Welfare aziendale, assistenza sanitaria e trattamento fiscale: novità e chiarimenti

La recente risposta all'interpello n. 443 dell'Agenzia delle Entrate rappresenta un importante tentativo di conciliare le regole della sanità integrativa con quelle fiscali e assicurative: guida a una possibile lettura (coerente e coordinata)

Alessandro Bugli

Con propria risposta a interpello n. 443/2020, l’Agenzia delle Entrate entra nel merito del trattamento fiscale dei contributi di assistenza sanitaria versati a Casse aventi esclusivamente fine assistenziale. 

 

Il caso

Il richiedente, forse non del tutto consapevole di cosa avrebbe scatenato (almeno vogliamo immaginarlo così, romanticamente, con penna e calamaio), si interroga su diverse soluzioni per convertire il premio di produttività in una soluzione di welfare aziendale e, in dettaglio, di sanità integrativa (leggasi per tale, secondo l’Agenzia delle Entrate: “… prestazioni sanitarie per la cura della malattia, anche se determinata da infortunio, nonché il ristoro delle spese affrontate per il recupero della salute compromessa da malattia o infortunio”).

Sempre secondo quanto traluce dalla risposta, il richiedente voleva sentirsi dire che i lavoratori che avessero convertito il premio, in forma specifica, versandolo a una “Cassa” sanitaria, avrebbero goduto della deducibilità fiscale dal reddito da lavoro per la misura del contributo stesso (nel limite ordinario dei 3615,20 euro). Fin qui, verrebbe da dirsi, perché scomodare l’Agenzia delle Entrate, se non per un eccesso di zelo. 

Quello che condurrà al tempo del panico del bimestre trascorso, sarà la modalità di interrogazione dell’Agenzia stessa. In uno strano gioco delle tre carte, si sottopongono alla stessa tre possibili soluzioni: la Configurazione 1, 2 e 3 (sic). Queste “configurazioni” tendenti tutte allo stesso commendevole fine: fare ottenere al lavoratore il rimborso di spese mediche, l’accesso a prestazioni odontoiatriche e la liquidazione di capitali in caso di non autosufficienza (LTC), si distinguono tra loro a seconda dell’operatività della Cassa.

E, così, senza rimembrar quanto già noto a tutti gli operatori del settore, si chiede (almeno si immagina) se sia lecito e fiscalmente conveniente tramutare il premio in contributo alla Cassa, la quale poi lo convertirà in premio assicurativo, per fare ottenere le prestazioni sanitarie – secondo logiche di mutualità assicurativa – al lavoratore. Nell’abbondanza di configurazioni, queste polizze – a contraenza della stessa Cassa – potevano avere come “beneficiario” la stessa contraente ovvero il singolo lavoratore.

Per quel che diremo, non sappiamo bene quale sia il senso che si voglia attribuire a questo “beneficio”, se tecnico o meno, ma per il momento ci accontenteremo di rinvenirvi una duplice opzione (tra le diverse configurazioni), per cui la Cassa che prometta una determinata prestazione al lavoratore, si assicuri in proprio per il rischio di pagamento stesso ovvero si limiti a stipulare (per mezzo di una parte del contributo ricevuto) una polizza a favore dei singoli interessati.

Domandata sul punto, l’Agenzia ha così sentenziato: “L'Istante fa presente, inoltre, che per consentire la fruizione delle prestazioni di assistenza sanitaria relative alla copertura LTC, nonché alla copertura per le spese odontoiatriche, la "Cassa" stipula distinte polizze assicurative, destinando parte della contribuzione ricevuta al versamento del premio assicurativo. Affinché tale modalità organizzativa possa realizzare i presupposti per l'applicazione del regime di non concorrenza al reddito, ovvero la parte di contributo destinato al versamento del premio non concorra alla base imponibile del dipendente, ai sensi della citata lettera a) del comma 2 dell'articolo 51 del TUIR, la scrivente ritiene che la Cassa Sanitaria debba risultare contraente, nonché beneficiario della polizza assicurativa.

Qualora, infatti, beneficiari della polizza risultassero i lavoratori/associati, i contributi versati alla "Cassa" non si qualificherebbero, nella loro interezza, "di assistenza sanitaria", ovvero destinati all'erogazione di prestazioni sanitarie, come richiesto dalla norma riportata, bensì sarebbero volti a garantire un beneficio aggiuntivo della retribuzione (c.d. fringe benefit) dei lavoratori dipendenti, costituito dalla titolarità dell'interesse economico che viene protetto dalla polizza stessa e come tali imponibili ai sensi dell'articolo 51, comma 1, del TUIR (cfr. risoluzione 21 dicembre 2007, n. 391/E). Pertanto, l'importo dei contributi in questione si configurerebbe quale componente positivo del reddito di lavoro dipendente imponibile ai sensi del citato articolo 51, comma 1, del TUIR”.

 

Il PQM dell’Agenzia delle Entrate

Se la Cassa è contraente e benficiaria della polizza = il lavoratore può dedurre dal reddito il contributo.

Se la Cassa è contraente, ma non beneficiaria = no. Il servizio diviene componente di reddito tassabile (superata la soglia di indifferenza fiscale di cui all’art. 51 del TUIR).

 

All’indomani del PQM

Similmente ad altre note pronunce di tal portata (penso al noto poker di sentenze di Cassazione sull’annoso tema della compensatio lucri cum damno) i più si interrogano, molti tacciono, altri tentano di dare una chiave di lettura. Ma il panico si diffonde.

Siamo infatti all’incrocio tra la materia sanitaria integrativa e l’assicurazione privata, entrambe materie poco studiate e comprese (anche da chi scrive), dove – alla meglio – si conoscono gli istituti dell’una e non dell’altra. L’Agenzia ponendo la propria risposta a cavallo delle due materie (peraltro in modo “atecnico” per quel che si dirà), ha riacceso un dibattito che spesso si rinfocola in ragione di dichiarazioni sull’opportunità di normare puntualmente la sanità integrativa, ma poi si sopisce, nella convinzione diffusa che non siano ancora maturi i tempi di questa scelta (a oggi, sono solo 13 anni di dubbi e incomprensioni che fanno seguito alla precedente riforma di fine secolo scorso). La paura, il più delle volte, è quella di registrare gli stessi effetti non del tutto virtuosi registrati all’indomani della prima regolamentazione della previdenza complementare, non fonte di sviluppo, ma di ingessamento (con necessità di revisione alla metà degli anni Novanta).

Sulla spinta emotiva data dalla risposta dell’Agenzia delle Entrate, nascono in breve diverse correnti di pensiero:

  1. La prima, quella del “non è successo nulla, non si è fatto male nessuno!”. L’Agenzia non parla di fondi sanitari, ma solo di “Casse” e, peraltro, in tema di premio di produttività. Per di più, una risposta a interpello, non fa precedente
     
  2. La seconda, quella “giacobina”. È finita la sanità integrativa, si dia tutto al primo pilastro, e nessuno si farà male (dimenticandosi che anche ad azzerare i benefici fiscali esistenti per chi utilizza forme di sanità integrativa, daremmo al sistema pubblico poco o niente in termini di impatto sostanziale)
  3. La terza, quella dell’analizzare e comprendere come effettivamente vada letta la risposta dell’Agenzia delle Entrate, sapendo bene che il girarsi altrove non risolve nulla
     
  4. La quarta, quinta, sesta… Ne facciamo grazia al lettore, il quale ricorderà le tante parole spese in quei giorni, non sempre “a ragion veduta”. 

 

Il contesto in cui si cala la risposta

In assenza di regole certe e chiare, soprattutto in questi ultimi due anni, abbiamo assistito a commissioni di “inchiesta” sulla materia sanitaria integrativa e a interventi manu giornalistica intesi a sostenere che il secondo pilastro sanitario non serve e, anzi, è fonte di cure di minore qualità per chi vi partecipi, invece di pagare di tasca propria (out of pocket). Il dibattito scadrebbe nella boutade, se non fosse che qualche criticità c’è ed è nota a tutti. In un Paese la cui spesa sanitaria privata arriva a oltre 40 miliardi stimati, con effetti devastanti per alcuni nuclei familiari (non più in condizioni di rispondere alle esigenze di cura e, soprattutto, prevenzione), l’utilizzo di intermediari qualificati di spesa è poco sopra il 10%. Insomma, aiutati (da solo) che il ciel t’aiuta.

Senza alcuna pretesa di aver le risposte su cosa sia e cosa debba essere un buon modello sanitario del 2020 (la stessa sanità integrativa ha mostrato forti limiti al tempo di COVID-19, quando alcune strutture non erano accessibili né per rispondere a cure dello SSN né a quelle in forma specifica veicolata dai fondi sanitari), si dubita che la risposta possa essere quella di lasciare tutto al pilastro pubblico, da finanziarsi con la fiscalità generale (sostenuta da pochi e da utilizzarsi per tutto).

Guardando indietro, ci paiono avanguardisti quegli operai che a fine Ottocento portarono alla regolamentazione del fenomeno mutualistico. Aiutiamo tra noi, ciascuno contribuendo per quel che può (il riferimento è ovviamente al mutuo soccorso operario della l. 3818/1886). Ma gli stessi ragionamenti valgono per lo strumento associativo e non profit, nonché per quello assicurativo privato (in forma di società di capitali o di mutua assicurazione). Stiamo infatti parlando di un fenomeno, quello della sanità integrativa, non certo figlio degli ultimi anni di globalizzazione, bensì di decenni di storia e risultati di assistenza.

Detto questo, in un momento apparentemente di grande sfiducia verso l’integrazione mutualistica, giunge questa risposta dell’Agenzia che forse muove da istanze ancor diverse: quella di evitare che attraverso una realtà per definizione non profit (il fondo sanitario) si possa veicolare l’utilizzo di soluzioni assicurative che, se stipulate senza l’intervento del fondo sanitario, non condurrebbero ad alcun vantaggio fiscale per l’iscritto o destinatario delle prestazioni.

La scelta di lasciare i benefici in capo ai soli fondi sanitari e non alle Compagnie (che con regole certe e giusti paletti, potrebbero essere attori, quanto i fondi, della sanità integrativa, come avviene ad esempio in materia di previdenza complementare) ha certamente condotto anche a fenomeni speculativi “paravento” di fondi creati ad hoc per consentire agli iscritti di beneficiare di qualcosa a cui non avrebbero diritto. Il fenomeno è quello delle mutue o delle associazioni di comodo, per semplicemente contrarre soluzioni assicurative a favore della platea, senza che il fondo abbia nemmeno un minimo di struttura organizzativa per dimostrare di poter operare.

Se trend di questo tipo potrebbero ben esistere (e non mostrare alcun elemento di virtuosità), sarebbe ben grave ridurre il secolare fenomeno sanitario integrativo a questo.In più, non avendosi oggi regole di gestione per quanto attiene la sanità integrativa (a differenza del settore previdenziale complementare), la presenza di una Compagnia assicurativa alle spalle di un’associazione, di una fondazione o di una società di mutuo soccorso è un’importante garanzia di sostenibilità e solvibilità dell’ente verso i destinatari delle prestazioni.

E, così, il momento è difficile e lo spirito dei tempi non sembra tutto favorevole all’integrazione sanitaria, ma proprio per questo si tratta di avere la forza di consolidare le buone prassi e – semmai – combattere le eventuali storture di sistema. Il contesto descritto non può quindi che fare da sfondo e da base di lettura delle risposte dell’Agenzia delle Entrate.

 

Una possibile lettura (coordinata e coerente) della risposta dell’Agenzia delle Entrate

Provando a seguire la “terza via”, citata in precedenza, quella dell’interpretazione ragionevole (e non quella del far finta di nulla), ci si deve interrogare su cosa abbia voluto intendere l’Agenzia delle Entrate con quell’obbligo a che il fondo sanitario si faccia “beneficiario” della copertura assicurativa contratta.

Partiamo dalla prima considerazione: pur non essendo un tributarista, mi limito a ribadire quanto ascoltato in più sedi. La risposta non produce effetti immediati erga omnes, ma solo verso l’istante. Detto questo, sarebbe – si ripete – un errore abbandonarsi a un'impostazione per cui la risposta non avrà impatti per l’intero settore sanitario integrativo. 

Non convince nemmeno la lettura di chi vorrebbe che questa impostazione dell’Agenzia delle Entrate riguardi solo le “Casse” e il tema del premio di risultato. La disciplina del welfare aziendale pare essere semplicemente il contesto da cui si muove l’Agenzia per una lettura generale del tema del beneficio di cui all’art. 51 TUIR.

Dire, poi, che trattandosi di una risposta che vede come destinatario delle indicazioni una “Cassa” e non tutti i fondi, sconta il limite dell’assenza in termini di stretto diritto civile di un istituto qualificabile “Cassa” e distinguibile da un fondo sanitario integrativo. Senza dilungarsi troppo su questo aspetto si può notare come, la dizione fondo sanitario integrativo ricomprende in sé – ai solo fini fiscali e amministrativi – diverse forse di prassi di definire gli attori del settore: enti, Casse e società di mutuo soccorso. Ma attenzione, una “Cassa” – in termini di sua struttura giuridica – altro non è che un'associazione o una fondazione dotata di soggettività (diversamente da quanto previsto per i fondi interni di cui all’art. 2117 c.c.) e anche le altre forme tipizzate dal legislatore utilizzano la medesima forma giuridica (società di mutuo soccorso escluse, essendo regolate dalla L. 3818/1886). In questo senso, la Cassa – normalmente definita tale per fare riferimento a un soggetto destinato a garantire i dipendenti di una o più imprese datrici di lavoro - non è nulla di civilisticamente diverso dagli altri fondi sanitari. Se la regola vale per lei, vale per tutti. Diversamente, avremmo dovuto aspettarci almeno un distinguo in sede di risposta.

Date per buone queste due considerazioni, allora la risposta n. 443 deve ritenersi valida in termini di ragionamento per tutte le realtà sanitario integrative (almeno quelle che in tutto o in parte utilizzano uno strumento assicurativo per assicurare le prestazioni ai propri destinatari). Resta, quindi, da comprendere solo cosa si intenda concretamente con “beneficio” in capo al fondo e non al lavoratore.

Quale il problema interpretativo? La conciliabilità di questo principio con la materia assicurativa, che la risposta riguarda indirettamente. Dare al fondo la veste di “beneficiario” è possibile nell’assicurazione vita, ma non in quella danni.

Nell’assicurazione vita infatti si individuano chiaramente tre figure, potenzialmente soggettivamente distinte tra loro: il contraente (colui che stipula e si obbliga a pagare il premio e non solo); il portatore del rischio, comunemente – pur se impropriamente - definito assicurato (il soggetto della cui vita o salute si discute) e poi; il beneficiario (inteso come colui che ha diritto a incassare il capitale o la rendita al verificarsi dell’evento attinente alla vita umana). Nell’assicurazione danni si distingue solo tra contrante (vedi sopra) e assicurato (il portatore dell’interesse all’assicurazione e che ha diritto all’incasso dell’indennizzo in caso di sinistro, ai sensi dell’art. 1891 c.c., quando non coincida con il contraente).

Se, quindi, dovessimo leggere in senso proprio e tecnico il disposto dell’Agenzia delle Entrate, appiattendo quindi il concetto di destinatario del pagamento (l’assicurato) con quello di beneficiario, il fondo – per poter concedere i benefici del caso – dovrebbe assumere la veste di assicurato ai sensi di polizza.

La risposta, nel suo passo centrale (già citato), chiarisce che: “Qualora, infatti, beneficiari della polizza risultassero i lavoratori/associati, i contributi versati alla "Cassa" non si qualificherebbero, nella loro interezza, "di assistenza sanitaria", ovvero destinati all'erogazione di prestazioni sanitarie, come richiesto dalla norma riportata, bensì sarebbero volti a garantire un beneficio aggiuntivo della retribuzione (i cosiddetti fringe benefit) dei lavoratori dipendenti, costituito dalla titolarità dell'interesse economico che viene protetto dalla polizza stessa e come tali imponibili ai sensi dell'articolo 51, comma 1, del TUIR (cfr. risoluzione 21 dicembre 2007, n. 391/E). 

Insomma, letta in questi termini, tutte le polizze salute esistenti e contratte dai fondi sanitari sarebbero dei fringe benefit tassati. Non pare, infatti, potersi dubitare che il rischio sotteso a una polizza rimborso spese mediche sia quello della salute (quella del lavoratore, non potendosi immaginare una malattia in capo al fondo) e che l’interesse economico assicurativo primario (ex art. 1904 c.c.) sia quello del lavoratore stesso, pena la nullità della polizza. E allora, seguendo questo ragionamento, le conseguenze sarebbero di impatto notevole. L’unica polizza danni diretta (non potendosi il fondo “ri”assicurare) che potrebbe vedere il fondo sanitario come assicurato, sarebbe unicamente una copertura per le perdite pecuniarie (n. 16 danni). Con tanta pace per le Compagnie oggi attive nel ramo n. 2 danni (malattia) che assicurano i fondi sanitari.

Non si vuole nemmeno immaginare che l’Agenzia delle Entrate intendesse spingere in questo senso. Almeno chi scrive non conosce simili impostazioni a mercato e, dall’esperienza, si ricava come i fondi si assicurino per il tramite di garanzie del ramo n. 2 malattie (per il rimborso delle spese mediche o l’erogazione delle cure tramite centri convenzionati).

Salvo, quindi, immaginare scenari totalmente diversi e con impatto su quasi il 50% dei fondi sanitari esistenti, la soluzione interpretativa non può essere questa, almeno per due ordini di ragioni:

  1. Se questo fosse il principio, dovrebbe valere sia per le coperture danni che vita (LTC). Il fatto che l’erogazione del fondo tragga fondamento da un evento legato a una necessità di prestazione odontoiatrica o per non autosufficienza sopravvenuta del lavoratore, sarebbe infatti indifferente ai fini della copertura perdite pecuniarie (guardandosi all’esborso del fondo in sé considerato e non alle ragioni che producono il debito per lo stesso verso il lavoratore). E così, l’Agenzia – nel giudicare le varie configurazioni esposte dall’Istante, quanto tratta della LTC – avrebbe dovuto dire che l’unica assicurazione possibile è una copertura danni (non vita) del ramo perdite pecuniarie e non invece dire, come ha fatto, che è sufficiente che la copertura vita LTC abbia come beneficiario il fondo stesso. Elemento questo che ci fa propendere per una lettura dell’Agenzia per cui la polizza è sempre e comunque una garanzia che deve guardare alla salute del lavoratore e non alle perdite del fondo
     
  2. Il Ministero della Salute e l’Anagrafe prevedono una soglia di risorse vincolate affinché il fondo stesso possa iscriversi a quest’ultimo, per concedere tra l’altro i benefici fiscali detti. Quando un fondo sia assicurato, almeno a oggi, si richiede allo stesso di indicare (con il supporto della Compagnia) quanta quota dei premi raccolti sarà destinata a prestazioni LTC e odontoiatria. Una simile dichiarazione non sarebbe possibile né logica se la copertura contratta dal fondo non fosse una polizza salute, bensì una copertura perdite pecuniarie, per cui il premio guarda alle perdite finanziarie e non alle cause sottostanti che possono determinare l’esborso.

Insomma, l’unica via – salvo interpretazioni autentiche di segno diverso da parte dell’Agenzia - sembra quella di leggere il lemma “beneficiario” in altri termini, almeno ai fini di questa risposta in commento. Non in termini assicurativi classici, bensì sostanziali. E in questo senso si ha l’impressione che l’Agenzia delle Entrate abbia voluto chiarire che la relazione tra lavoratore e fondo sanitario di appartenenza debba assumere una vera sostanza e non limitarsi a essere l’occasione per tramutare premi (vestiti da contributi) in veri e propri premi assicurativi, con le agevolazioni fiscali che ne conseguono.

Insomma, il fondo non può limitarsi a fare da mero passacarte e intermediario nell’acquisto di una polizza, ma assumere una veste sostanziale e concreta nell’operazione.

Non risponde quindi all’esigenza un mero ritocco cosmetico per cui in polizza ci si limiti a dire che il fondo è “beneficiario” della copertura, salvo lasciare tutto com'è, e non risponde nemmeno al bisogno il sostenere che lo strumento assicurativo è in realtà un contratto atipico a causa mista, pena le ricadute tributarie e amministrative del caso (anche in termini di limiti di operatività delle Compagnie di assicurazione). Non a caso, in materia di previdenza complementare, per poter fare assumere alla Compagnia la veste di mandatario, si è creato un ramo dedicato, il n. 6 vita (gestione fondi collettivi), essendo sino ad allora la gestione (per i fondi preesistenti) lasciata alle classiche polizze vita. Ma per quello che diremo, la tesi della “gestione” non è poi così lontana dalla lettura che vorremmo dare, ma per altre ragioni.

Quella che ci sembra essere l’impostazione più fedele ai presunti desiderata dell’Agenzia delle Entrate muove invece da altri presupposti ricollegabili proprio al segmento e alla peculiarità della sanità integrativa italiana. Questa considerazione poggia su una più attenta rilettura dell’art. 11 del Codice delle Assicurazioni per cui le Compagnie possono svolgere solo due attività: fare assicurazione vita e assicurazione danni (e le operazioni strumentali e connesse a queste). Sempre l’articolo 11 chiarisce però come le stesse compagnie possano inoltre svolgere “le attività relative alla costituzione e alla gestione delle forme di assistenza sanitaria e di previdenza integrative, nei limiti ed alle condizioni stabilite dalla legge”.

Probabilmente la norma nasceva non proprio con la consapevolezza che le vorremmo dare oggi, ma è interessante notare come il lemma “gestione” possa essere letto come possibilità per la Compagnia di operare per rendere soluzioni sanitarie integrative attraverso le forme giuridiche di legge (proprio i fondi sanitari integrativi), senza per questo dover istituire un proprio fondo. La congiunzione “e” non sembra imporre qui una necessaria compresenza delle due attività (in questo senso si veda quanto avviene in materia di previdenza complementare, dove la cCmpagnia spesso è un gestore, ma non un istitutore della forma gestita).

Si badi poi che questa “gestione” è qualcosa di diverso dall’assicurazione tipica vita e danni. Diversamente non si capisce perché doverlo chiarire a valle dell’autorizzazione già concessa alle compagnie di svolgere queste due ultime attività. E non a caso, lo stesso art. 345 del Codice delle Assicurazioni, quando parla di uno degli attori della sanità integrativa, le società di mutuo soccorso, si esprime in modo diverso da quanto avverrebbe in presenza di un normale contratto assicurativo. Si legge infatti: “Le società di mutuo soccorso di cui al comma 1, lettera f), se contraggono impegni al pagamento a favore degli iscritti di capitali o rendite complessivamente superiori a euro centomila per ciascun esercizio sono sottoposte alle disposizioni del titolo IV in quanto compatibili. Qualora le medesime società stipulino contratti di assicurazione per conto degli iscritti, ai soci sono comunque fornite le informazioni di cui al titolo IX, capo III, e XII in quanto compatibili”.

Il disposto di questo articolo spesso trascurato dà per assodato che una società di mutuo soccorso possa farsi contraente di una polizza per conto degli iscritti (come avviene nel fenomeno sin qui commentato), ma poi anche nell’esprimersi non parla di assicurati (bensì di iscritti) e richiama la disciplina della trasparenza distributiva, da applicarsi in quanto compatibile (non a caso molti fondi sanitari dialogano con i propri iscritti secondo una dizione di prassi: il “cassese”, per distinguerlo dall’assicurativo. Si parla di piani sanitari e non di polizze. Si consegna documentazione del fondo diversa dalla tipica polizza…).

Insomma, a voler tirare le fila, ci pare che - riletta in questi termini - la disciplina assicurativa riconosca una peculiarità propria al settore della sanità integrativa e tratteggi un modo di operare delle Compagnie, atipico rispetto alla classica operatività vita e danni.

Venendo quindi a una lettura diversa della risposta, forse la soluzione è più vicina che lontana. Salvo alcune storture di cui si è detto in avvio (operatività create al solo fine di ritrarre benefici fiscali che non si avrebbero contraendo direttamente una polizza assicurativa), l’esito dell’operazione sanitaria integrativa dovrebbe condurre a una triangolazione negoziale perfetta, se ben costruita:

  1. Il primo rapporto negoziale e necessario è quello che lega il lavoratore al fondo. Si tratta del vero e unico rapporto sanitario integrativo, in base al quale il fondo sanitario promette al lavoratore stesso di poter godere di determinate prestazioni in base al contributo pagato da lui e/o dal suo datore;
     
  2. Il secondo rapporto negoziale è quello tra fondo sanitario e Compagnia. Il fondo in quanto chiamato a prestare la sua attività istituzionale stipula un’assicurazione danni (peculiare) con una Compagnia di Assicurazione, per consentire ai propri destinatari di ottenere le prestazioni promesse (in tutto o in parte). Questa relazione è sia una contraenza per conto altrui (ex art. 1891 c.c.) sia un accordo di collaborazione in cui il fondo sanitario e la compagnia interagiscono tra loro ai fini delle prestazioni, essendo entrambi debitori della prestazione verso il lavoratore (il fondo a titolo sanitario integrativo, la Compagnia a titolo assicurativo). Questa collaborazione ha tipicamente sede in un accordo a latere rispetto alla classica polizza assicurativa. Qui torna in campo quella “gestione” di cui all’art. 11 del Codice delle Assicurazioni;
     
  3. Il terzo rapporto è quello tra compagnia e lavoratore. La Compagnia pagando l’indennizzo sta adempiendo in tutto o in parte l’obbligo proprio, ma anche quello del fondo sanitario verso il lavoratore stesso. In questo senso, sia il fondo sia il lavoratore sono atecnicamente  “beneficiari” della copertura: il lavoratore in quanto destinatario del pagamento, il fondo sanitario in quanto liberato del proprio debito verso il lavoratore per il tramite del pagamento assicurativo.

Va da sé, poi, che più e meglio si lavori sulle strutture negoziali, più questa enfasi di interesse proprio del fondo può essere elevata. Se, infatti, l’intera relazione negoziale assicurativa fosse limitata al fondo (il quale incassa gli importi, quale vincolatario in deroga all’art. 1891, comma 2, c.c., in luogo del lavoratore e li riversa a quest’ultimo in base al rapporto sanitario integrativo, oltre a gestisce tramite propri service i sinistri), senza che il lavoratore venga mai concretamente a contatto diretto con la Compagnia, la netta cesura tra servizio sanitario integrativo e garanzia assicurativa sarebbe ancora più netta. Il lavoratore avrebbe un’unica controparte contrattuale, essendo lo strumento assicurativo limitato alla sola “gestione” del fondo stesso, quale beneficiario.

 

In conclusione

Riteniamo sussistano validi argomenti per una rilettura della risposta dell’Agenzia delle Entrate in linea con l’operatività attuale di molti dei fondi sanitari esistenti.

In attesa di eventuali ulteriori prese di posizione da parte della stessa, sarà fondamentale (lato fondi sanitarie e Compagnie) lavorare sugli assetti negoziali per rafforzare o meglio specificare la centralità del fondo sanitario all’interno dell’operazione assicurativa. Facendo leva su tutti quegli aspetti sostanziali che lascino intendere che il fondo non si sia limitato a una mera conversione di contributi in premio assicurativo, ma che la gestione dell’operazione passa per la sua guida ed è gestita sinergicamente con la Compagnia per rispondere all’interesse concorrente del fondo con quello dei lavoratori (entrambi impropriamente “beneficiari” dell’operazione).

Guardandola dal lato delle imprese e dei lavoratori, si tratterà invece – per evitare sorprese – di verificare o richiedere di avere certezza che simili circostanze corrispondano al vero, non essendo tutti i fondi uguali tra loro, anche in termini di gestione.

Alessandro Bugli, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali e Socio Studio Legale Taurini&Hazan ​

10/12/2020

 
 
 

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