Natalità in calo: strumenti e ruolo della conciliazione tra vita privata e lavoro

Per molti lavoratori e, ancor di più per molte lavoratrici, la cura dei figli resta difficile da conciliare con l'attività professionale, ponendo talvolta davanti a scelte complicate: ecco perché potenziare gli strumenti volti a favorire il work-life balance potrebbe incidere positivamente sull'occupazione femminile e persino sul tasso di natalità del Paese

Mara Guarino

Nelle ultime settimane, diverse ricerche - non ultima quella Istat sui centenari in Italia - hanno comprensibilmente risollevato l’attenzione sulla “questione demografica” che sta affliggendo il nostro Paese, dove si vive sempre più a lungo (anche se non sempre in buona salute) ma nel quale le nascite sono in costante diminuzione, tanto che nel corso del 2018 la differenza tra nati e morti è stata negativa per circa 193mila unità. Due tendenze che, proprio perché combinate tra loro, non possono che obbligare a riflessioni su presente e futuro del sistema di welfare, pubblico e integrato, italiano: se, da un lato, il progressivo invecchiamento della popolazione porta con sé tante opportunità, quelle della cosiddetta Silver Economy, quante criticità legate in particolar modo alla gestione della non autosufficienza, la natalità in calo non può che indurre a (ri)considerare politiche e strumenti attualmente previsti dal nostro ordinamento a favore della genitorialità. 

Pur non esaustivo dell’intera questione, che difficilmente può essere esaurita analizzando solo una delle molteplici sfumature che la caratterizza, così come del resto ben evidenziato sia da Michaela Camilleri in questo articolo sia da una recente inchiesta realizzata da Percorsi di Secondo Welfare per Corriere Buone Notizieuno dei nodi centrali è senza ombra di dubbio quello della conciliazione vita-lavoro, tema recentemente posto al centro di una direttiva europea volta a incentivare le politiche in materia di equilibrio tra attività professionale e vita familiare. Un tema - va detto - che di per sé non dovrebbe conoscere genere ma che, anche per ragioni storiche e culturali, si tinge inevitabilmente di “rosa” quando si guarda ai numeri: nel 2018, più di donna su 10 ha rinunciato a lavorare per dare la priorità a responsabilità di natura familiare. 

Non solo, mentre secondo il recente Report Istat “Famiglie e mercato del lavoro” ha evidenziato come tra le coppie con minori solo nel 27,5% dei casi entrambi i genitori lavorino a tempo pieno (nel 16% delle famiglie il padre è occupato full-time, mentre la madre ha un’occupazione che la assorbe “solo” a tempo parziale), con inevitabili limitazioni per il contributo femminile sia al mercato del lavoro sia all’economia familiare, l’ultima Relazione annuale sulle convalide delle dimissioni e risoluzioni consensuali della lavoratrici madri e dei lavoratori padri a cura dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, sempre con riferimento allo scorso anno, evidenzia come la motivazione più citata al momento della fase di convalida sia stata proprio l’incompatibilità tra l’occupazione lavorativa e le esigenze di cura della prole: delle 56.636 motivazioni adottate (al momento del colloquio è possibile specificare più ragioni) oltre 20mila - pari al 36% del totale - sono di fatto riconducibili al mancato raggiungimento del work-life balance. Nel dettaglio, è stata citata oltre 15.000 volte tra le motivazioni (circa il 27% del totale) l’assenza di parenti con funzione di supporto, quasi 4mila volte - vale a dire il 7% del totale l’elevata incidenza dei costi di assistenza al neonato (asilo nido, baby-sitter, etc) e, infine, 920 motivazioni (pari a circa il 2%) fanno riferimento al mancato accoglimento al nido.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  Fonte: Relazione annuale sulle convalide delle dimissioni e risoluzioni consensuali della lavoratrici madri e dei lavoratori padri

Tutte ragioni interconnesse tra loro, come in una sorta di circolo - molto poco - virtuoso. Il fatto che il mancato accoglimento al nido sia la motivazione meno citata, e con valori oltretutto in progressivo calo rispetto alle rilevazioni degli anni precedenti, non può permettere alcun sospiro di sollievo, come dimostra il fatto che la rete familiare sia tuttora determinante nella cura dei neonati, creando peraltro una forte dipendenza delle famiglie più giovani da quelle di provenienza o, ancora, come testimoniato dalle quota numerosa di dimissioni che “puntano il dito” contro gli elevati costi di baby-sitter e altri servizi di assistenza al neonato che spesso si rendono necessari proprio per garantire continuità alla propria professione, in alternativa o in aggiunta al nido. Tutti costi poi solo parzialmente attenutati dalle misure monetarie a sostegno della genitorialità oggi previste dal sistema di protezione sociale italiano (bonus asili nido, bonus e premi alla nascita, etc). 

Un’ulteriore controprova è offerta da un’interessante ricerca di Fondazione Openpolis, che sottolinea l’esistenza di una chiara relazione tra la partecipazione delle donne al mercato del lavoro e l’estensione dei servizi per la prima infanzia. Nelle 4 regioni italiane (Valle d’Aosta, Umbria, Emilia-Romagna e Toscana) in cui la presenza di asili nido e servizi integrativi per la prima infanzia supera il 33% - obiettivo fissato nel 2002 dal Consiglio europeo a Barcellona - il tasso di occupazione femminile supera il 60%; al contrario, le regioni con meno occupate - Campania, Sicilia, Calabria e Puglia - sono anche quelle con meno asili.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Una relazione che può essere letta anche nel senso opposto (la minore occupazione non incentiva la “domanda” di servizi per l’infanzia), ma che comunque conferma come ogni strumento a favore della conciliazione vita-lavoro sia un incentivo all’occupazione, in particolare modo femminile. E, di riflesso, possa essere persino interpretato con un incentivo stesso alla genitorialità, contribuendo alla creazione di un contesto socio-economico nel quale le famiglie e soprattutto le madri non debbano sentirsi in qualche modo o misura “costrette” a sacrificare il lavoro in favore della vita familiare, o viceversa. 

Ora, secondo gli ultimi dati Istat riferiti all’anno scolastico 2016/2017, sul territorio nazionale sono presenti 13.147 servizi socio-educativi per l’infanzia, la maggior parte dei quali asili nido (nidi, micronidi, nidi aziendali e sezioni primavera delle scuole d’infanzia adibite all’accoglienza dei bambini di età compresa tra i 24 e i 36 mesi); i posti autorizzati al funzionamento sono invece circa 354mila, poco più della metà dei quali pubblici (il 52%). Il restante 48% è invece riconducibile a iniziative private. In rapporto alla popolazione target, la dotazione complessiva è al di sotto del 33% fissato dall’Unione europea: pur tenendo conto del caso dei bambini anticipatari, vale a dire che anticipano il loro ingresso nelle scuole di infanzia, fa comunque riflettere che i posti disponibili corrispondano al 24% dei bambini residenti sotto i 3 anni di età.  La situazione sul territorio è molto eterogenea: basti pensare che, a livello regionale, la disponibilità di servizi varia da un minimo del 7,6% dei posti sul potenziale bacino di utenza in Campania a un massimo del 44,7% in Valle D’Aosta. Non solo, mentre in alcune regioni, come l’Emilia-Romagna, i nidi e i servizi integrativi pubblici contribuiscono in maniera determinante ad ampliare l’offerta, in altre, come l’Umbria, èdecisivo l’apporto delle strutture private.
 

Fonte: Report Istat “Asili nido e altri servizi socio-educativi per la prima infanzia”

Dati dai quali si possono quindi ricavare due importanti conclusioni. La prima riguarda l’inadeguatezza dell’offerta complessiva sul territorio italiano: pur all’interno di un quadro molto articolato, nel quale è certo impossibile individuare un unico servizio o un’unica prestazione che possa essere causa o soluzione dell’intera questione della conciliazione vita-lavoro, le rilevazioni evidenziano gravi carenze rispetto agli obiettivi europei e squilibri territoriali altrettanto pesanti, persino all’interno delle stesse regioni (ad esempio, nel confronto tra comuni periferici e capoluoghi, dove tende a concentrarsi maggiormente l’offerta pubblica). 

La seconda riguarda invece la necessità di (continuare a) costruire sinergie efficaci con il privato, ancor di più in un ambito nel quale il pubblico non riesce a soddisfare autonomamente le esigenze dei cittadini, anche a causa di una minore capacità di spesa da parte dei comuni e della riduzione dei trasferimenti statali destinati alle politiche sociali. Aumentano ad esempio le convenzioni e le gestioni affidate ai privati, a discapito dei nidi comunali gestiti direttamente, e cresce anche, sempre secondo Istat, la quota a carico degli utenti sul totale della spesa corrente dei comuni, passata dal 17% del 2004 al 20% del 2013, attestandosi a partire dal 2015 al 19%. Il che oltretutto implica che, anche nel caso delle strutture pubbliche, le rette a carico delle famiglie contribuiscono in modo sempre più significativo al finanziamento dei servizi. 

Ed è proprio qui che possono allora entrare in gioco gli attori del cosiddetto secondo welfareCirca 220 i nidi aziendali oggi presenti sul territorio italiano, per lo più come forma di welfare aziendale spesso ad appannaggio dei figli dei dipendenti impiegati da grandi aziende, ma in crescita ad esempio anche le soluzioni interaziendali, che possono ridurre i costi di realizzazione e gestione a carico delle PMI, favorendo così l’estensione di questa opportunità anche i lavoratori di imprese di piccole e medie dimensioni. Il tutto, mentre con l’intento di farsi portatrici di una moderna visione di welfare strategico, anche le Casse dei liberi professionisti stanno sviluppando anno dopo anno misure e soluzioni volte a sostenere la professione con un occhio di riguardo nei confronti della platea femminile e delle esigenze legate alla maternità. 

Segnali forse ancora troppo piccoli rispetto alla dimensione del problema, ma quantomeno incoraggianti. 

Mara Guarino, Itinerari Previdenziali

10/9/2019

 
 

Ti potrebbe interessare anche