalla crisi sia stata lunga e di certo di non facile realizzazione, nonostante le ultime proiezioni diano la crescita in leggera diminuzione per molti Paesi dell’Unione europea, l’Italia e l’Europa tutta dovranno farsi trovare pronte all’appuntamento con la fine del QE e dovranno saper gestire nel modo migliore possibile gli effetti che la normalizzazione della politica monetaria porterà con sé.

Niccolò De Rossi, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

17/8/2018

 
 
 

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