Quota 100, cosa fare... tra necessità e vincoli

La misura è a termine e "scade" nel 2021: come stabilizzare i canali di accesso alla pensione lasciandosi definitivamente alle spalle Quota 100 e superando le eccessive rigidità della riforma Monti-Fornero? Le 3 proposte di Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

Alberto Brambilla

Quota 100 "scade" nel 2021; poi, in assenza di altri provvedimenti, si tornerà alla rigidità della riforma Monti-Fornero, che ha creato forse più problemi che soluzioni. Il che significa per una lavoratrice o un lavoratore che compirà i 62 anni di età o che maturerà i 38 anni di contributi nel gennaio 2022, andare incontro a uno “scalone” di 5 anni e 3 mesi, con possibilità di accesso alla pensione a 67 anni e 3 mesi di età o con 42 anni e 10 mesi di anzianità contributiva (un anno in meno per le donne). Quest’ultima opzione scadrà peraltro nel 2026; poi, anche in questo caso, si tornerà alla previsione di 43 anni e 6 mesi per i maschi e un anno in meno per le femmine.

Risolvere Quota 100 non sarà facile, per una serie di motivi che adesso elencheremo, ma lo si deve fare per correggere i tre macro-problemi creati dalla riforma Monti-Fornero e cercare, con il contributo del Cnel, delle parti sociali e se fosse possibile, con un accordo bipartisan, di fare una riforma definitiva almeno per i prossimi 10 anni, con verifiche quinquennali, al fine di dare finalmente certezze e serenità a tutti gli italiani.

Vediamo prima di tutto i vincoli: a) proporre una soluzione che faccia come somma meno di 100 sarebbe, da un lato, politicamente dirompente e comunicativamente pericoloso dopo tutte le polemiche su questo provvedimento bandiera, dall’altro indurrebbe l’Europa a domandarsi se i policy maker italiani siano giocatori di poker o seri amministratori; b) se la flessibilità in uscita (età di pensionamento) è necessaria, ci sono pressanti vincoli per i già malmessi conti pubblici di cui tenere conto; c) non sarebbe equo scaricare massicciamente sulla collettività (come fa APE sociale), e con enormi costi, tutti i problemi relativi a lavoratori con particolari problemi di salute (ma non invalidi), di famiglia e di faticosità del lavoro; d) prevedere,come suggeriscono taluni, età di pensionamento legate alla tipologia dei lavori sprofonderebbe l’Italia in una nuova “giungla” pensionistica che siamo riusciti a smantellare in vent’anni, significherebbe tornare a 45 tipologie diverse di trattamenti dove chi “urla” di più vince. Si vedano  ad esempio il fondo elettrici, telefonici, trasporti, poste, ferrovie, autoferrotranvieri e pubblici che, ancora oggi, sono responsabili della quasi totalità del deficit annuo di circa 40 miliardi.

Peraltro nessun Paese usa queste soluzioni che, al momento, sono anche prive di una base scientifica. Chi l’ha detto che un muratore vive meno di un impiegato o che una maestra d’asilo o elementare è più stressata di una conduttrice di tram o autobus?

Se questi sono i vincoli dobbiamo però risolvere i guasti della legge Monti-Fornero che, sostanzialmente, sono tre:

  1. l’uomo non è una scatola di pelati che scade a una data precisa (67 anni adeguati alla speranza di vita, non un giorno prima!). Occorre quindi una qualche forma di flessibilità anche perché, a partire dal 2022 oltre il 95% dei potenziali pensionati avrà almeno il 70% della pensione calcolata con il metodo contributivo il che vuole dire che prima si esce meno pensione si prende, e viceversa;
     
  2. adeguare l’anzianità contributiva alla aspettativa di vita è un unicum nel panorama dei Paesi industrializzati ed è anche un errore da segnare in rosso. Nell’arco di pochi anni si arriverebbe infatti a dover maturare 45 anni di lavoro se non si hanno 67 anni di età, con un potenziale di incostituzionalità perché si consentirebbe ad alcuni la pensione a 67 anni di età con solo 20 di contributi mentre a uno sfortunato che ha iniziato a lavorare a 17 anni si richiederebbero più del doppio degli anni di contribuzione;
     
  3. la riforma ha nei fatti spaccato in due la platea dei lavoratori: da un lato, i “protetti” - vale a dire i retributivi e i misti - che, pur con i limiti di rigidità sopra elencati, hanno due vie d’uscita per la pensione: età e anzianità, beneficiando oltretutto, in caso di pensioni modeste dell’integrazione al minimo o della maggiorazione sociale di cui oggi godono quasi 5 milioni di pensionati; dall’altro lato, invece, i contributivi puri che possono andare in pensione a 64 anni di età e 20 di contributi ma solo a condizione di aver maturato una pensione che a valori attuali è pari a 1.300 euro (resterebbe quindi escluso il 75% dei lavoratori e, soprattutto, quelli con redditi modesti e che hanno iniziato a lavorare da precoci mentre, per paradosso, quelli con stipendi alti e che si suppone non facciano lavori pesanti, se ne possono andare da “giovani”. Viceversa i primi, se va bene, devono aspettare i 71 anni.

Se questi sono i vincoli e i problemi da risolvere, come si può procedere? Per prima cosa occorre prevedere le stesse tutele per le due platee di lavoratori, il che significa regole uguali ed estensione dell’integrazione al minimo anche ai cosiddetti contributivi puri, che oggi con i loro contributi finanziano gli attuali pensionati. Questa prima proposta, da concretizzare in prospettiva dal 2036, data in cui inizieranno a pensionarsi i contributivi puri, ha certamente un costo sia per l’introduzione dell’integrazione al minimo (eliminata dalla riforma Dini) sia per l’anticipo del pensionamento equiparato agli altri lavoratori. Abbiamo però un grande vantaggio, il tempo! Per cui si potrebbe prevedere, già a partire dal prossimo anno, un fondo per le pensioni contributive accantonando 500 milioni l’anno; insomma un fondo per le giovani generazioni al fine di mitigare gli effetti economici e demografici che avremo in Italia fino al 2045 (quando la disoccupazione dovrebbe essere inferiore al 4% e i redditi e i lavori più ricchi e stabili). Avremmo così un fondo di dotazione di oltre 15 miliardi per sostenere le pensioni di quelli che hanno iniziato a lavorare dall’1 gennaio 1996.

La seconda modifica riguarda la flessibilità in uscita che si ottiene in due modalità: anzitutto, ripristinando la flessibilità prevista dalla riforma Dini-Treu, per tutti i lavoratori prevedendo l’accesso alla pensione a 64 anni di età, adeguata alla speranza di vita e 37-38 anni di contributi (Quota 101 - Quota 102 adeguata), con non più di 2 o 3 anni di contribuzione figurativa per premiare il lavoro (nei figurativi sono escluse maternità e contribuzioni volontarie); e chi lo vorrà potrà comunque lavorare - con il consenso del datore se dipendente -  fino a 71 anni, con la possibilità tra i 66 e i 71 anni del super bonus contributivo (contributi netti in busta paga, quindi più 40/50% del reddito netto). La seconda modalità di uscita è invece costituita dai fondi di solidarietà ed esubero già sperimentati in modo positivo da banche, assicurazioni, esattorie e poste dal 2000, consentendo l’accesso anticipato al trattamento sostitutivo della pensione a oltre 85mila persone senza alcun costo per lo Stato. In pratica, si tratterebbe di applicare le norme dell’APE sociale e consentire l’accesso al fondo esubero con 5 anni di anticipo rispetto all’età legale di pensionamento (oggi fissata a 67 anni) e con 35-36 anni di contribuzione, una sorta di "Quota 97 - Quota 98" pagata integralmente da aziende e lavoratori attraverso l’attuale versamento dello 0,30% sui redditi lordi, e gestita in autonomia da sindacati e imprese attraverso non più di una decina di fondi (oggi sono oltre 109, troppi, molto costosi, poltronifici italici e spesso inefficienti). A carico dello Stato rimarrebbero solo i casi più difficili, spesso lavoratori disoccupati che non potrebbero entrare nei fondi esubero e che, di conseguenza, verrebbero trattati con l'APE sociale, ma si tratterebbe di 3 o 4mila casi per i primi anni, ridotti a 2mila nei successivi.

La terza azione è il blocco dell’anzianità contributiva a 42 anni e 10 mesi per i maschi e 41 anni e 10 mesi per le femmine, eliminando l’adeguamento alla speranza di vita. Per le donne madri, sulla scorta della legge Dini si potrebbe prevedere uno sconto di 8 mesi per ogni figlio per un massimo di tre, mentre per i precoci una riduzione di un quarto di anno per ogni anno lavorato prima del compimento dei 20 anni di età.

Certo 62 anni di età per tutti o Quota 41, come ad esempio propone la Lega, sarebbero più favorevoli per i lavoratori ma equivarrebbero a compromettere seriamente il nostro ottimo sistema pensionistico, che è ora in equilibrio grazie ai due stabilizzatori automatici (revisione dei coefficienti di trasformazione e adeguamento dell'età pensionabile all'aspettativa di vita) che solo l’Italia ha. Basterebbe solo un poco di buon senso e buona volontà.

Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

13/1/2020

 
 

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