Lavoratori over 55 e invecchiamento attivo, sfide e strumenti

Sotto la spinta dell’invecchiamento della popolazione e della normativa previdenziale vigente, aumentano i lavoratori di età compresa tra i 55 e i 64 anni. Poche però le misure per favorirne permanenza sul lavoro, benessere psico-fisico e produttività

Mara Guarino

La fascia d’età compresa tra i 55 e i 64 anni è una di quelle più cresciute, sotto il profilo occupazionale, negli ultimi quindici anni. Un fenomeno indubbiamente correlato al progressivo aumento dell’età media della popolazione italiana e mondiale, ma che merita al tempo stesso grande attenzione se si considera che, a lungo, uno dei tratti caratteristici del mercato del lavoro del nostro Paese ha riguardato proprio la scarsa partecipazione degli over 55. Tanto che, nel 2001, quando la strategia di Lisbona fissava al 50% l’obiettivo del tasso di occupazione per la fascia 55-64 anni, a fronte di una media UE che allora si assestava al 38%, il tasso italiano era al 28,1%.

Con riferimento al 2017, il tasso di occupazione italiano si è spinto fino al 52,2%: il differenziale europeo resta ampio, ma l’obiettivo europeo è stato raggiunto e con ritmi proporzionalmente superiori agli altri Paesi. Quali però le cause e ancor più le ricadute di questo progressivo invecchiamento della forza-lavoro italiana? Punto di partenza del dibattito è senza ombra di dubbio l’origine del trend: l’aumento significativo della partecipazione degli over 55 alle forze di lavoro è dovuto, almeno in Italia, in grande prevalenza alla Legge Monti-Fornero, che ha prolungato i termini per il pensionamento. Più precisamente, l’assetto normativo-istituzionale del nostro sistema pensionistico tiene già conto di queste tendenze demografiche attraverso due stabilizzatori automatici che ne garantiscono l’equilibrio finanziario: la revisione periodica dei coefficienti di trasformazione e l’adeguamento dei requisiti pensionistici alla speranza di vita. In aggiunta, però, la riforma ha agganciato non solo l’età anagrafica, ma anche l’anzianità contributiva alla speranza di vita, rendendo di fatto il sistema più rigido in uscita e prolungando la permanenza degli anziani sul posto di lavoro. 

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Se i trend demografici in atto rendono quindi comprensibile la necessità di mantenere un rapporto più equo tra anni di lavoro ed età di pensione, così come tra occupati e pensionati (ancora più essenziale in uno sistema a ripartizione come quello italiani), si rende d’altra parte necessario pensare anche a come conciliare le esigenze si sostenibilità del sistema con quelle del benessere psico-fisico dei lavoratori e delle aziende che li occupano. Negli ultimi anni, l’attenzione ai problemi dei lavoratori senior si è spesso concentrata, anche in osservanza alla vulgata popolare, sulla questione di mandarli in pensione il prima possibile, talvolta con misure “tampone” di scarso esito. Salvo poche eccezioni, poco o nulla è stato messo in atto per incentivare buone politiche di invecchiamento attivo.

Secondo quanto emerso dal primo Osservatorio sul Mercato del Lavoro a cura del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, i lavoratori anziani non sono di fatto "invogliati" a rimanere al lavoro e, anche “quando costretti”, non sono spesso messi nelle condizioni migliori per farlo, in mancanza di interventi che ne favoriscano un uso strategico anche per le imprese. Di qui, la necessità di una (nuova) strategia di age management che, andando di pari passo con la valutazione dei fattori che indicano sulla capacità di lavorare e, in particolare, di svolgere determinate mansioni, aiuti a realizzare il miglior matching possibile tra i fabbisogni dell’azienda e le competenze, esperienza ed esigenze dei lavoratori over 55. Due, in particolare, i punti cardine sui quali agire: la riorganizzazione delle modalità di lavoro, ricorrendo ad esempio dove possibile a soluzioni d’orario flessibile oppure a telelavoro e smart working, e la riorganizzazione dell’ambiente di lavoro con accorgimenti che minimizzino ad esempio gli spostamenti e favoriscano l’aumento della produttività.

Il tutto senza trascurare un altro elemento fondamentale, quello della formazione come strumento per contrastare, e se possibile, anticipare i rischi dell’obsolescenza delle competenze professionali. Quello del mismatch delle competenze è del resto, anche alla luce della quarta rivoluzione industriale in atto, un problema in realtà trasversale a più classi di età. Anzi, se il contesto produttivo è oggi tale da richiedere persino ai dipendenti più giovani un costante aggiornamento delle proprie conoscenze e capacità (anzi, l'attenzione nei confronti degli "over" ha forse in parte mascherato questo problema), la crescente presenza di lavoratori over non può che rappresentare un’ulteriore spinta delle politiche attive per il lavoro, da una parte, verso modelli di formazione professionale continuativa on the job e, dall’altra, verso eventuali soluzioni di ricollocamento e riqualificazione realizzate a mezzo di formazione mirata e su misura. 

 
Mara Guarino, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali
 
17/07/2018
 
 

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