Welfare, le esperienze della bilateralità tra valori antichi e nuovi modelli organizzativi

Quello dell’artigianato è un sistema bilaterale articolato e complesso, spesso invocato come esempio ma al tempo stesso chiamato a innovarsi sotto la spinta dei nuovi bisogni sociali: il ruolo della bilateralità e l’esperienza di WILA al centro dell’intervista a Ermanno Cova, vicepresidente di ELBA e componente del CdA del fondo di Welfare Integrativo Lombardo dell’Artigianato

Mara Guarino

La crescente attenzione, da parte tanto del “mercato” quando dei media e del legislatore, fa spesso sì che quando si parla di possibili alternative – o forse sarebbe più corretto dire, di forme complementari e integrative – al welfare pubblico si finisca col citare, nell’ambito del welfare contrattuale, il solo welfare aziendale. Eppure, i sempre più numerosi esempi presenti sul territorio nazionale insegnano che, all’intersezione tra pubblico e privato in senso stretto (vale a dire di natura profit), si colloca in realtà una terza significativa possibilità, quella del “privato sociale” promosso attraverso la contrattazione collettiva. Questo il caso dei cosiddetti enti e fondi bilaterali, caratterizzati da una gestione paritetica tra organizzazioni datoriali e sindacali e finanziati attraverso i contributi versati, seppur in misura diversa, da imprese e lavoratori.

 

Il privato sociale come terza via del welfare?

«Il privato sociale può essere un’esperienza virtuosa e di successo se ben regolata», secondo Ermanno Cova, attualmente consigliere d’amministrazione di WILA, il fondo di Welfare Integrativo Lombardo dell’Artigianato, che offre assistenza socio-sanitaria (con prestazioni legate in particolar modo alla previdenza, alla sanità e alla scuola) a circa 150.000 lavoratori e lavoratrici dipendenti delle aziende artigiane lombarde. Un’esperienza virtuosa per l’appunto, ma non esente da nodi da scogliere, dalla quale ha preso le mosse una lunga chiacchierata volta a capire quale sia e possa essere il ruolo occupato dalla bilateralità all’interno del complesso e dinamico sistema di welfare mix italiano.

«La bilateralità – spiega Cova – è fin dal suo stesso nascere un’esperienza di welfare costruito insieme, nell’ottica di dare di più con meno e di dare quindi di più a chi ha di meno». Una vocazione storica, che affonda del resto le radici nei movimenti mutualistici e nel “paternalismo buono” dei primi imprenditori illuminati (come ad esempio Adriano Olivetti) del secolo scorso, che si scontra oggi però con una scarsa conoscenza della materia – e delle opportunità che le sono correlate - persino da parte di quanti ne dovrebbero essere maggiormente interessati, vale a dire dipendenti e datori di lavoro.

 

Welfare bilaterale e asimmetria dell’informazione

Le ragioni? Se, da un lato, influisce un sistema di informazione sempre più orientato alla sola necessità di fare notizia, dall’altro incidono le caratteristiche stesse del sistema basato sull’adesione obbligatoria, con il risultato paradossale di imprese e lavoratori che si ritrovano iscritti senza averne piena consapevolezza. «Di welfare bilaterale si parla, ma il vero problema è travalicare il confine delle nicchie che già discutono e approfondiscono l’argomento, per arrivare a chi non lo conosce affatto, che poi sono spesso quanti potrebbero usufruire delle prestazioni erogate», spiega Cova nel rimarcare un’asimmetria informativa che non trova pari nel welfare aziendale, dove gli interessi dei grandi gruppi che operano nel settore, da un lato, e le dimensioni delle imprese coinvolte favoriscono una maggiore circolazione di conoscenze e opportunità, se non altro almeno tra datori di lavoro, dirigenti, divisioni HR, etc.

Un esempio degli effetti “negativi” di questa scarsa pervasività è segnalato dalla stessa WILA, che tra le sue prestazioni offre anche indennizzi per le spese mediche, sanitarie e di assistenza sostenute per i figli disabili. Su oltre 135.000 aderenti si sono registrati per il momento solo poco più di 250 ricorsi al possibile indennizzo: secondo le stime del Fondo, nell’ordine di almeno 10 volte superiore il numero degli iscritti che invece avrebbe potuto farvi ricorso. E casi analoghi si potrebbero ad esempio fare anche rivolgendo lo sguardo al vicino San.Arti. (il fondo di assistenza sanitaria integrativa per i lavoratori dell’artigianato), dove spesso neppure gli stessi datori di lavoro sfruttano l’opportunità di una iscrizione volontaria che darebbe loro diritto alle prestazioni loro estese. Nonostante non manchino forti investimenti sul fronte della comunicazione, «l’informazione resta dunque una delle sfide più grandi da affrontare, soprattutto nelle piccole aziende, dove spesso non arrivano neppure le organizzazioni sindacali».

 

La bilateralità come luogo di relazioni: la “sportellizzazione”

Anche da queste considerazioni nasce dunque l’idea della “sportellizzazione”, vale a dire dell’apertura, presso le sedi delle parti istitutive, di oltre 200 punti di incontro sull’intero territorio lombardo. «L’idea di veicolare le prestazioni attraverso gli sportelli – spiega Cova – muove innanzitutto dalla necessità di una “deburocratizzazione” che consenta il parziale superamento delle strutture locali del sistema bilaterale e un maggiore protagonismo diretto delle parti sociali istitutive, finalizzato anche ad accrescere la loro rappresentanza. Ma, soprattutto, il fatto che l’erogazione di tutte le prestazioni passi anche attraverso una rete fisica consente una più efficace integrazione tra le “provvidenze” stesse e, ancor di più, l’instaurarsi di una relazione con il lavoratore». Laddove ad esempio il web disintermedia, rivelandosi forse uno strumento più efficace per quanti hanno già certezza dell’offerta complessiva e delle prestazioni di cui hanno bisogno, lo sportello consente di costruire relazioni e soprattutto di accompagnare l’iscritto, prima ancora che alla scoperta del ventaglio di possibilità a sua disposizione, nella lettura dei suoi stessi bisogni in tutta la loro complessità. Un autentico investimento che potrebbe funzionare però «solo a patto di superare possibili conflitti di interesse e diffidenze, ad esempio circa l’opportunità di offrire “un servizio alle imprese”, a maggior ragione pensando che tutte le prestazioni di welfare sono e potrebbero essere indirizzate anche ai datori di lavoro,  i quali del resto – ancor di più nel caso delle microimprese che caratterizzano l’artigianato – sono persone con bisogni sociali, previdenziali e sanitari non molto distanti da quelli dei propri dipendenti».

 

Un’esperienza “frammentata”? Territorialità e legami con il secondo welfare

Molteplici quindi le riflessioni sul presente e sul futuro del welfare bilaterale che se ne possono trarre. La prima riguarda la natura locale che gli è indubbiamente propria: l’esperienza WILA testimonia del resto quanto il legame con il territorio sia fondamentale per offrire prestazioni che rispondano effettivamente alle necessità del luogo (e della categoria), persino in un contesto come quello lombardo, considerato tra i migliori del Paese su molti fronti, tra cui proprio quello della sanità. «Semplificando, del resto, si potrebbe dire che in Lombardia c’è già molto, magari più di quanto non sia disponibile in altre Regioni, ma non tutto. Ed è appunto qui che potrebbe esserci spazio di intervento per una logica ispirata al modello mutualistico, secondo cui “mettersi insieme” crea una somma positiva, in primis - ma non solo -  in termini di sostenibilità e di ricadute economiche, perché vien da sé che, lungo questa via, diventa possibile offrire prestazioni a dei costi che al singolo non potrebbero mai essere accessibili». La seconda riguarda invece la delicata relazione con il sistema pubblico e con tutte le altre realtà che popolano il cosiddetto secondo welfare. La premessa – precisa però a riguardo Ermanno Cova – è che l’ottica secondo la quale il welfare di secondo livello dovrebbe organizzare la propria attività (e secondo la quale WILA opera) è quella della complementarietà: «Per portare un caso concreto, le prestazioni WILA iniziano là dove finiscono quelle di San.Arti… La parola chiave è completamento, così da rispondere con soluzioni anche nuove e innovative ai bisogni della collettività in senso più ampio, occupandosi ad esempio non solo del lavoratore in sé, ma anche dei genitori non autosufficienti o dei figli disabili».

 

Centralità e dinamismo del welfare moderno

Ciò non toglie che un nuovo modello organizzativo non sia solo possibile, ma appunto anche necessario. Benché l’artigianato nel contesto nazionale e la Lombardia in particolare siano già all’avanguardia, secondo il consigliere WILA, i margini di miglioramento del sistema sono ampi e coinvolgono tanto governance e gestione finanziaria quanto le stesse prestazioni.  «Le esperienze del welfare bilaterale lombardo – spiega Cova – si sono recentemente strutturate tra due estremi, esperienze “antiche” come quelle di ELBA, l’Ente Lombardo Bilaterale dell’Artigianato, e decisamente più recenti come quella di WILA: se le une hanno bisogno di essere ripensate e rinnovate, le altre necessitano invece di essere rafforzate, anche alla luce della riorganizzazione del sistema bilaterale avviata nel 2018». I numeri potenziali parlano del resto chiaro (200.000 lavoratori e 50.000 imprese) e sono tali da far riflettere sul fatto che, se ciascuno focalizzasse le attività nel proprio campo di pertinenza – area lavoro, previdenza complementare, assistenza sanitaria integrativa, prestazioni socio-sanitarie, etc – mettendole al tempo stesso ancor più efficacemente e sinergicamente a sistema con quelle erogate dagli altri enti, si potrebbe favorire il conseguimento di risultati migliori da parte di tutti i soggetti istitutivi. Un primo passo, cui potrebbero poi fare seguito la messa a punto di nuovi servizi, come quelli relativi alla conciliazione vita-lavoro, o modi nuovi di affrontare problemi “vecchi” come quello della formazione, spesso inefficace perché non riferita a progetti reali o comunque non calibrate sulle effettive esigenze di competitività e produttività della singola impresa prima e dell’intero sistema poi.  

D’altra parte, non si può trascurare il fatto che, schiacciato dalle rinnovate esigenze di una società in cambiamento per ragioni demografiche ed economiche, è il welfare stesso a vivere un momento di profonda e costante ridefinizione. Un contesto nel quale né il pubblico, alle prese con la necessità di far quadrare i propri conti, né il welfare aziendale, che ancora fatica a “finalizzarsi” oscillando tra benefit votati al benessere e servizi orientati all’utilità sociale (previdenza, assistenza, etc) potrebbero bastare, spalancando le porte proprio al privato sociale no profit. «Che per sua stessa natura – commenta Ermanno Cova – opera appunto in una logica non di competizione, ma di cooperazione e complementarietà, e che potrebbe quindi essere considerato, se correttamente indirizzato, il miglior alleato di un sistema pubblico nel garantire una copertura universalistica ai bisogni fondamentali delle persone».

 

Non autosufficienza, una sfida possibile

Il primo terreno comune di confronto potrebbe essere ad esempio quello della LTC. «Tra il peso del debito pubblico e il mutare dei bisogni, è in effetti indubbio – commenta Cova – che il welfare pubblico oggi fatichi a dare risposte concrete al grande tema irrisolto della non autosufficienza, solo parzialmente affrontata con un trasferimento monetario, l’indennità di accompagnamento, e per il resto quasi del tutto lasciata nelle mani delle famiglie, con il rischio di spese ingenti e risposte differenziate al problema a seconda del censo». Nonostante l’offerta WILA sia già innovativa in tal senso, Ermanno Cova non nasconde che una strada percorribile per il futuro potrebbe essere la costituzione di un fondo mutualistico-solidaristico – sostenuto dalla contribuzione obbligatoria dei datori di lavoro e da quella volontaria e aggiuntiva da parte dei dipendenti - a sostegno delle spese di assistenza ad anziani e disabili in una prospettiva Long Term Care, sulla falsariga di quanto già realizzato da categorie da sempre all’avanguardia su questi temi, e per questo talvolta considerate alla stregua di modelli irraggiungibili, quali bancari e assicurativi.

«Il punto vero della questione è che spesso – precisa Cova - la non autosufficienza non viene affrontata in termini preventivi; eppure dati e modelli disponibili suggeriscono che un approccio collettivo non renderebbe solo la questione più facilmente affrontabile, ma soprattutto consentirebbe di ottimizzare spese e risorse, ancor di più nel caso dell’artigianato che può spesso contare su una popolazione più giovane della media. Certo, anche il mercato si sta muovendo rapidamente, ma sfruttare la leva della contrattazione collettiva, così da proporre costi ragionevoli per i singoli, non è un’utopia. Ricondurre un progetto del genere all’interno di una piattaforma condivisa dovendo oltretutto prima riuscire a individuare un accordo tra tutti le parti coinvolte non sarebbe affatto semplice, ma farebbe degli artigiani un importante esempio da seguire per l’intero sistema». 

Mara Guarino, Itinerari Previdenziali 

21/2/2019 

 
 
 

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