Proposte concrete per garantire la parità di genere nel mercato del lavoro

Malgrado i progressi degli ultimi anni, ora in parte compromessi da COVID-19, il mercato del lavoro italiano sconta ancora un gap eccessivo tra i due sessi: ecco perché la parità di genere è un obiettivo primario da perseguire, anche tramite l'utilizzo dei fondi Next Generation EU

Walter Galbusera e Claudio Negro

La piena emancipazione femminile riguarda la metà, o forse di più, dell’umanità. In alcuni Paesi, come quelli di religione islamica, le donne sono una delle speranze di trasformazione di quelle società in senso laico e democratico. Nell’emisfero occidentale la situazione è articolata ma persistono ancora larghissime zone d’ombra che riecheggiano i temi  illustrati più di 130 anni fa dalla straordinaria conferenza di Anna Kuliscioff tenuta a Milano il 27 aprile 1890 al Circolo Filologico ( nel quale peraltro era precluso l’accesso alle donne) e intitolata  “Il monopolio dell’uomo” (il testo integrale della relazione può essere letto e scaricato dal sito www.fondazioneannakuliscioff.it, ndr). Nel nostro Paese una questione essenziale - anche se non la sola - consiste nello stabilire come e con quali strumenti sia possibile portare le condizioni della donna nel mondo del lavoro al livello delle situazioni più avanzate d’Europa.

Sul terreno economico e sociale italiano sono note le forti disuguaglianze riguardanti sia la quota di donne che lavorano rispetto agli uomini (il tasso d’occupazione è del 47,6% rispetto al 67,5% dei maschi), sia le differenze retributive tra i due sessi a parità di lavoro svolto (Istat stima una differenza di retribuzione oraria del 5%, ma l’Istituto Europeo per l’Uguaglianza di Genere sostiene che in termini di retribuzione mensile globale la differenza sia del 18%), sia le minori  possibilità di “fare carriera” nelle mansioni superiori e comunque di assumere incarichi di responsabilità. Durante l’emergenza sanitaria questa situazione si è oltretutto aggravata: i due terzi dei 440.000 occupati in meno rispetto al 2019 sono donne.

Eppure molte indagini autorevoli ci dicono che l’efficienza femminile, intesa come risultato finale del proprio lavoro, non solo non è inferiore a quella degli uomini, ma spesso la supera. Quali sono le cause di un trattamento retributivo e professionale così diverso? Si tratta semplicemente di una forma di sfruttamento che utilizza una forza lavoro con una debole capacità contrattuale, complice un modello culturale e sociale che vede la donna su un gradino inferiore a quello dell’uomo capofamiglia?

Certo possono pesare anche queste situazioni di fatto, ma non può essere una spiegazione sufficiente in un contesto economico produttivo come quello italiano, che è ormai parte integrante nella formazione della “catena del valore” dei mercati internazionali. Nei giudizi di un imprenditore pesa assai di più il timore che gli impegni familiari, a partire dai figli cosi come degli anziani da accudire, costituiscano un potenziale conflitto di interessi tra la donna e l’azienda. [...]

Questa è un’emergenza nazionale che deve essere affrontata al più presto per garantire il futuro della nostra società, a partire dalla disponibilità della forza lavoro necessaria all’economia e dalla sostenibilità del sistema previdenziale. La questione femminile, oltre a costituire un impegno per una forte azione culturale, che realisticamente non produrrà il raggiungimento degli obiettivi a breve termine, impone che si debbano individuare anche risposte concrete ed efficaci nel breve-medio periodo. Se l’ostacolo oggettivo da rimuovere è dovuto al fatto che una delle principali cause del gap femminile nel mondo del lavoro consiste negli impegni aggiuntivi delle donne che debbono sobbarcarsi il “welfare familiare”, la risposta deve arrivare in primo luogo dal welfare pubblico, a partire dalla disponibilità di asili nido a costi effettivamente sostenibili e da un potenziamento degli assegni familiari. Tuttavia questo impegno non basta. Bisognerebbe anche intervenire almeno in via transitoria sul costo del lavoro femminile per consentire, mentre si vanno realizzando le reti degli asili nido e le altre infrastrutture sociali necessarie, una riduzione dei costi. [...]

Il possibile utilizzo dei fondi Next Generation EU è cruciale al riguardo. La risposta più importante consiste nello stabilire quante risorse potrebbero venire dai fondi europei e come potrebbero essere utilizzate.  Non vi è dubbio che la parità di genere sia assimilabile a una riforma di struttura e che i suoi effetti producano risultati economico-sociali positivi, prevedibili e duraturi.

Infine, l’azione sindacale: è ovvia l’obiezione che i trattamenti retributivi e normativi previsti dalla contrattazione collettiva, nazionale e aziendale non sono distinti per sesso. Tuttavia, se alla resa dai conti la retribuzione mensile femminile è del 18% (come abbiamo visto) inferiore a quella maschile, occorre individuare le possibili cause:

  • Inquadramento e sviluppo di carriera. Per quanto professionalizzate e produttive siano le donne, l’azienda calcola i maggiori rischi di assenza (malattia dei figli, cure dei familiari in genere) fino alla possibilità di assenze prolungate legate alla maternità, maggiore indisponibilità rispetto ai maschi a orari disagiati, a fare straordinario, trasferte, etc. Tutto ciò induce l’impresa a comprimere l’inquadramento e non favorire le carriere.
     
  • Retribuzione variabile. I minori straordinari fatti, la rinuncia a schemi particolari di turno e così via riducono l’ammontare delle maggiorazioni legate a queste prestazioni; il maggior numero di assenze incide sull’ammontare dei premi di risultato in qualche modo legati alla presenza. Dove l’azienda mantiene una discrezionalità sui superminimi individuali (la gran parte di quelle medie e piccole), normalmente le donne percepiscono una cifra inferiore sia per i motivi anzidetti sia per la diffusa convinzione che il lavoro femminile sia meno produttivo.
     
  • Tipologia di contratto. Nella parte “alta” della zona Euro l’Italia è di gran lunga l’economia dove è più diffuso il part-time involontario (nel 2019 circa il 70% quasi esclusivamente femminile). Il tempo parziale comporta ovviamente meno retribuzione mensile, meno possibilità di turni, straordinari o altre prestazioni che generino maggiorazioni, profili professionali più bassi e scarsa possibilità di crescita professionale e, in genere, il rischio di essere “alla periferia” dell’organizzazione del lavoro.


Se questa analisi è corretta quel che può fare il sindacato è soprattutto relativo alla contrattazione aziendale in cui è possibile esercitare un certo controllo sulle assunzioni part-time e, successivamente, sulle trasformazioni in full-time, individuare forme di organizzazione del lavoro che consentano alle donne di accedere a turnazioni, straordinari e prestazioni flessibili, costruire forme di welfare aziendale che favoriscano la conciliazione famiglia-lavoro. Occorre dire che su questo terreno la contrattazione di secondo livello ha già ottenuto risultati importanti. Sarebbe interessante se, a titolo indicativo, si effettuasse almeno nelle imprese più significative che hanno realizzato accordi di welfare un monitoraggio volto a verificare se le intese hanno prodotto anche un miglioramento nel trattamento retributivo delle lavoratrici. 

L’obiettivo della parità di genere nel mercato del lavoro richiede continuità di impegno, ricerca degli strumenti e degli interventi più efficaci e, per l'appunto, un monitoraggio attento delle dinamiche reali. Ma è anche un'occasione di nuova progettualità e di iniziativa per le istituzioni e per le forze politiche e sociali interessate.                   

   Walter Galbusera, Presidente Fondazione Anna Kuliscioff

Claudio Negro, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali e Fondazione Anna Kuliscioff

24/2/2021

 
 

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