La situazione degli stranieri nel mercato del lavoro in Italia

Da un'attenta analisi dell'impatto degli stranieri sul mercato del lavoro italiano emergono alcune considerazioni che il dibattito sul tema non può permettersi di trascurare in favore di posizioni meramente ideologiche: ancor di più alla luce di COVID-19, urge anzi un serio ripensamento delle politiche di immigrazione (e di integrazione)

Alberto Brambilla e Natale Forlani

La pubblicazione annuale del Rapporto "Gli stranieri nel mercato del lavoro in Italia” rappresenta un'occasione per valutare l’evoluzione del fenomeno migratorio e le specifiche condizioni degli stranieri nel mercato nazionale con l’utilizzo di una mole notevole di fonti statistiche nazionali e internazionali. Nonostante sia l’unico esempio in Italia di una reportistica pubblica periodica in materia di immigrazione, in ambiti che spaziano dalla demografia al mercato del lavoro e alle condizioni di reddito e di accesso ai servizi del welfare, declinati anche per comunità nazionali di origine, il contributo offerto dal Rapporto per la conoscenza dei fenomeni migratori viene ampiamente trascurato dai mass media e dalle stesse istituzioni pubbliche che lo dovrebbero utilizzare anche per valutare l’efficacia delle politiche adottate. Pare che invece trovino più riscontro pubblicazioni meno scientifiche e certamente più ideologiche.

Il X Rapporto, recentemente pubblicato, svolge un importante approfondimento sulla evoluzione degli immigrati nel mercato del lavoro e sul collocamento dell’Italia nell’anno che precede l’effetto traumatico della pandemia COVID-19, destinata a generare effetti importanti sui flussi migratori sulle condizioni di lavoro e di reddito della popolazione immigrata. Al suo interno anche due originali contributi di analisi sulla condizione delle donne immigrate e delle transizioni lavorative delle seconde generazioni.

 

Il posizionamento dell'Italia nei nuovi flussi di migrazione 

Nel 2019, con 5.255.000 di stranieri (8,7% sul totale dei residenti e + 2,2% rispetto al 2018) l’Italia si mantiene saldamente al terzo posto tra i Paesi europei per numero di migranti accolti. Per il secondo anno consecutivo, l’incremento della popolazione straniera, (+111mila) non ha compensato la diminuzione della popolazione autoctona che si è ridotta di 235mila unità. Negli ultimi 5 anni il trend dei nuovi flussi d’ingresso è diminuito per intensità e profondamente mutato in termini qualitativi; buona parte dell’incremento della popolazione straniera nell’ultimo decennio, pari a 1,607 milioni, si è verificato negli anni coincidenti la grande crisi economica 2008 -2014, sia per il contributo offerto da due procedure di regolarizzazione, sia per l’avvento della libera circolazione dei cittadini neo-comunitari e dell'aumento molto significativo dei nuovi ingressi per motivi di ricongiunzione familiare. 

Negli ultimi 4 anni la media dei nuovi permessi annualmente rilasciati si è attestata intorno alle 240.000 unità, il 50% dei quali per motivi di ricongiunzione familiare, il 27% per ragioni umanitarie, e solo il 6% per motivi di lavoro. Nel panorama dei Paesi aderenti all'Unione Europea, le nuove migrazioni hanno soprattutto contribuito a compensare la diminuzione della popolazione attiva autoctona. Con le eccezioni della Germania, dell’Austria e dei Paesi del Nord-Europa, che hanno registrato una significativa espansione dell’accoglienza dei nuovi flussi migratori, compresi quelli per motivi umanitari per una quota rilevante di immigrati transitati in precedenza dall’Italia e dalla Grecia. Il sostanziale dimezzamento dei flussi migratori verso l’Italia, rispetto alle medie registrate nel primo decennio del nuovo secolo, trova conferma nell’analisi offerta dall’OCSE sul peso dell’Italia nei nuovi flussi di ingresso nei Paesi aderenti: il 5% sui 5,2 milioni di persone in possesso di un permesso permanente o temporaneo di soggiorno. Nonostante l’intensità degli sbarchi nel Mediterraneo il contributo nel mercato del lavoro degli immigrati in possesso di permessi di soggiorno per motivi di protezione internazionale è stato marginale.

La bassa attrattività del nostro mercato del lavoro trova un riscontro anche nel decremento della partecipazione degli studenti stranieri nelle università nell’ultimo decennio: meno 27% rispetto al più 30% dell’insieme dei paesi europei, cioè circa 18mila studenti su un totale di 577 mila. Il declino dei flussi di ingresso si riflette inevitabilmente nella riduzione della quota dei nuovi migranti, residenti da meno di 5 anni, dal 28% al 8% sul totale della popolazione straniera. Tra i 5,255 milioni di immigrati regolarmente residenti, 1,314 milioni sono di origine comunitaria, per il 90% provenienti dalla Romania. I 3,931 milioni di extra-comunitari sono distribuiti su numerose comunità di origine, 14 delle quali con più di 100mila appartenenti, provenienti da Africa (31,2%), Asia (30,4%), Europa dell’est e Balcani (27,9%), Americhe (10%). Le etnie marocchina (434mila), albanese (428mila) e cinese (318mila) sono stabilmente le tre comunità più numerose. Le prime due con numeri che tendono formalmente a declinare per l’effetto dell’accoglimento delle domande di cittadinanza italiana per una parte dei loro connazionali. Sono le comunità di origine, in particolare quelle dei Paesi africani e asiatici, a sviluppare un effetto trainante per i nuovi ingressi, con le ricongiunzioni, con le reti informali di accoglienza, con l’utilizzo delle periodiche sanatorie e delle residue programmazioni delle nuove quote di ingresso.

 

L'impatto sul mercato del lavoro

Nel 2019 popolazione di origine straniera in età di lavoro, 4,033 milioni, era distribuita su 2,505 milioni di occupati (10,7% sul totale degli occupati), 402mila persone in cerca di lavoro, e 1,175 milioni di inattivi. La crescita della occupazione rispetto all’anno precedente, +50mila unità, rappresenta poco più di un terzo di quella complessiva nel mercato del lavoro italiano che ha visto un incremento di 145mila unità, ma non ha offerto un significativo contributo alla riduzione del numero dei disoccupati immigrati, da alcuni anni stabilizzato intorno a 400mila unità, e delle persone inattive (+ 37mila). I tassi di occupazione (61%), disoccupazione (13,9%), e di inattività rimangono sostanzialmente inalterati rispetto a quelli registrati per gli italiani. Per i lavoratori autoctoni il costante aumento del tasso di occupazione, +1,6% nel 2019, è influenzato dalla riduzione della popolazione residente in età di lavoro. Queste tendenze sono inevitabilmente destinate a perdurare anche nei prossimi anni, per effetto della minore età media della popolazione attiva immigrata e della maggior incidenza delle seconde generazioni di origine straniera nei nuovi flussi di ingresso nel mercato del lavoro. 

Il tasso di occupazione degli immigrati si mantiene storicamente al di sopra a quello degli italiani, caso unico nel contesto europeo in relazione al ridotto tasso di occupazione della popolazione autoctona, ma rimane a sua volta distante (-5%) rispetto a quello medio degli occupati immigrati negli altri Paesi e al di sotto di 7 punti rispetto al picco precedente la crisi economica iniziata nel 2008. Una riduzione che si è verificata nonostante la crescita di oltre 800mila occupati per l’effetto del forte aumento della popolazione immigrata in età di lavoro, che però ha comportato in parallelo anche un raddoppio del tasso di disoccupazione e un forte aumento del numero delle persone inattive. Giova evidenziare che in quasi tutti i Paesi europei, dopo un significativo peggioramento degli indicatori occupazionali nella prima parte dell’ultimo decennio, i tassi di occupazione della popolazione straniera sono tornati ai livelli precedenti la crisi economica, sulla media del 66%, sebbene al di sotto di 3 punti rispetto a quella dei lavoratori nativi. L’impatto di queste tendenze è stato fortemente differenziato sulle comunità di origine presenti in Italia in relazione alle specializzazioni produttive e, soprattutto, alla condizione lavorativa delle donne immigrate.

Il tasso di occupazione risulta essere particolarmente elevato, con percentuali che oscillano tra il 65% e l’80%, per le comunità che registrano un'elevata partecipazione delle donne nel mercato del lavoro, come quella filippina, moldava, peruviana, ucraina, cinese e srilankése. All’opposto, rimane largamente sotto la media, per le comunità marocchina, albanese, pakistana, indiana, tunisina e ghanese, che registrano rilevantissimi tassi di disoccupazione e di inattività per la componente femminile. L’incidenza settoriale degli immigrati sul totale della occupazione è consolidata nei servizi collettivi e alle persone (36%), nell’agricoltura (18,3%), nelle costruzioni (17,8%), nell’alberghiero e ristorazione (17,7%). Inferiori alla media, ma con un numero elevato di occupati in termini di valore assoluto, anche nei settori della manifattura e del commercio. 

Sulle nuove assunzioni, nel 2019 in base alle rilevazioni effettuate dal sistema delle comunicazioni obbligatorie per i datori di lavoro, i livelli di partecipazione degli immigrati risultano ancora più elevati: 2,292 milioni sul totale di 11,757 milioni (19,5%) in particolare in agricoltura (38,4%), nelle costruzioni (23%), nell’industria (20,9%), nelle altre attività dei servizi (15,6%). Queste dinamiche sono da collegare alla maggiore incidenza degli immigrati nei turn over della popolazione attiva e agli elevati livelli di mobilità lavorativa che caratterizzano i settori con una forte concentrazione di lavoratori immigrati, che trovano riscontro nella durata media dei rapporti di lavoro, la metà dei quali inferiore ai 3 mesi, e di un ulteriore 35% della durata inferiore all’anno. Da segnalare, negli anni recenti, una significativa diminuzione della incidenza degli immigrati di origine comunitaria, sul totale dei nuovi rapporti di lavoro attivati per i lavoratori stranieri, dal 38% del 2014 all’attuale 31%. Sullo stock dei lavoratori occupati dipendenti, l’incidenza dei contratti a tempo determinato è del 22%, rispetto al 16% dei lavoratori italiani.

Per tipologia di rapporti di lavoro, il peso occupazionale rimane concentrato per l’87% sul lavoro dipendente, il 77% nelle figure operaie e nelle qualifiche medio basse, ma con una significativa crescita del 2,7% dei lavoratori autonomi nel corso dell’ultimo anno. I rapporti a tempo determinato, pari al 68% delle nuove attivazioni nel corso del 2019, hanno riguardato in particolare la quasi totalità dei braccianti agricoli e oltre il 70% del personale dedicato ai servizi di accoglienza, ristorazione, igiene e pulizia, magazzinaggio, conduzione mezzi di trasporto. All’opposto prevalgono le assunzioni a tempo indeterminato per gli addetti alla assistenza alle persone e nel lavoro domestico. Da segnalare che in quest’ultimo settore, per le specifiche caratteristiche lavorative, il contratto a tempo indeterminato non contribuisce a ridurre i livelli di mobilità dei rapporti di lavoro che rimane comunque molto elevata. Gli orientamenti culturali delle comunità di origine si riflettono anche nelle specializzazioni produttive e professionali, con una marcata presenza delle lavoratrici dell’est Europa, delle Filippine e del Perù nel lavoro domestico e nell’assistenza alle persone, di indiani, ghanesi, tunisini, marocchini e pakistani nell’agricoltura, di rumeni e albanesi in edilizia, dei cinesi nell’industria, degli egiziani e bengalesi nel commercio e nella ristorazione.

 

L'evoluzione delle condizioni di lavoro e di reddito

Un'interessante analisi sull'evoluzione del mercato del lavoro nel decennio 2009/2018, contenuta nel Rapporto annuale realizzato in accordo tra Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Istat, INPS, Inail e ANPAL, mette in evidenza come, a parità di popolazione occupata, si sia verificato un significativo aumento dei contratti a termine e a part-time, e della quota di lavoratori con bassa qualificazione (+1,230 milioni), a discapito delle figure operaie e qualificate (-1,275 milioni). Dinamiche che coincidono con il significativo spostamento degli occupati immigrati nei settori dei servizi alle persone e alle imprese, che ha comportato un analogo aumento del loro peso specifico nel mercato del lavoro, proseguito anche nel corso del 2019. La retribuzione media annua per la componente dei lavoratori extracomunitari, con esclusione dei lavoratori domestici e agricoli, nelle rilevazioni effettuate dall’Osservatorio statistico dell’INPS per il triennio 2017-2019, è di 14.287 euro, del 35% inferiore a quella dei lavoratori italiani. Quella dei lavoratori domestici e agricoli è di poco superiore ai 7.500 euro, in questo caso con scostamenti poco significativi rispetto a quelle dei nativi.

La frammentazione dei rapporti di lavoro, le retribuzioni basse e la rilevante componente di lavoro sommerso e di sotto-occupazione presente nei settori che registrano una rilevante partecipazione di lavoratori immigrati ha generato riflessi negativi sulle condizioni di reddito delle persone e dei nuclei familiari stranieri residenti in Italia. Sulla base della recente indagine Istat sull’andamento dei redditi delle famiglie per l’anno 2019, si può affermare che il 31% dei nuclei composti da soli stranieri versa in condizioni di povertà assoluta, rispetto al 6,3% di quelli italiani; quasi il doppio per la povertà relativa. Una condizione che riguarda anche il 12,9% dei nuclei con lavoratori occupati. L’incidenza della povertà assoluta aumenta nei nuclei con figli a carico e riguarda il 40% dei minori coinvolti.

Numeri che fanno sorgere legittimi dubbi sulla congruità di alcune analisi prodotte da centri di ricerca privati, recentemente confermate dall'ultimo Rapporto immigrazione Caritas e Migrantes, riguardanti il contributo economico degli occupati immigrati sul PIL Italiano e, soprattutto, su un presunto saldo positivo nell’apporto dei costi benefici sulla finanza pubblica. La specifica condizione dei redditi da lavoro dipendente, che riguardano il 90% dei potenziali contribuenti immigrati, rende evidente che la stragrande maggioranza degli stessi sia da collocare nella fascia dei redditi IRPEF non soggetti alla tassazione, o che non risultano contribuenti attivi a seguito delle detrazioni per carichi familiari. Non certo la quota dei 2,3 milioni di contribuenti attivi, sui 2,5 milioni di occupati, presa in considerazione nei rapporti e nelle analisi della Caritas e della Fondazione Leone Moressa per stimare un versamento complessivo di 3,29 miliardi di imposte sul reddito delle persone fisiche. Quanto all’importo dei contributi previdenziali, impropriamente preso in considerazione nella analisi dei costi benefici annuali, come se fossero assimilati a contributi a fondo perduto anziché degli accantonamenti per la prospettiva di future prestazioni previdenziali per gli interessati, l’importo dei 13,5 milardi di versamenti annui, calcolato su un differenziale medio pro-capite inferiore del 35% rispetto a quello dei lavoratori italiani, risulta comunque abbondantemente sovrastimato per la natura delle contribuzioni nel settore domestico e agricolo, così come per la frammentarietà dei rapporti di lavoro che caratterizza i settori e le mansioni degli immigrati. Utile peraltro ricordare come l’INPS non abbia mai fornito delle stime certificate sulla materia. 

 

Criticità e problematiche future

Nel corso del 2019, nonostante il leggero incremento degli occupati, le condizioni di lavoro e di vita degli immigrati regolarmente residenti in Italia non sembrano aver avuto riscontri positivi, nonostante l’aumento degli anni di residenza degli immigrati, che nei Paesi di accoglienza aderenti all’OCSE coincide di solito con il miglioramento delle condizioni professionali e di reddito degli immigrati. In particolare producono dei riflessi negativi sia l’aumento nell’ultimo decennio di circa 1,5 milioni di persone in cerca di occupazione, scoraggiate o disponibili a rientrare nel mercato del lavoro a determinate condizioni, sia la specifica condizione dei mercati del lavoro dove operano gli immigrati, caratterizzata in gran parte dalla frammentazione dei rapporti di lavoro, da rilevanti quote di lavoro sommerso e di sotto-occupazione. Con dinamiche di turn over alimentate da circuiti informali per il reperimento di manodopera a basso costo, non di rado presidiati da esponenti delle etnie di appartenenza degli stessi lavoratori, in particolare dei Paesi extra-comunitari, che finiscono per determinare un effetto di attrazione di nuovi immigrati a prescindere dalla sostenibilità del mercato del lavoro. Un circuito vizioso che deprime la produttività e il reddito delle persone diventando esso stesso la condizione di sopravvivenza delle attività economiche e dei servizi. 

Alla luce di quanto fin qui descritto, dovrebbero essere riviste le convinzioni che ritengono necessario un continuo aumento di immigrati per motivi demografici e, con la scusa che determinati lavori sono disdegnati dagli italiani, assunte come fondamento del perenne fabbisogno di importare manodopera immigrata dequalificata. Con il contorno di analisi dei costi benefici dell’immigrazione, finalizzate a dimostrare degli (improbabili) bilanci positivi sul versante degli introiti dello Stato italiano. Un fenomeno che sta producendo guasti profondi nelle condizioni di lavoro e di vita degli immigrati regolarmente residenti nel nostro Paese.

Il ripensamento delle politiche dell’immigrazione, in funzione di un miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita degli immigrati è più che mai urgente alla luce di due evidenze: la prima riguarda le conseguenze di COVID-19 e della crisi economica in atto, che comporteranno effetti negativi sull’occupazione immigrata soprattutto in alcuni comparti dei servizi; la seconda, invece, i pesanti ritardi delle politiche di integrazione, rappresentati in particolare dalla specifica condizione femminile all’interno di numerose comunità di origine e degli elevati abbandoni dal sistema scolastico che riguardano le seconde generazioni degli immigrati.

Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 

Natale Forlani, Comitato Tecnico Scientifico Itinerari Previdenziali 

18/10/2020

 
 
 

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