La povertà delle famiglie italiane

Statistiche alla mano, l'Italia vive da diversi anni un grosso paradosso: aumenta la spesa per il welfare (e soprattutto per misure assistenziali) ma di pari passo anche il numero di persone che versano in condizioni di povertà. Ecco perché servirebbero soluzioni che puntino a risolvere il problema alla radice, e non al facile consenso politico 

Alberto Brambilla

Più lo Stato italiano spende per l’assistenza sociale contro la povertà e per ridurre quella che Eurostat definisce “esclusione sociale” e più aumenta il numero dei poveri e, contemporaneamente, anche i NEET e quelli che un lavoro non lo cercano più, i cosiddetti “inattivi”, 13,7 milioni su 36 milioni di persone in età da lavoro. Due problemi che ci vedono in cima alle classifiche europee in negativo. Un paradosso enorme che dovrebbe far riflettere i fautori dell’estensione dell’assistenza a tutti i costi (reddito e pensione di cittadinanza, reddito di emergenza, bonus e agevolazioni di tutti i tipi e, infine, lo stipendio di Stato sotto forma di AUUF).

Vediamo i numeri che parlano più chiaramente di tutte le teorie addotte per giustificare la continua concessione di soldi pubblici, non sempre per amore del prossimo ma molto spesso per guadagnare o aumentare il consenso politico e i voti (il M5S con il RdC, docet). Nel 2008 la spesa per assistenza a carico della fiscalità generale - un modo elegante per dire che la pagano gli onesti contribuenti - era pari a 73 miliardi. Nel 2019 questa spesa è lievitata a 114,76 miliardi, per i provvedimenti tipo REI, RdC, bonus bollette ecc. e per le agevolazioni pensionistiche assistenziali (quattordicesima mensilità, APE sociale e gravosi; Quota 100 esclusa). Un incremento del 56,53% cioè quasi 42 miliardi in più: un'enormità! 

Con una tale cifra la povertà si sarebbe dovuta eliminare (copyright M5S) e, invece, i numeri ci raccontano un’altra storia: nel 2008 le famiglie in povertà assoluta (dati Istat) erano 937mila per un totale di 2,113 milioni di persone; nel 2019 - sorpresa - le famiglie in povertà assoluta sono aumentate di oltre il 78% attestandosi a 1,674 milioni, mentre le persone sono schizzate a 4,593 milioni (+117,37%). E il 2019 è stato uno degli anni record per i tassi di occupazione e per i redditi da lavoro. Le famiglie in povertà relativa sono aumentate del 25%, mentre le persone in povertà relativa, del 35,8%.

A fronte di questi dati, drammatici per la collettività e le finanze pubbliche, si sarebbero dovute fare molte riflessioni: 1) anzitutto, evitare di inventarsi altre forme di assistenza mentre, secondo il consuntivo INPS, il reddito di cittadinanza è costato nel 2020 circa 7,26 miliardi e più o meno la stessa cifra si dovrebbe spendere per il corrente anno, a fronte di uno stanziamento previsto dalla legge di 8 miliardi circa per il 2020 e 8,31 miliardi dal 2021 in poi (e a questa cifra occorre poi aggiungere da maggio 2020 a fine 2021 almeno altri 2 miliardi per il reddito di emergenza. E invece è partito l’assegno unico universale per i figli (l’AUUF che di universale ha praticamente solo il nome), con un costo presunto (a debito) di 4 miliardi ma la politica ne vorrebbero di più: assegno che si somma “generosamente” con il reddito di cittadinanza e con quello di emergenza. 2) Cercare di razionalizzare questa enorme spesa che, nel 2020, ha quasi raggiunto quella pensionistica al netto dell’IRPEF (circa 155 miliardi): solo che quest’ultima è pagata da contributi di scopo, mentre i 144,78 miliardi di assistenza sono per metà a debito (poveri giovani per i quali i politici si disperano) e per l’altra metà a carico di quelli onesti o che non possono fare diversamente. 

3) Intelligenza vorrebbe che dopo vent’anni che se ne parla lo Stato si doti di una banca dati dell’assistenza, un’anagrafe che per codici fiscali evidenzi tutte le agevolazioni e i bonus di cui un soggetto o il suo nucleo familiare beneficia. Invece no, dell’anagrafe - nonostante la proposta del 2001 e il Jobs act del 2015 - nessuna traccia; eppure c’è nella maggior parte dei Paesi con welfare sviluppato. E così un ente (regione, comune o lo Stato stesso) non sa nulla di quali e quante prestazioni gode un soggetto e, in assenza di informazioni sulle prestazioni fornite da altre enti, eroga piccoli e grandi sussidi sempre agli stessi, che magari non sono i veri poveri perché questi ultimi non hanno certamente il conto corrente e, quindi, è difficile che ricevano le somme sulla social card.

Intendiamoci, la povertà c’è in tutti i Paesi, Italia compresa, e dipende da molti fattori ma occorre un’analisi un poco meno superficiale per capirne le cause.

Ad esempio, la perdita del lavoro che nel nostro Paese è tuttavia coperta dagli ammortizzatori sociali come la CIG che lo scorso anno, in piena pandemia da COVID-19, ha sostenuto 7,2 milioni di lavoratori con quasi 5 miliardi di ore autorizzate (un record di tutti i tempi), o come la NASpI, la DIS-COLL e i “bonus” per gli autonomi, altri milioni di lavoratori. Si dirà che è poco, ma al bilancio pubblico il 2020 è costato quasi 160 miliardi di nuovo debito pubblico, che qualcuno prima o poi dovrà restituire. Poi ci sono le povertà indotte da comportamenti non propriamente normali come la ludopatia, l’alcooldipendenza e le tossicodipendenze definite gravi che riguardano, sempre secondo l’Istat, circa 2,5 milione di persone: fossero capifamiglia il numero dei poveri assoluti e relativi raddoppierebbe con riflessi gravissimi per i figli che, molto probabilmente, perpetueranno lo stato di “esclusi” dei padri. In questi casi, lo capiscono tutti, dare soldi con molta probabilità alimenta la devianza, e non risolve la povertà. Certo, per taluna politica è più facile - ma soprattutto porta più voti - dare soldi a pioggia, anziché organizzare in tutte le regioni centri di assistenza sociale territoriali collegati al mondo del lavoro che prendano in carico queste persone e cerchino di toglierle dalla situazione di povertà anche, magari, con sanzioni sociali. 

E, infatti, l’aumento di spesa è trasversale e continuo. L’unica attività meritevole è quella messa in campo dalle Fondazioni di origine Bancaria chem con l’associazione Con i Bambini, hanno realizzato una serie di progetti contro la “povertà educativa”, che senza dubbio è il problema in assoluto più grave dell’Italia. Peggiore dei problemi del lavoro e della giustizia, ma del quale nessun politico o governo parla. Diminuire la povertà educativa significa ridurre una gran parte di comportamenti devianti e spesso ai limiti della legalità e aumentare cultura e consapevolezza, con l’effetto di generare una quantità di PIL maggiore di quanto le tante riforme previste possano fare.

Ma per far questo ci vogliono persone preparate e oneste che sappiano prendere anche decisioni impopolari (le sanzioni sociali ai devianti) e non tollerare tutto per non perdere consensi.

Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 

27/9/2021

L'articolo è stato pubblicato su Il Messaggero dell'11/9/2021
 
 
 

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