Mercato del lavoro e flussi migratori: le peculiarità del caso italiano

Da un'attenta analisi dell’impatto degli stranieri sul mercato del lavoro italiano emergono alcune considerazioni che il dibattito sul tema non può permettersi di trascurare in favore di posizioni meramente ideologiche: nel commento del Prof. Alberto Brambilla una sintesi del quadro tracciato nell'ultimo Osservatorio redatto da  Natale Forlani per il Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

Alberto Brambilla

La fotografia scattata da Natale Forlani sugli stranieri nel mercato del lavoro italianoa commento dei dati del IX Rapporto annuale a cura del Ministero del Lavoro e delle Politiche Socialici dà una serie di indicazioni anche di natura demografica che la politica farebbe bene a utilizzare anziché dibattere in modo spesso ideologico e inconcludente. 

Rimandando al testo, in sintesi si possono fare le seguenti considerazioni: 

a) l’Italia in vent’anni ha raggiunto livelli di presenza degli stranieri simili agli altri grandi Paesi europei con pluridecennale tradizioni di accoglienza divenendo il terzo Paese in UE per numero di immigrati regolari ma con un elevato numero di diverse comunità di origine;

b) la presenza di stranieri è caratterizzata da una rilevante incidenza dei flussi irregolari nonostante le tre sanatorie di regolarizzazione; considerando la scarsa capacità di controllo sull’immigrazione non regolare, è pensabile che rispetto al numero ufficiale di regolari - 5,144 milioni (occorre tenere in debito conto l’incidenza delle cittadinanze rilasciate a oltre 1 milione di stranieri che non vengono più conteggiate nella popolazione immigrata residente) - la percentuale della popolazione straniera sia più rilevante. Purtroppo non esiste nel Paese una stima univoca della popolazione presente irregolarmente: si va da 500mila a oltre un milione e  il fatto che le varie istituzioni statali non dispongano di stime coerenti è grave; 

c) uno dei punti deboli del controllo sull’immigrazione è la gestione dei visti. Infatti migliaia di persone arrivano comodamente in aereo o treno, o direttamente o dopo essere transitati da scali UE (Spagna, Portogallo, Francia, Grecia ecc.) e una volta entrati con visti di studio, turismo o altro, più nessuno controlla (tanto che questi arrivi sono molto più numerosi di quelli tramite barchini o Ong), ragione per la quale queste persone restano anche per molti anni clandestine; riescono pure ogni tanto a tornare nei loro Paesi di origine essendo già muniti (da organizzazioni più o meno legali) del successivo permesso di soggiorno. Cosa che non succede neppure in molti Paesi africani o dell’Estremo Oriente dove la gestione dei visti è attiva e, se alla scadenza del periodo se non risulta il rientro, si è automaticamente ricercati tramite foto segnaletica e impronte digitali rilevate all’ingresso; 

d) si afferma spesso che abbiamo bisogno di stranieri per fronteggiare la riduzione di forza lavoro autoctona per via dell’invecchiamento della popolazione; assurda e “razzista” è la motivazione che taluni lavori gli italiani non li vogliono fare perché sarebbe come trattare i nuovi arrivati alla stregua di liberti, né ci dimentichiamo che abbiamo 5 milioni di forze lavoro inoccupate e che, quindi, per i prossimi anni potremmo superare la transizione demografica in modo autonomo; 

e) infine, i dati ci dicono che: 1) la stragrande maggioranza degli arrivi non è per lavoro, ma per ricongiungimenti familiari e per motivi umanitari; tutto giusto ma grava sulle fiacche finanze pubbliche e non genera occupazione; 2) siamo il Paese con la maggiore presenza di stranieri dequalificati, che sono stati i primi a subire gli effetti negativi della crisi economica evidenziando disoccupazione e perdita di reddito; 3) non siamo attrattivi per gli stranieri qualificati; 4) non siamo capaci di utilizzare appieno le potenzialità degli stranieri; 5) il vistoso aumento della povertà in Italia dipende proprio dagli immigrati: secondo Istat il 30% dei nuclei familiari composti da soli immigrati versa in condizioni di povertà assoluta, quota che arriva ai 2/3 dell’insieme delle famiglie immigrati sommando quelli in condizioni di povertà relativa; 6) non sono certo gli stranieri, con i loro redditi dichiarati, a garantire le nostre future pensioni. 

È evidente che tutto ciò richiede un cambio di prospettiva nella gestione del tema immigrazione: c’è di che riflettere. 

Alberto Brambilla, Presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 

14/10/2019

 
 

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