Più burocrazia, meno lavoro: analisi del decreto legge sul reddito di cittadinanza

Dopo le valutazioni su Quota 100, un secondo Osservatorio sulla spesa pubblica e sulle entrate a cura del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali analizza anche la parte del "decretone" dedicata all'istituzione del reddito di cittadinanza

Giovanni Gazzoli

Dopo l’analisi sulla parte del “decretone” dedicata a Quota 100, il Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali si è concentrato su quella contenente le misure del reddito di cittadinanza, la cui implementazione vuole essere il tratto distintivo di questo Governo. Tuttavia, come del resto per la riforma delle pensioni, tocca registrare una distanza tra le intenzioni iniziali e le misure effettivamente messe nero su bianco.

In generale, da evidenziare due aspetti su tutti: la constatazione che già la denominazione sia stata “tradita”, in qualità del fatto che il decreto si concentra sulla povertà piuttosto che sulla cittadinanza; e, di conseguenza, la rilevazione che l’impalcatura generale non è altro che una rimodulazione del già esistente Reddito di inclusione (REI), ossia una misura che si proponeva di combattere la povertà assoluta. A dispetto di ciò, il decreto introduce importanti innovazioni: l’allargamento della platea dei percettori, gli importi massimi erogabili, la gestione delle politiche attive e il regime sanzionatorio.

Il primo oggetto dell’analisi è dunque proprio la platea dei potenziali percettori, per la quale si registra un notevole aumento, dai 2,8 milioni di persone del Rei ai quasi 5 del reddito di cittadinanza: questi rientrano nei nuclei familiari con un Isee inferiore ai 9.360 euro. Altro aspetto importante è quello dell’età: dai 67 anni in su, il reddito di cittadinanza si trasforma in pensione di cittadinanza, che in realtà pensione non è, prevedendo semplicemente un aumento del sussidio. È incomprensibile la disparità di trattamento dei nuclei familiari per quanto riguarda l’integrazione al sussidio ai fini del pagamento del canone d’affitto: 280 euro per i beneficiari del reddito contro i soli 150 per i beneficiari della pensione di cittadinanza. A ciò si aggiunge il problema del vincolo della residenza in Italia da 10 anni (gli ultimi due consecutivi) ai fini della percezione del reddito, il che, escludendo numerosi immigrati regolari, rischia anche di rendere illegittima la legge dal punto di vista costituzionale.

Si passa dunque ad analizzare gli attori protagonisti della “filiera produttiva” del reddito di cittadinanza. Se l’impianto del Rei era relativamente semplice, quello del reddito prevede innovazioni che rendono lo schema molto più complesso. Il coinvolgimento di numerosi soggetti, la diversificazione delle misure di erogazione dei servizi, l’assunzione di nuovo personale e la riorganizzazione di formule esistenti prevederanno una serie di snodi burocratici che rallenteranno la macchina organizzativa: un rifacimento di procedure e software, il rilascio di pareri dell’Autorità garante della privacy, circolari interpretative da elaborare con più amministrazioni, coinvolgimento degli enti locali, bandi e concorsi, ecc… Alla luce di tutto ciò, appare difficile poter rispettare il cronoprogramma illustrato dal Governo.

Tema delicato è quello delle politiche attive del lavoro. Anche qui, il giudizio non è positivo, poiché il Governo ambisce a rilanciare le politiche attive del lavoro nel loro insieme, non avendo però i numeri a supporto di questa ambizione. La platea del reddito di cittadinanza considera 1,4 milioni di persone riattivabili al lavoro, mentre nel complesso si contano 2,8 milioni di persone in cerca di occupazione, 2,3 milioni di giovani inattivi, 1 milione di studenti potenzialmente coinvolgibili, quasi 1 milione di over 55 che hanno perso il lavoro e oltre 1 milione di donne con difficoltà a conciliare vita familiare e vita professionale. Perché dunque le risorse delle politiche attive del lavoro devono concentrarsi su un’offerta di lavoro potenzialmente caratterizzata da forte disagio sociale? Non è quello un compito da devolvere al contrasto alla povertà? E perché è prevista la facoltà di rifiutare ben 3 proposte di impiego?

Il sistema degli incentivi alle aziende, poi, convince ancor meno. Legare l’incentivo al residuo temporale del sussidio non ha effetto attrattivo per le imprese, che si vedono anche vincolate nell’obbligo di assumere a tempo indeterminato (quando oltre l’80% delle assunzioni sono a termine, stagionali o interinali). Inoltre, il sistema rischia di incentivare il rifiuto di “lavori poveri”, sconvenienti rispetto alla percezione del reddito di cittadinanza, rischiando di causare addirittura una perdita di posti di lavoro.

Altro aspetto di difficile comprensione è la pretesa di rilanciare la capacità di intermediazione dei Centri per l’impiego, attualmente scarsa (3,2%). Inoltre, qualora dei soggetti privati si accreditassero nella stipula del Patto per il lavoro, avrebbero una premialità solo in caso di assunzione (full time, a tempo indeterminato e con clausola di non licenziamento per 24 mesi: se l’assunzione non avvenisse (caso non remoto viste le difficili condizioni), non sarebbe riconosciuto il lavoro di accoglienza, profilazione e orientamento, che comunque prevedono dei costi. Infine, la premialità è riconosciuta solo alle agenzie private, mentre nulla è previsto per i Centri per l'impiego, il che crea squilibri nella concorrenza.

Il passaggio più controverso del decreto, tuttavia, è quello relativo ai regimi sanzionatori, che prevedono un contenuto minaccioso, ma di scarsa applicabilità. I limiti temporali per adempiere all’esecuzione delle procedure a carico dell’INPS sono a dir poco ottimistici, la pena della reclusione pende sopra i lavoratori quando dovrebbero essere perseguibili i datori di lavoro, ma soprattutto l’intera impalcatura si poggia sull’assenza di anagrafi e banche dati, mancanza che rende il tutto abbastanza utopistico. Del resto, già oggi la Guardia di Finanza verifica che il 60% delle dichiarazioni Isee sono false: confrontare questa percentuale con la mole numerica implicata dal reddito di cittadinanza dà la cifra dell’elefantiaca burocrazia che coinvolgerebbe la Guardia di Finanza stessa, l’INPS e tutti i soggetti coinvolti.

Da ultimo, proprio l’annotazione sulla mancanza di banche dati dà l’abbrivio per un discorso più ampio. Tra baby pensioni, prepensionamenti, prestazioni di inabilità e invalidità e altre misure, si può affermare che esista già una sorta di reddito di cittadinanza mascherato che va a favore di 10 milioni di pensionati assistiti in modo totale o parziale dallo Stato. A questi, si aggiungono i cittadini che godono di contributi statali e agevolazioni fiscali, oltre a sussidi comunali, affitti calmierati, agevolazioni sui mezzi pubblici ed altri servizi erogati a livello locale. Insomma, sostegni superiori ai fatidici 780 euro mensili, ma di cui non c’è traccia sistemica per l’assenza di una banca dati statale sull’assistenza, a differenza di quanto non accada altri Stati. Il costo totale di questo “reddito di cittadinanza ante litteram” è stimabile in 110 miliardi, ossia quanto lo Stato nel 2017 ha trasferito all’INPS per la sola assistenza; a questi si somimano poi 10 miliardi erogati a livello locale e i 12 per il sostegno alla casa: totale, 132 miliardi annui al netto della spesa sanitaria, ben più dell’intero sistema pensionistico.

In conclusione, restano da fare alcune annotazioni. In primis, bisogna dire che la povertà assoluta è per metà dovuta alla povertà educativa e alla marginalità sociale: da combattere con educazione e lavoro, più che con sussidi. Inoltre, serve efficienza nella macchina pubblica, affinché le risorse esistenti siano ottimizzate, piuttosto che sovraccaricarla con nuove ed elefantiache procedure. Per questo, l'Osservatorio a cura del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali ritiene che l’impianto del reddito di cittadinanza non avrà gioco facile nell’obiettivo di contrastare le dimensioni della povertà assoluta in Italia e, soprattutto, di attivare un sistema funzionante di inserimento o reinserimento lavorativo.

Al contrario, si prevede che l’ampliamento dei sussidi aumenterà la propensione dei beneficiari ad utilizzare in modo opportunistico le risorse disponibili, oltre ad aumentare i livelli di sfiducia dell’imprenditoria verso i servizi pubblici.

Giovanni Gazzoli, Itinerari Previdenziali 

5/2/2019

 
 

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