Non è un Paese per (lavoratori) "vecchi"

Progressivo invecchiamento della popolazione e restringimento della flessibilità in uscita hanno portato il mercato del lavoro italiano a impiegare un numero via via crescente di lavoratori senior: nel concreto, poco però è stato fatto per trasformarne la maggiore permanenza in una vera opportunità

Mara Guarino

Nonostante il trend demografico vada ormai da tempo nella direzione di un progressivo allungamento della speranza di vita mediatratto distintivo del mercato del lavoro italiano è a lungo stata una scarsa partecipazione da parte dei lavoratori più anziani, tanto che quando nel 2001 la strategia di Lisbona fissava al 50% l’obiettivo del tasso di occupazione per la fascia di età 55-64 anni, il tasso italiano era fermo al 28,1%, ben distante anche dalla media UE, all’epoca pari al 38%. Negli anni, in verità, il gap è stato – almeno in parte - colmato: con riferimento al 2019, lo stesso dato era infatti risalito a buoni ritmi fino al 54,3% (60% la media dell’Unione). 

Figura 1 - Tasso di occupazione nella fascia di età 55-64 anni
% occupati su totale popolazione residente

Figura 1 - Tasso di occupazione nella fascia di età 55-64 anni % occupati su totale popolazione residente

Come ricorda però l’ultimo Osservatorio sulla spesa pubblica e sulle entrate Itinerari Previdenziali dedicato alla Silver Economy e alle opportunità dell’invecchiamento in ottica sociale, economica e di sostenibilità, la Strategia di Lisbona individuava la chiave di volta di una maggior partecipazione degli “anziani” al mercato del lavoro in un insieme di strategie atte ad allungarne la permanenza (incentivazioni, flessibilità nell’organizzazione del lavoro, aumento dell’età pensionabile), nel caso italiano la maggiore partecipazione è stata in realtà raggiunta ricorrendo quasi esclusivamente a riforme del sistema pensionistico, dalla Amato del 1992 alla Monti-Fornero del 2011. Per effetto del restringimento in uscita, il tempo di permanenza al lavoro è così cresciuto dai 28 anni e 5 mesi del 2000 ai 32 anni del 2019 e, soprattutto, il numero assoluto di occupati nella classe di età 55-64 è più che raddoppiato, passando dall’1.848.000 fatto registrare nel 2000 ai 4.482.000 del 2019. Nel frattempo, tuttavia, pochi o nulli sono stati gli interventi concreti volti a incentivare strategie di age management e invecchiamento attivo. 

In altre parole, se non per via di qualche eccezione sporadica spesso demandata alle iniziative di singole realtà, la più lunga permanenza non si è accompagnata alla ricerca di misure che promuovessero sia il benessere psico-fisico sia un impiego strategico e produttivo dei sempre più numerosi lavoratori senior.

Tre, in particolare, le criticità e di riflesso le possibili aree di miglioramento dello scenario italiano secondo lo studio di Itinerari Previdenziali che, in primis, si concentra sul delicato tema dell’obsolescenza delle competenze professionali e della formazione professionale continua. Guardando ad esempio al caso specifico delle skill digitalil’ultimo Skills Outlook OCSE evidenzia come i lavoratori italiani non possiedano le competenze digitali di base necessarie a sfruttare proficuamente la digital transformation: non solo però in Italia la partecipazione dei lavoratori a percorsi di formazione continua è bassa rispetto agli standard internazionali (solo il 30% degli adulti ha ricevuto formazione formale o informale nei 12 mesi antecedenti la rilevazione, contro una media OCSE del 42%), ma sono oltretutto proprio i  lavoratori che più  ne avrebbero bisogno (perché́ poco qualificati, ad alto rischio di automazione o di obsolescenza delle proprie competenze professionali) a riceverne meno. Poco sfruttato, peraltro, il possibile apporto dei fondi interprofessionali, che potrebbero viceversa rappresentare una spinta utile verso modelli di formazione professionale continuativa on the job per i senior già impiegati o attività finalizzate alla ricollocazione per quelli già usciti, loro malgrado, dal mondo del lavoro.

Secondo tema evidenziato da Itinerari Previdenziali è quello della workabilitycome adattare cioè modalità e ambiente di lavoro alle esigenze degli older workers? Esempio scontato, ma non troppo, quello dell’ergonomia, da ripensareminimizzando spostamenti e dispendio di energie dove possibile. Per quanto riguarda invece l’organizzazione della vita lavorativa, l’introduzione di orari di lavoro più flessibili, l’adozione del part-time o dello smart working (quando applicabile), il cambio turni e il job sharing sono tra gli strumenti maggiormente adottati a livello mondiale per conciliare le esigenze di datori e lavoratori seniorNel caso specifico dell’Italia, si sono tuttavia finora rivelate poco fruttuose tutte le sperimentazioni relative al part-time, a causa soprattutto dello scarso apprezzamento dei lavoratori, spaventati dall’idea di una proporzionale diminuzione della retribuzione e quindi più interessati a forme di flessibilità che non impattino su stipendio e reddito. Possibilità ancora più sottovalutata – anche perché, ancora più delle precedenti soluzioni, complessa da applicare in un Paese dove a predominare sono le PMI – è infine lo spostamento dei lavoratori più anziani in posizioni meno labour intensive, come quelle che prevedono un ruolo di mentoring per i più giovani o, in ogni caso, un minore sforzo fisico a fronte della valorizzazione di una maggiore esperienza tecnica, manuale o di una corporate memory più consolidata.

Terzo e ultimo argomento sollevato dalla pubblicazione è infine una radicata “tradizione” che porta tanto i governi che si sono succeduti negli ultimi anni quanto le parti sociali e i datori di lavoro a far coincidere l’attenzione ai problemi dei lavoratori senior sulla sola - seppur rilevante - questione della flessibilità in uscita, a discapito degli aspetti che attengono invece la loro permanenza sul lavoro. Basti del resto pensare - approccio al quale contribuisce senza dubbio anche il falso mito del ricambio generazionale– che in Italia non è particolarmente incentivata la prosecuzione del lavoro una volta maturati i requisiti per la pensioneSenza scomodare il caso della reintroduzione del divieto di cumulo per quanti scelgono il pensionamento anticipato con Quota 100, la normativa vigente consente sì ad esempio ai dipendenti del settore privato  di prolungare la propria carriera professionale anche una volta maturati i requisiti per la pensione, ma solo fino al raggiungimento dei 71 anni ed esclusivamente in presenza di un accordo con l’azienda, che può comunque far valere il sopraggiunto limite di età per interrompere il rapporto di lavoro. In ogni caso, non sono previsti benefici particolari né per l’una né per l’altra parte in causa, se non l’incentivazione indiretta per il futuro pensionato di un coefficiente di trasformazione più favorevole.

Attività di formazione, ri(organizzazione) del lavoro e incentivazione dell’invecchiamento attivo: anche sul fronte del lavoro sono insomma molte le opzioni per trasformare i trend demografici in una possibile opportunità, a patto però - ancora una volta - di saper intercettare e soddisfare le specifiche esigenze della platea di riferimento

Mara Guarino, Itinerari Previdenziali

27/7/2020

 
 

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