Previdenza complementare: incentivi agli investimenti

Dal 2015 la normativa italiana prevede agevolazioni fiscali a favore dei fondi pensione qualora investano in “economia reale”. Il legislatore, però, ha dovuto aggiustare più volte il tiro affinché gli operatori potessero effettivamente usufruirne. Una vicenda che parte da lontano: vediamone l’evoluzione 

Nicola Barbiero

In origine fu l’11%: era questa la tassazione applicata, a titolo di imposta sostitutiva, sui rendimenti finanziari generati dai fondi pensione, previsione che ricalcava la fiscalità applicata al rendimento riconosciuto, per legge, al TFR non destinato alla previdenza complementare; poi, arrivò il 2014. In soli 12 mesi il legislatore intervenne per ben due volte sulla materia: in un primo momento con il decreto-legge 24 aprile 2016 numero 66 che, all’articolo 4 comma 6-ter, prevede un aumento di 0,50% dell’aliquota fiscale, una misura a impatto minimo che, in ogni caso, ruppe un principio e mise le basi per il successivo intervento, inserito nella Legge di Stabilità 2015 e decisamente più incisivo. A partire dell’entrata in vigore e con effetto retroattivo, per l’anno fiscale 2014, i rendimenti (per tali da intendersi sia redditi da capitale sia redditi diversi) derivanti da investimenti in titoli di stato white list vengono tassati al 12,50%, gli altri redditi sono soggetti a imposta sostitutiva del 20%, con un’unica eccezione: alcune tipologie di investimenti in economia reale.

Si è voluto, in questo senso, accendere la luce su un asset class non particolarmente presente nei portafogli dei fondi pensione (quelli negoziali in primis) provando, per il tramite di un incentivo fiscale, a portare il tema all’ordine del giorno nei consigli di amministrazione. Con tale misura il legislatore ha voluto incentivare l’investimento degli operatori previdenziali (fondi pensione e casse di previdenza) in quote di capitale o debito di società operanti prevalentemente in ambito infrastrutturale, nel senso più ampio del termine (infrastrutture turistiche, culturali, ambientali, idriche, stradali, ferroviarie, portuali, aeroportuali, sanitari, immobili pubblici non residenziali, telecomunicazioni e trasporto di energia) e in organismi di investimento di durata non inferiore a 5 anni (richiamo esplicito ai fondi d’investimento chiusi) che investano prevalentemente in strumenti finanziari di società non quotate. La volontà non è, però, stata sufficiente a generare una previsione adatta a ciò: troppi, alla prova dei fatti, sono risultati i punti da chiarire e, solo parzialmente, il successivo decreto attuativo (decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze del 19 giugno 2015) è riuscito nell’intento. Nelle more di puntuali previsioni, anche tecniche, la misura - prevista nella forma del credito d’imposta - non ha sortito gli effetti sperati.

Si volle, quindi, rilanciare l’idea, attraverso i commi 88 e successivi della Legge di Bilancio 2017, prevedendo un’esenzione totale sui redditi generati dall’investimento in azioni di società residenti nell’Unione europea o quote di OICR che investano prevalentemente in queste, a condizioni che i titoli vengano detenuti in portafoglio per almeno 5 anni e per un importo non superiore al 5% dell’attivo patrimoniale risultante dall’ultimo rendiconto del fondo pensione; previsione poi integrata e affinata dal Decreto-Legge 24 aprile 2017 n.50. Con queste ultime misure si è inteso allargare le fattispecie di investimento “privilegiato” quelle, cioè, che danno origine alla possibilità di accedere alla fiscalità agevolata arrivando a comprendere anche strumenti quotati, probabilmente già presenti nei portafogli degli investitori istituzionali. L’operatore, in questo senso, non è più incentivato a valutare asset class alternative che mettano a disposizione investimenti nell’“economia reale” (nell’eccezione più comune) facendo, in questo modo, venir meno la ratio originante l’incentivo fiscale.

Si è verificata, come descritto, una stratificazione di normative e regolamenti successivi e, in alcuni casi, mal coordinati tra loro, che hanno comportato una maggior complessità operativa tale, in talune situazioni, da annullare il vantaggio offerto dall’incentivo. Una palude dalla quale sarebbe opportuno uscire il prima possibile con una regolamentazione semplice che preveda un'agevolazione per gli operatori che investano nel “sistema Paese”, quel sistema fatto, in prevalenza, di aziende non quotate, di piccola dimensione e che difficilmente accedono a finanziamenti diversi rispetto a quelli erogati dal tradizionale canale bancario. Ecco che l’agevolazione fiscale non verrebbe considerata come mera “misura compensativa” all’aumento introdotto nel 2014, ma una previsione strutturale in grado di portare valore all’economia nel suo complesso e consentire, allo stesso tempo, un’evoluzione prospettica del settore.

Nicola Barbiero

15/2/2018

 
 

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