Pensioni flessibili per una popolazione che invecchia

Nel 2050 serviranno almeno 70 anni per la pensione: come conciliare le esigenze dei conti pubblici con quelle di una popolazione (e di una forza-lavoro) che invecchia?

Alberto Brambilla

La popolazione italiana invecchia e anche la forza lavoro invecchia. Se oggi quelli che hanno oltre 64 anni rappresentano il 22,3% della popolazione pari a circa 13,5 milioni, (erano l’8,2% nel 1951), nel 2050 saranno circa 20 milioni. Aumenteranno quindi i costi per la sanità e la non autosufficienza (l’incremento dipenderà molto dalla prevenzione e dall’educazione della popolazione), mentre i costi per le pensioni, grazie ai 2 stabilizzatori automatici “irrinunciabili” vale a dire l’indicizzazione dell’età di pensione alla aspettativa di vita e la revisione biennale dei coefficienti di trasformazione (i numerini che trasformano i contributi versati in pensione), rimarranno stabili nel tempo e in progressiva riduzione.

Se non avremo un problema per i costi del sistema pensionistico, ce ne saranno e molti legati alle età progressive previste per lasciare il lavoro. Pur modificando alcuni parametri della legge Monti-Fornero, nel 2050 si andrà in pensione a 69 anni e 9 mesi per maschi e femmine e a 66 anni e 9 mesi per i contributivi puri (quelli che hanno iniziato il lavoro da 1/1/1996). D’altra parte, a oggi, l’aspettativa di vita alla nascita è di 80,6 anni per gli uomini e 85,1 anni per le donne, ma, dato più importante, a 60 anni la speranza di vita per i maschi supera i 23 anni, mentre per le femmine si arriva a oltre 27 anni. Se è quindi giustificato allineare le età di pensione alle aspettative di vita per mantenere un rapporto equo tra anni di lavoro e anni di pensione, il problema è (già l’anno prossimo l’età legale di pensionamento sarà di 67 anni) e sarà come tenere al lavoro queste persone e con quali modalità offrire loro la possibilità di pensionarsi a età inferiori, in modo flessibile.

Due sono i temi principali. Il primo, una differente organizzazione del lavoro basta sulle “classi di età”. Ad esempio, dai 50 anni in su occorrerà prevedere un tipo di lavoro che massimizzi l’apporto di esperienza e riduca il carico psicofisico dei lavoratori. Difficile immaginare un poliziotto di 55 anni che insegue un ladruncolo di 20. E questo è principalmente un compito delle parti sociali e dei corpi intermedi. Il secondo, un percorso di flessibilità in uscita verso la pensione che si può realizzare con differenti interventi che tuttavia devono essere universali, standardizzati e non discrezionali.

L’idea di fondo si basa su una flessibilità tra i 63/64 anni (indicizzata all’aspettativa di vita) e i 71 anni, esattamente come previsto dalla legge Dini e da tutti i sistemi contributivi. Se però questa flessibilità fosse totalmente a carico del bilancio pubblico, sarebbe insostenibile. Diciamo allora che l’anticipo pubblico è la soluzione di ultima istanza anche perché richiede per l’anticipata 41 anni e mezzo di contributi e per la vecchiaia 36 anni di contribuzione con non più di 2 di contribuzione figurativa e il calcolo della prestazione con il contributivo per gli anni dal gennaio 1996.

Gli strumenti che si possono utilizzare sono molti. Vediamo i principali: 

1) isopensione (indennità sostitutiva della pensione), introdotta dalla ministra Fornero, consente di anticipare di 4 anni l’età di pensionamento prevista dalla legge Fornero; vale solo per le aziende con più di 15 dipendenti e a seguito di accordi sottoscritti dall’azienda con le organizzazioni sindacali per la riduzione del personale. L'azienda paga attraverso l’Inps un assegno ai lavoratori equivalente alla pensione per il periodo di anticipo, sino al perfezionamento dei requisiti per il pensionamento. La  Legge di Bilancio n. 205/2017 (articolo 1, c. 160) ha aumentato il periodo a 7 anni per il triennio 2018-2020. L'azienda dovrà inoltre versare all’Inps anche i contributi necessari per ottenere la pensione che verrà ricalcolata dall’Istituto alla fine del periodo di isopensione, senza alcuna penalizzazione per il lavoratore.

2) i “fondi di solidarietà”, gestiti dall'Inps, che costruimmo nel lontano 1998 per banche, assicurazioni ed esattorie, di cui hanno usufruito finora circa 60 mila bancari (e altre 25/30 mila ne usufruiranno nei prossimi anni) e che oggi sono disponibili anche per tutte le categorie di lavoratori dipendenti. In caso di esuberi o riduzioni di personale, i lavoratori cui mancano 5 anni (7 dal 2016 al 2019) per maturare il diritto alla pensione, a seguito di accordi sindacali, vengono collocati nel fondo di solidarietà e percepiranno un assegno pari alla pensione maturata fino a quel momento; poiché vengono versati nel periodo anche i contributi previdenziali su un reddito fisso e prefissato, a fine periodo la pensione verrà ricalcolata dall’Inps. Attraverso questi fondi sono possibili i riscatti di laurea o le contribuzioni volontarie al fine di raggiungere i requisiti di legge; i fondi che non hanno costi per le finanze pubbliche (salvo lo stanziamento triennale per le banche di 648 milioni) poiché sono autofinanziati da aziende e lavoratori.

Ci sono poi l’APE (anticipo pensionistico) nella modalità volontaria o aziendale; il part time agevolato e la RITA (rendita integrativa temporanea anticipata).

In ultimo, si rendono necessarie vere politiche di invecchiamento attivo con il coinvolgimento degli enti locali (i comuni in prima linea), delle parti sociali e degli enti intermedi al fine di valorizzare la vecchiaia trasformandola da costo a grande opportunità.

Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 

9/4/2018

L'articolo è stato pubblicato sul Corriere L'Economia del 9/4/2018
 
 

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