Il mercato del lavoro prima e dopo lo "choc coronavirus": cosa aspettarsi dal 2020?

Se già gli ultimi mesi mostravano una flessione nell'occupazione italiana (sia per quantità che per qualità), l'epidemia da nuovo coronavirus rischia di compromettere ulteriormente la situazione: il bilancio del 2019 e le previsioni per il 2020 nell'ultimo Osservatorio sul mercato del lavoro Itinerari Previdenziali

Mara Guarino e Claudio Negro

I principali indicatori sull’andamento del mercato del lavoro relativi all’ultimo trimestre 2019 e alle prime settimane del 2020 raccontano di una graduale, per quanto non catastrofica, flessione della crescita occupazionale italiana. Una dinamica che non sorprende ricalcando di fatto, con un paio di mesi di scostamento cronologico, quella di un PIL in flessione ormai da qualche tempo, ma che soprattutto impedisce eccessivi entusiasmi sull’anno appena concluso. 

Aumentano sì gli occupati, toccando nel 2019 il numero più elevato di sempre (23.400.000, nonostante il -75.000 del mese di dicembre), ma nel quarto trimestre le attivazioni di rapporti di lavoro sono state lo 0,7% in meno dello stesso periodo del 2018, a fronte di un aumento delle cessazioni del 2,2%. E, soprattutto, non cresce  in parallelo la produttività, come ben evidenziato - secondo l’ultimo Osservatorio a cura del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali - dal confronto con il 2008, anno dei record per l’occupazione italiana prima dell’avvento della crisi finanziaria: fatto 100 il monte ore lavorato in quell’anno – quando gli occupati erano 23.090.348 – il 2019 si ferma a quota 95, palesando oltretutto anche una diminuzione delle ore lavorate pro capite rispetto al 2018 (-0,5%). 

Ancor più interessante, e rivelatrice, è però l’analisi delle cause che stanno alla base della riduzione delle ore lavorate, in buona parte certamente imputabile a una sostanziale mutazione della composizione dell’occupazione e, in particolare, alla crescita massiccia del part-time rispetto al lavoro a tempo pieno. Rispetto al 2008 le giornate lavorate sono aumentate complessivamente del 5%, quelle lavorate part-time del 68%. Naturalmente, la crescita del tempo parziale di per sé – in Italia comunque ancora meno diffuso che nel resto d’Europa – non sarebbe di per sé fatto negativo, se non fosse che sono classificabili come involontari il 64% dei part-time italiani, contro il 23% dell’Unione Europea. In tutta Europa, la platea dei part-timer è prevalentemente al femminile mase nel nostro Paese la scelta del tempo parziale è prevalentemente dettata da esigenze dell’azienda, altrove – si pensi ad esempio all’Olanda, dove addirittura quasi l’80% dell’occupazione femminile è part-time -  è volontaria e tipicamente espressione di precise esigenze di work-life balance. E così, di riflesso, mentre nel caso olandese, il tempo parziale rappresenta un elemento “aggiuntivo” del tasso di occupazione, in Italia assume piuttosto un ruolo distributivo (redistribuisce cioè la stessa occupazione tra più soggetti), pur avendo l’indiscutibile merito di aver fatto crescere a livelli mai toccati prima - con un tasso di occupazione pari al 50,1% - la partecipazione femminile al mercato del lavoro. 

Secondo l’Osservatorio Itinerari Previdenziali, il chiaro sintomo di un mercato del lavoro in cui quantità e qualità dell’occupazione non vanno di pari passo, come dimostra anche una certa recente tendenza a concentrare l’occupazione in impieghi temporanei, spesso oltretutto a scarso valore aggiunto e a bassa retribuzione. Basti pensare che, mediamente, nell’ultimo trimestre sono stati attivati 1,39 contratti per ogni persona avviata al lavoro: il 31% dei contratti attivati (nei quali sono di fatto conteggiati anche quelli a tempo indeterminato) ha avuto una durata da 1 a 30 giorni, il 16% da 31 a 90 giorni, il 31,6% tra 91 giorni e 1 anno, e solo il 15% superiore a 1 anno.

Produttività ferma, scarsi input di lavoro (seppur con importanti distinguo a seconda del settore) e retribuzioni nel concreto quasi del tutto appiattite su quelle contrattuali: un trend che si potrebbe definire purtroppo “acquisito”, cui si aggiunge ora lo choc provocato dal coronavirus, i cui effetti per ora possono essere stimati in una perdita del PIL pari al 10/11%. Per evitare nell’immediato le conseguenze più nefaste, con particolare riferimento ai rapporti di lavoro subordinato, il cosiddetto decreto “Cura Italia” si pone legittimamente l’obiettivo di non far perdere a nessuno il proprio impiego, puntando sul blocco dei licenziamenti e sull’universalizzazione delle integrazioni al reddito. Finita l’emergenza occorrerà però fare i conti con il fatto che difficilmente le imprese, specie quelle più piccole che rischiano grossi problemi di occupabilità, potranno tornare nell’immediato ai fatturati pre-crisi e che lo Stato, altrettanto difficilmente, avrà molte altre risorse da investire nel sostegno all’occupazione. 

Per questo, sarà importante non solo trovare soluzioni opportune per sostenere le piccole e medie imprese, ma anche destinare quanto disponibile in politiche attive del lavoro davvero efficienti (altro che navigator), capaci di far fronte – nel peggiore degli scenari possibili – a un numero in forte crescita di persone da accompagnare verso il ricollocamento.

Mara Guarino, Itinerari Previdenziali 

Claudio Negro, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali e Fondazione Anna Kuliscioff 

25/3/2020

 
 

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