Distribuzione, insurtech e smart work al tempo di COVID-19 (tra virtù e cautele)

COVID-19 sta sottoponendo l'insurtech a un importante scossone evolutivo: lo smart working "forzato" da una parte e la crescente digitalizzazione dei processi relazionali dall'altra impongono infatti un significativo ripensamento di ogni modello assicurativo e previdenziale in termini di prodotti, tutele e distribuzione

Alessandro Bugli e Maurizio Hazan

Dall’angoscia delle nostre clausure forzate tutti noi cerchiamo di vedere una luce.  E ci interroghiamo su quale sarà il futuro.  Dopo il Medioevo, che ci aspetta nella cosiddetta, e tanto agognata, “fase 2”? Ci sarà finalmente, e come sarà, il Rinascimento? Saremo tutti davvero, irreversibilmente cambiati, dopo COVID-19, o piuttosto non aspetteremo altro che il momento giusto per compiere una drastica inversione a “U” e tornare a gambe levate verso le nostre antiche “aree di comfort”? Verso quelle abitudini di cui un tempo in realtà ci lamentavano ed alle quali oggi guardiamo con la nostalgia di un amante sedotto e abbandonato? 

Chi scrive, come quasi tutti del resto, è autenticamente convinto che lo tsunami che ci ha travolto cambierà davvero irreversibilmente il nostro modo di vivere, dando un’accelerazione supersonica a processi di trasformazione tecnologica e relazionale da tempo in atto ma lenti a carburare definitivamente. Quella esasperazione tecnologia a cui gli adulti guardavano (anche) con diffidenza – rimproverando ai loro figli l’abuso delle comunicazione telematica e la perdita di una più fisica ed immediata umanità – è diventata oggi, al tempo del COVID-19 , quasi come un paradosso, una specie di ancora di salvezza attorno alla quale non disperdere relazioni che la distanza avrebbe invece annichilito (ivi comprese quelle scolastiche). Ed ecco dunque che, volenti o nolenti, tutti abbiamo dovuto comprendere, in un lampo, la potenza straordinaria del nuovo linguaggio telematico e di una interazione necessarie, e comunque ineludibile, tra l’uomo e le macchine.

È con queste premesse che ci sembra opportuno calare lo sguardo sui cambiamenti che, in questi scenari di crisi, stanno riguardando il nostro settore di interesse, quello assicurativo e previdenziale. Le attività (pur con qualche rallentamento iniziale) sembrano non essersi fermate, anzi.

L’impatto di COVID-19 sui rischi e sulla solidità delle economie pubbliche e private impone di guardare alle assicurazioni, e ai sistemi di welfare mix, come a un sostegno sociale e solidaristico indispensabile. D’altra parte, i cambiamenti in atto impattano e impatteranno fortemente sugli equilibri tecnici e sugli assetti negoziali dei sistemi assicurativi e previdenziali, imponendo adeguamenti e revisioni di assetti e metodi non più al passo coi tempi.

La distribuzione assicurativa non sarà più quella di un tempo, e già lo stiamo vedendo. 

Le figure “chiave” di un mondo assicurativo che aveva un dannato bisogno di “personalizzarsi” (e darsi un volto e un’anima attraverso un’assidua presenza fisica sul territorio) sono quelle che oggi soffrono di più. Ci riferiamo agli agenti ed agli altri intermediari di prossimità che hanno da sempre fondato (giustamente) la loro relazioni con il cliente su relazioni personali il più possibile “fisiche” e assidue. A coloro i quali hanno saputo farsi interpreti reali dei bisogni della loro clientela, conquistandone la fiducia tra un caffè, una confidenza e un amichevole consiglio ed intercettandone le esigenze quali migliori interpreti, in concreto,  di quei principi tanto declamati in astratto dalla direttiva IDD (2016/97/UE),  tra cui quelli che stanno alla base della product governance (POG) di prodotto, tanto voluta.

Ecco: sono proprio loro, abituati a “metterci la faccia” a pagare di più le spese del distanziamento sociale; vuoi per i limiti di una riconversione veloce dell’operatività, vuoi per la fisiologica riduzione della domanda per alcune garanzie (vedi quelle auto in primis, in sostanziale blocco della circolazione per scopi non lavorativi), vuoi per la difficoltà dei clienti di adattarsi in tempi brevi alle nuove regole del gioco telematico. Ma è il tempo di una presa d’atto, forse definitiva, di un mondo che è già cambiato e delle necessità si deve fare virtù.

Il percorso di ripensamento dei modelli distributivi richiesto da IDD sta compiendo oggi, in tempo di distanziamento e pandemia, un forzoso ma brusco salto in avanti, che rende anacronistica ogni resistenza al cambiamento e ogni tentativo di voler continuare a “far tutto come prima”. Ci siamo tutti resi conto di quanto il telematico in realtà possa essere uno strumento non surrogatorio ma perfettamente complementare all’operatività tradizionale, consentendo di organizzare in tempo reale riunioni virtuali e attività a distanza un tempo semplicemente impensabili. Il che fornisce strumenti nuovi e ulteriori per essere paradossalmente più vicini, anche in momenti di lontananza fisica.

Allo stesso tempo, la sfida delle relazioni in remoto postula cambiamenti reali nella operatività dei player di mercato, imponendo nuove e più moderne interazioni tra compagnie, intermediari e clienti. Alcuni cantieri di lavoro, sin qui presidiati con soltanto apparente impegno, non possono più essere trascurati: la semplificazione dei prodotti, dei processi e del linguaggio diventa un momento essenziale per alimentare correttamente il dialogo con la clientela nei tempi, accelerati e velocissimi, degli scambi telematici. Per poter conquistare la fiducia degli assicurati occorre anzitutto parlar loro in modo davvero chiaro e immediato: DIP, DIP aggiuntivo e tutta la documentazione contrattuale, pensata da IDD in termini di intuitiva comprensibilità grafica, devono davvero esser costruiti in modo da poter capiti senza subito e senza equivoci. 

Il che vuol dire, davvero, abbandonare retaggi linguistici che, a fronte del futuro “rinascimento”, scontano il limite di una paleontologia semantica, sintattica ed espressiva. L’autoevidenza dei testi contrattuali, da sola, non basta.

L’educazione della clientela alla conoscenza del proprio rischio, quale momento centrale dell’assicurazione moderna nella sua funzione preventiva, postula capacità e competenza in tutti coloro che sono e saranno impegnati nella filiera distributiva. Tutti i prodotti assicurativi e previdenziali richiedono di essere presentati correttamente e ve ne sono alcuni che, per loro definizione più complessi, non possono non essere sostenuti dalla qualificata assistenza e consulenza di (qualificati) distributori. E, in certi casi, la velocità tipica dei transiti telematici non può comunque annichilire l’esigenza di disporre del tempo occorrente a presentare e spiegare taluni prodotti più complessi (si veda al riguardo quanto ben enunciato dal considerando 48 della direttiva IDD). Prodotti che, paradossalmente, spesso risultano quelli meno remunerati in termini di compenso (salvo ricorsi, non sempre ortodossi, alle cosiddette fatture per consulenza). 

E proprio in termini di costi e compensi, l’informatizzazione dei processi metterà in evidenza e distinguere, specie nelle architetture distributive complesse, quali siano i contributi intermediativi qualitativamente rilevanti da quelli puramente figurativi e tali da gonfiare la filiera di compensi non sempre provvidi. E non a caso la censura di IVASS (e anche di Banca d’Italia) relativa all’esorbitare dei costi per catene distributive spesso non necessitate in termini di qualità e quantità delle attività singolarmente svolte dai singoli anelli delle stesse, ritrova oggi casa nella recente lettera congiunta al mercato delle due Autorità, in tema di polizze abbinate (PPI, a tutela del bene in garanzia e “decorrelate”) ai finanziamenti.

Insomma, tutto sembra legarsi. Un compenso “giusto” per un’attività di consulenza “centrale”, quando necessaria, nell’educare e aiutare il cliente nelle scelte di sicurezza e previdenza della sua vita. Consulenza che, andando oltre al caffè e la pacca sulla spalla, può trarre supporto e forza dalla straordinaria capacità di penetrazione e di guida propria degli strumenti telematici, nonché dalla già ricordata semplificazione dei processi e dei linguaggi, di cui le compagnie dovranno essere prime artefici ponendo al servizio delle proprie reti strumenti di dialogo e prodotti efficaci e innovativi. 

Ci avviamo dunque verso il tempo della maturità del cosiddetto insurtech, ma tecnologia e sofisticazione richiedono anche una particolare e attenta valutazione dei sempre nuovi e maggiori rischi incidentali che insorgono in tema di cyber e di tutela della riservatezza. E ciò anche verso i professionisti esterni, nell’ambito dei cui rapporti la sicurezza dei transiti telematici sarà sempre più una priorità. Sarà così opportuno, ad esempio, fare in modo che i dati riferiti ai sinistri, in questo tempo di operatività a distanza e di dialogo con fornitori terzi e avvocati, non finiscano per essere indebitamente diffusi sulla rete in ragione di strutture operative non adeguate o a causa di un breach del sistema di sicurezza.

La rivoluzione di questi giorni, chiaramente non interessa solo il mondo dell’assicurazione e dei servizi: ma il fatto che anche là dove i beni non sono per natura dematerializzati (cibi, vestiti, piante, …), COVID-19 abbia spinto ancor più velocemente (almeno nei centri urbani) il mondo verso il “delivery”, dimostra quanto stiano mutando le nostre abitudini di consumo.

Ma il ragionamento non riguarda solo il consumo di beni e i servizi, ma anche, e forse soprattutto, il modo di produrli.

Lo smart work, oggi quasi imposto dalle contingenze, stravolge e stravolgerà molti degli assetti tradizionali della nostra società civile. Secondo l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano (2019), gli smart worker in Italia nel 2019 erano 570mila, oggi – nei limiti del possibile – l’intero Paese è passato in pressoché total smart working.

I dati, oggi ingigantiti dalla pandemia e dalla necessità cogente di rimanere distanziati, già nel 2019 (secondo il Politecnico di Milano) rivelavano un quadro in cui il 58% delle grandi imprese aveva avviato progetti (anche sperimentali) di smart work. Il 12% per le PMI; i cui settori maggiormente interessati dallo smart work erano, sempre secondo lo studio sin qui citato: coloro che si occupano di gestione personale (nel 56% dei casi), la proprietà (31%) e la direzione IT (30%); il fenomeno ha interessato, pur con numeri contenuti, pur se in crescita, anche la PA. Fiorella Crespi, direttrice dell’Osservatorio, affermava con chiara visione prospettica che molti datori avevano (e hanno) un'errata visione di fondo del moderno di lavoro agile. Riprendendo le sue parole: “Sono ancora poche le organizzazioni che … interpretano [lo smart work] come una progettualità completa, che passa anche dal ripensamento degli spazi e da un nuovo modo di lavorare basato sulla fiducia e la collaborazione. Agire sulla flessibilità, responsabilizzazione e autonomia delle persone significa trasformare i lavoratori da ‘dipendenti’ orientati e valutati in base al tempo di lavoro svolto a ‘professionisti responsabili’ focalizzati e valutati in base ai risultati ottenuti”. 

A riprova di quanto sopra, il settore PMI vedeva ancor con sospetto, almeno prima di COVID-19, questo tipo di operatività. L’idea, antica, era quella del dover essere presente fisicamente al lavoro, quasi come se la presenza fisica fosse sinonimo di efficienza e di reale possibilità di controllo: lo smart work è stato così spesso percepito come una possibile falla nell’eterodeterminazione del dipendente o del collaboratore, lasciando troppo discrezionalità e zone d’ombra. Da qui il pensiero di voler tornare ai cari vecchi impieghi, in uffici più prossimi a batterie di allevamento che a veri luoghi in cui spendere utilmente le proprie energie lavorative

Senza qui perdersi sulle distinzioni lavoristiche tra “telelavoro” (tradizionale) e “smart work”, si ricorda come questa “modalità” di lavoro subordinato (secondo l’art. 18 della legge 81/2017) debba essere in realtà  intesa come funzionale a incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. Non tutto deve essere bianco o nero: lavoro da casa e confronto collegiale in ufficio (o in remoto..) sono momenti essenziali per coniugare i vantaggi di una flessibile elasticità prestazionale con il necessario coordinamento all’interno di organizzazioni eterogestite. Ma quando si parla di smart work sempre di lavoro si tratta. Non a caso, l’art. 22 delle stessa legge 81, in tema di sicurezza sul lavoro stabilisce che: “Il datore di lavoro garantisce la salute e la sicurezza del lavoratore che svolge la prestazione in modalità di lavoro agile e a tal fine consegna al lavoratore e al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, con cadenza almeno annuale, un'informativa scritta nella quale sono individuati i rischi generali e i rischi specifici connessi alla particolare modalità di esecuzione del rapporto di lavoro. 2. Il lavoratore è tenuto a cooperare all'attuazione delle misure di prevenzione predisposte dal datore di lavoro per fronteggiare i rischi connessi all'esecuzione della prestazione all'esterno dei locali aziendali”.

L’infortunio sul lavoro è espressamente coperto, secondo l’art. 23 della stessa legge, per cui: “2. Il lavoratore ha diritto alla tutela contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali dipendenti da rischi connessi alla prestazione lavorativa resa all'esterno dei locali aziendali. 3. Il lavoratore ha diritto alla tutela contro gli infortuni sul lavoro occorsi durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione … quando la scelta del luogo della prestazione sia dettata da esigenze connesse alla prestazione stessa o dalla necessita' del lavoratore di conciliare le esigenze di vita con quelle lavorative e risponda a criteri di ragionevolezza”.

Ora, in questi giorni, l’attenzione è andata giustamente verso coloro che sono rimasti sui luoghi di lavoro (medici e infermieri, in primis), per capire se e quali tutele apprestare in ipotesi di infezione COVID-19. Senza richiamare, qui, tutti i diversi passaggi regolamentari e gli interventi INAIL, si può rammentare come l’infezione da nuovo coronavirus sia considerata – almeno ai fini delle assicurazioni sociali – alla stregua di un infortunio per gli operatori sanitari; infortunio di natura professionale (sulla base di una presunzione di contaminazione in ragione dell’attività lavorativa prestata, si veda l'istruzione operativa INAIL 17 marzo 2020).

Di questa circostanza si è cercato di tirare le fila anche in ambito assicurativo per comprendere se e quando le polizze infortuni private o RCO trattino le “affezioni morbose” come vera e propria causa violenta, accidentale ed esterna equiparabile all’infortunio. Sul punto si è scritto poco, ma il tema è certamente di interesse non solo per le vittime (assicurate), ma anche per datori e per l’intero settore assicurativo. Si provi a immaginare, però, in termini più generali cosa potrebbe accadere dal lato delle polizze della persona ove l’infortunio o la malattia dello smart worker (COVID-19 o altro infortunio domestico) dovesse essere fatto oggetto di indennizzo di polizza; magari nel silenzio della stessa. Come detto, secondo la legge, lo smart worker deve godere delle stesse tutele del lavoratore in sede. Secondo INAIL, si veda la circolare n. 48/2017, l’infortunio dello smart worker è indennizzabile quando vi sia uno “stretto collegamento con quella lavorativa, in quanto necessitata e funzionale alla stessa, sebbene svolta all’esterno dei locali aziendali”. In questo senso assume importanza il modello di comunicazione predisposto da INAIL il 25 febbraio 2020 da trasmettere al lavoratore e al RLS (rappresentante dei lavoratori per la sicurezza) riportante l’informativa sulla sicurezza ex. art. 22 delle legge 81/2017, citato in precedenza. Nel modello si leggono tutta una serie di buone pratiche per evitare conseguenze negative per la propria salute in caso di smart work indoor (e, anche, outdoor).

Detto questo, il settore assicurativo della salute è pronto a far fronte all’incremento di fenomeni avversi che possano riguardare la salute degli smart worker? E come trattare il delicato tema della responsabilità del datore e dei presidi di sicurezza all’interno della sfera domestica del dipendente (specie a fronte dello smart working massivo in qualche modo imposto dai recenti provvedimenti governativi emergenziali)?

In più, in presenza di coperture per la salute (limitate o meno alla sola attività lavorativa), il solo fatto di rimanere di più negli ambienti domestici diviene comunque esso stesso ragione di aggravamento del rischio, al netto delle difficoltà di prova della natura (professionale od extraprofessionale) del danno. E invero in Italia, ante COVID-19 (dato ISTAT, 2019), gli infortuni domestici erano circa 3 milioni l’anno, per una raccolta assicurativa infortuni pari a 3,5 miliardi (dato ANIA).

In ogni caso, il ricorso massivo allo smart work, di cui per lungo tempo (e forse per sempre) non potremo fare a meno, introduce rischi e necessità di tutela di cui è chiaro il mondo delle assicurazioni dovrà giocoforza occuparsi, immaginando soluzioni specifiche per questo tipo di necessità e stile di vita. Certamente da integrare utilmente con la tutela pubblica da INAIL, in logica di corretta sinergia di welfare multipilastro. Il tutto, senza dimenticare la necessità di profilare correttamente le (nuove) esigenze dei contraenti, rispetto alle quali taluni prodotti di vecchia generazione rischiano di perdere molta della loro aderenza. 

Non pare quindi esservi dubbio, per concludere, che insurtech e smart work, in tempi di COVID-19, subiranno uno scossone evolutivo tale da imporre un veloce e “contagioso” ripensamento di ogni passato modello assicurativo e previdenziale,  in termini di prodotti, processi, distribuzione e tutele.

Alessandro Bugli, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali e Socio Studio Legale Taurini&Hazan

Maurizio Hazan, Comitato Tecnico Scientifico Itinerari Previdenziali e Socio Studio Legale Taurini&Hazan 
 

17/4/2020

 
 
 

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