Mercato del lavoro, occupati finti e disoccupati veri

La diversa classificazione di occupati e disoccupati adottata dall'Istat aiuta a rileggere l'impatto della pandemia di COVID-19 sul mercato del lavoro italiano: trovano in particolare conferma le stime che ipotizza(va)no almeno un milione di posti persi al decadere dello stop ai licenziamenti economici

Claudio Negro

I nuovi criteri statistici emessi dall’UE ai quali da questo mese l’Istat si attiene per elaborare i dati periodici sul mercato del lavoro riguardano essenzialmente i lavoratori sospesi dalla attività ma in costanza di rapporto di lavoro (per i dipendenti) e che abbiano sospeso l’attività solo temporaneamente (per gli autonomi) che finora erano considerati “occupati”. La nuova metodologia prevede invece che venga considerato non occupato - in precedenza classificato come “inattivo” - il dipendente che sia in una qualche forma di sospensione temporanea del lavoro (CIG o equivalenti) da oltre 3 mesi, e l’autonomo che non abbia svolto attività per il medesimo periodo.

Come ben sottolineato dai quotidiani e da molti commentatori, l’effetto più clamoroso di questa novità è l’impressionante aumento della categoria dei “non occupati”, e quindi per il comune sentire della disoccupazione.

In effetti i dati diffusi il 6 aprile, riferiti al mese di febbraio, mostrano 945.000 occupati in meno rispetto a febbraio 2020 (ultimo mese prima della pandemia), mentre con vecchi criteri l’ultimo dato (gennaio su febbraio 2020) eravamo poco sopra i 420.000. Il recente dato di -945.000 coincide quasi con le stime realizzate in occasione delle ultime pubblicazioni della Fondazione Anna Kuliscioff e di Itinerari Previdenziali di circa 1 milione di posti di lavoro perduti, che si manifesteranno quando verrà meno il divieto di licenziamenti individuali economici. La novità è stata male accolta dai sindacati, ma purtroppo non fa altro che dimostrare quanto lo stop ai licenziamenti fortemente richiesto (e ottenuto) non fosse che un’illusione statistica, nella migliore delle ipotesi finalizzata a moderare il panico.

Un altro indicatore che fa giustizia di un abbaglio generato dalla statistica è quello relativo all’aumento, quantomeno percentuale, dei contratti a tempo indeterminato, che non sono mai stati reali (anche se a qualcuno piaceva attribuirli all’effetto del “Decreto Dignità”) ma determinati proprio dalle novità sui licenziamenti: gli oltre 100.000 dipendenti “stabili” in più segnalati negli ultimi 12 mesi del 2020 sono in realtà 218.000 in meno. Per ovvie ragioni, l’unico dato che resta stabile è quello relativo alla diminuzione degli occupati a termine (circa 370.000): il contratto a tempo determinato ha vita definita e, pertanto, non ha “difese” contro la cessazione.

Tutto ciò obbliga a riconsiderare in negativo tutta una serie di parametri rispetto alle rilevazioni di fine anno: il tasso di occupazione scende dal 58% al 56,5%, e l’incidenza delle donne sul numero totale dei non occupati cala ancora più significativamente. Anche in questo caso si tratta di un puro effetto statistico, poiché l’ingresso nella categoria dei non occupati di oltre mezzo milione di uomini finora protetti dallo scudo anti-licenziamenti modifica ovviamente le proporzioni. Tuttavia la cosa pare non piacere ai sindacati i quali lamentano che, in questo modo, risulta alleggerita nell’immagine pubblica la questione dell’occupazione femminile...

Giustamente Andrea Garnero e Massimo Taddei, in un lavoro pubblicato su lavoce.info, osservano che sarebbe molto più attendibile utilizzare come indicatore dell’occupazione reale il monte ore lavorato: tuttavia, in quest’ultima rilevazione, Istat non rende disponibile questo dato. 

Claudio Negro, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali e Fondazione Anna Kuliscioff

12/4/2021

 
 

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