La compensazione del lucro col danno a seguito delle SS.UU. civili del 22 maggio 2018

Travalicando i confini della responsabilità civile e del diritto civile puro, gli esiti delle sentenze erano e sono destinati ad avere un impatto determinante sul più generale modello di sicurezza sociale italiano: novità, orientamenti e punti ancora aperti

Alessandro Bugli

Con proprio poker di arresti, in data 22 maggio 2018, le Sezioni Unite hanno provato a dare risposta all’annoso affaire relativo a regole e limiti dell’applicabilità dell’istituto della compensatio lucri cum damno in ipotesi di eventi lesivi che implichino la responsabilità civile di un soggetto danneggiante.

Il tema, come noto, ha interessato a lungo gli interpreti che si sono in più riprese domandati:

  • Quando e perché il danno risarcibile in conseguenza di un sinistro può essere ridotto o del tutto escluso in ragione di altri “vantaggi” che il danneggiato abbia conseguito in occasione dell’illecito? 
  • Quali sono questi “vantaggi” che incidono sul danno risarcibile? Sono tali le prestazioni degli assicuratori sociali (INPS, INAIL, …) e i capitali, le rendite e le indennità derivanti da polizze vita e danni stipulate in proprio dal danneggiato? 
  • E, prima ancora di rispondere a questi due quesiti, è vero che l’Ordinamento italiano non potrebbe tollerare il cumulo di prestazioni di natura diversa in capo al danneggiato (tanto più se ricevute a titolo diverso – contrattuale e non – e da soggetti diversi dal solo danneggiante)?

Tutti questi dubbi, apparentemente di ridotto interesse sino a un lustro fa, avevano generalmente trovato risposta nel pieno diritto del singolo di cumulare con il risarcimento prestazioni dovute a titolo diverso da enti o assicuratori privati, salvo per determinate ipotesi di “elargizioni” degli assicuratori sociali (ad esempio, le pensioni di invalidità della L. 222/1984 e delle rendite e capitali pagati da INAIL) e il controverso divieto di cumulo dei capitali ottenibili da più polizze infortuni in ipotesi di un unico evento accidentale, violento e esterno (v. Cass. SS.UU. 5119/2002). 

Tutto era destinato, però, a cambiare. Con diverse pronunce dal 2014 in avanti, la Terza Sezione di Cassazione sembra aver mutato integralmente il proprio approccio alla materia e, data l’importanza e risonanza anche sul piano sociale di alcune di queste pronunce (si veda, in primis, Cass. 13233/2014 in tema non cumulabilità tra poste risarcitorie e prestazioni dovute dall’assicuratore privato in ragione di una polizza infortuni), la questione non poteva che finire all’attenzione delle Sezioni Unite. 

Prima della rimessione alla Sezioni Unite, la Sezione Terza di Cassazione, con diversi arresti (come detto, in contrasto con buona parte dei precedenti della Corte di legittimità), aveva scomputato dall’ammontare dovuto dal danneggiante, nell’ordine: i capitali percepiti in ragione di una polizza infortuni contratta separatamente dal danneggiato, la quota di pensione di reversibilità capitalizzata dovuta da INPS a coniuge e figli della vittima, le indennità di accompagnamento e, in generale, ogni altra prestazione “previdenziale” e “indennitaria” che sollevi il danneggiato dalla stato di bisogno: cioè, praticamente, tutto.

Da qui, le quattro sentenze oggi in commento.

Il quesito centrale posto alle Sezioni Unite è quindi di comprendere se: “Se nella liquidazione del danno debba tenersi conto del vantaggio che la vittima abbia comunque ottenuto in conseguenza del fatto illecito, ad esempio percependo emolumenti versatigli da assicuratori privati, da assicuratori sociali, da enti di previdenza, ovvero anche da terzi, ma comunque in virtu' di atti indipendenti dalla volontà del danneggiante”. Senza pregiudicare il commento delle quattro pronunce, si può qui anticipare che le Sezioni Unite,  a differenza dell’esercizio sin qui svolto dalla stessa Sezione Terza, cominceranno con il chiarire ai rimettenti come non sia compito delle stesse quello di fissare principi generali dell’ordinamento e che, anche volendo offrire una risposta di carattere generale sull’applicabilità del principio della compensatio lucri cum damno a tutte le vicende di danno, non sarebbe possibile né corretto operare in termini “ragionieristici”, operando algide somme e sottrazioni tra poste di natura diversa, senza indagare caso per caso dell’opportunità stessa della compensatio anche per poste che il legislatore ha voluto espressamente che i beneficiari delle stesse siano le povere vittime di eventi dagli esiti – più volte – devastanti la vita delle stesse e dei loro cari.

Le Sezioni Unite riconoscono, quindi, l’esistenza dell’istituto (pretorio) della compensatio lucri cum damno, ma ne limitano sensibilmente lo spettro applicativo, rispetto a quanto ipotizzato dalla Sezione Terza rimettente.

Così, la prima a cadere o, se non altro, a essere sensibilmente messa in discussione è la perentoria affermazione di un principio per cui l’applicazione della compensatio lucri cum damno deve fare riferimento “a qualsiasi emolumento previdenziale o indennitario… se la sua erogazione è intesa a sollevare la vittima dallo stato di bisogno derivante dall'illecito” (così Cass. 7774/2016). 

Come anticipato, infatti, leggendo gli arresti in commento, l’esercizio “algebrico” andrà invece dosato in ragione della natura dell’ (asserito) vantaggio di cui si discute, verificando quale sia la reale natura della prestazione ottenibile dal danneggiato in occasione dell’evento lesivo, secondo quella nel seguito sarà definitiva (usando le parole della Corte) come regola della “giustizia” del beneficio. 

A tal fine, le Sezioni Unite forniscono una serie di indici da prendere a riferimento per verificare quando una posta previdenziale o indennitaria si cumuli o vada diffalcata dal risarcimento.

 

La lunga attesa e i possibili impatti sul moderno modello di welfare mix

Travalicando i confini della responsabilità civile e del diritto civile puro, gli esiti delle sentenze erano e sono destinati ad avere un impatto determinante sul più generale modello di sicurezza sociale italiano. Si tratta, apparentemente, di materie molto lontane tra loro, ma proprio l’analisi del rapporto tra risarcimento dei danni (e in dettaglio di quelli derivanti da fatti di sinistrosità stradale e malpractice medica, tra le maggiori cause di macroinvalidità per i singoli danneggiati) e prestazioni di welfare pubblico e complementare non poteva e non può che interessare tutti gli interpreti del moderno modello di welfare mix.

A partire dagli anni Novanta del secolo scorso, come noto, il modello di welfare fondato tutto sul ruolo delle Stato e degli altri enti pubblici ha subito una necessaria rimeditazione, anche in ragione dell’opera di moral suasion di matrice europea e anche per il valore delle prestazioni rese dal pubblico che, tra sanità, pensioni e assistenza supera di gran lunga il 50% del prodotto interno lordo nazionale.

Così, i recenti orientamenti della Terza Sezione di Cassazione non potevano che condurre ad un ragionamento profondo sull’effettivo incentivo a ricorrere a forme di assicurazione o mutualità privata per i propri rischi e bisogni, sapendo che gli strumenti di elezione potevano essere limitati nella propria portata, in ipotesi di eventi invalidanti conseguenti a condotte di terzi. Allo stesso tempo, la spinta avviata con la legge n. 222/1984 (in tema di surroga per il recupero delle prestazioni per invalidità pensionabile) e poi con la più recente legge n. 183/2010 in tema di recuperabilità presso i danneggianti e le assicurazioni private dei costi per assegni e pensioni di invalidità civile lasciava intendere l’avvio di un percorso inarrestabile di spending review e ribaltamento sugli assicuratori privati di valori economici che l’art. 38, comma 4, della Costituzione sembra porre necessariamente in capo allo Stato o agli enti pubblici. 

Un'apertura senza limiti all’applicazione della compensatio lucri cum damno a tutte le prestazioni di welfare pubblico e privato avrebbe finito, se non altro, per danneggiare il debole sviluppo dell’accesso a forme di secondo e terzo pilastro e aumentato i rischi di aumento di costi per danno patrimoniale in capo alle imprese, ove ogni prestazione resa dagli enti previdenziali avesse finito per essere considerata essa stessa danno, trascurando una corretta distinzione tra pregiudizio civilistico e funzioni a cui sono chiamati i diversi attori del sistema di sicurezza sociale. Il tutto con evidente tradimento dell’art. 47 della Costituzione per cui: “La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme”.

Resta inteso che anche alla luce delle pronunce in commento, il miglior esercizio per avvocati, liquidatori e giudici resta quello di censire tutte le prestazioni ottenibili dai singoli danneggiati e giudicare dell’opportunità di computarne i valori secondo i dettami di processo delle Sezioni Unite. Insomma, quella che un tempo era materia estranea o comunque tangenziale a quella della responsabilità civile (il riferimento è al sistema di sicurezza sociale e del welfare complementare) irrompe oggi a pieno titolo e come protagonista sulla scena, impegnando i diversi attori a farsi competenti conoscitori e interpreti dei diversi istituti esistenti (a partire da INPS, a INAIL, ai modelli di welfare regionali, provinciali e comunali, alle prestazioni ottenibili dalle casse di previdenza dei professionisti, alle realtà pensionistiche complementari, a quelle sanitarie integrative e ancora alle polizze della persona per LTC, DD, PHI, perdita di impiego e altro).

 

La definizione di compensatio lucri cum damno e la sua evoluzione nel diritto pretorio italiano

Secondo la migliore dottrina (Massimo Bianca, La responsabilità, in Diritto Civile, Milano, 201, 167 e ss.) per compensatio lucri cum damnodeve intendersi il principio secondo il quale la determinazione del danno risarcibile deve tenere conto degli effetti vantaggiosi per il danneggiato che hanno causa diretta nel fatto dannoso”. 

L’istituto di cui si discute non trova casa nel diritto codificato, bensì solo in giurisprudenza come regola fondante il corretto modo di quantificare il “giusto” risarcimento, senza che l’evento lesivo possa essere occasione di indebiti vantaggi per la vittima del sinistro. Se nessuno sembra porre in dubbio il buon senso e la correttezza dell’operazione di scomputare dal danno patito dalla vittima gli eventuali vantaggi che abbiano ridotto o eliminato integralmente le conseguenze lesive dell’evento (in questo senso l’art. 2043 c.c. sembra escludere categoricamente che possa aversi responsabilità civile in assenza di un pregiudizio risarcibile: “Qualunque fatto  doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno­”). Così, niente danno, niente risarcimento. Un esempio di scuola potrebbe essere quello dell’abbattimento accidentale di un muro di confine che il giorno seguente sarebbe stato comunque divelto a seguito dell’intervento di un’impresa specializzata, con costi a carico del danneggiato, senza che si imponga al danneggiato di ripagare l’intero valore del muro che sarebbe stato comunque abbattuto.

E, così, in questi anni, sino al coronamento del principio della teoria del danno-conseguenza con le note sentenze di San Martino del 2008 (nn. 26792/2008 e ss.), si è discusso e tentato in giurisprudenza di affermare che la responsabilità del danneggiante non possa arrivare tanto in là da tracimare nella punizione della condotta fine a sé stessa, bensì debba tendere al reintegro della perdita subita dal danneggiato. Se così è, allora è evidente che nel liquidare si dovrà guardare alle conseguenze della condotta lesiva e, se queste sono elise in ragioni di altri “vantaggi”, allora si dovrà indennizzare solo il delta di pregiudizio dato dalla differenza tra danno realmente subito e misura del beneficio ottenuto.

In questo contesto più ampio si inserisce a pieno titolo l’istituto della compensatio lucri cum damno che, salvo per la recente lettura estensiva in termini di applicazione da parte della Terza Sezione, è stato limitato alle sole e poche ipotesi in cui (v. ancora Bianca, cit., 169) il “vantaggio” di cui si discute fosse causato dall’inadempimento o dall’illecito e fosse inerente al bene o all’interesse leso. Da questa premessa, dottrina e giurisprudenza, hanno sempre fatto conseguire: a) un’applicazione dell’istituto ai soli casi in cui l’inadempimento o l’illecito fossero la causa e non la mera occasione del vantaggio (non dovrebbe quindi secondo l’Autore tenersi conto nel calcolo del risarcimento della “somma raccolta da un gruppo di concittadini a favore della vittima” o le “somme corrisposte da un terzo per spirito di liberalità”; b) come non dovrebbero essere ricomprese nel calcolo del risarcimento le prestazioni previdenziali e assicurative private in quanto il diritto all’indennizzo scaturisce dal contratto o dalla legge e non dall’inadempimento o dall’illecito (in questo senso, ex multis, Cass. 5464/1988).

E, così, mentre la giurisprudenza si stava negli anni spingendo a riconoscere nella responsabilità civile l’unica funzione di risarcire il danneggiato del pregiudizio ingiusto patito e, quindi, a ammettere l’indennizzo dei soli danni “conseguenza” (peraltro, seri e gravi, escludendosi – ad esempio – il diritto al risarcimento per il già cieco totale che subisca successivamente il distacco della retina per fatto di terzo), la Corte di legittimità continuava a resistere dal trarre da questa tendenza interpretativa la conclusione che in assenza di conseguenze negative a seguito del sinistro, per intervento di altri vantaggi, si dovesse necessariamente mandare immune il danneggiante da ogni conseguenza. 

Il primo cambio di rotta si avrà, come anticipato, con la nota pronuncia Cass. 13233/2014, dove si negherà in termini espressi la possibilità di assommare l’importo dovuto a titolo risarcitorio con quello derivante da una polizza infortuni privata (in analogia con la controversa pronuncia delle SS.UU. 5119/2002 che aveva dato per pressoché assodata la tipizzazione negoziale della polizza infortuni e la sua funzione indennitaria; circostanza che – ove si guardi al mercato – è presto smentita dal comune legame diretto tra capitale ottenibile e premio corrisposto, meccanismo tipico delle assicurazioni vita e non di quelle danni a riprova della natura previdenziale di queste coperture, ben lontane dal voler consentire all’assicurato di poter ricevere un indennizzo per il solo danno biologico patito; non essendo comprensibile altrimenti il diverso compendio promesso e pagato dall’impresa a due diversi assicurati in ragione di una lesione di pari grado. 

La distanza iniziale tra teoria del danno conseguenza e applicazione indiscriminata del principio della compensatio, colmata nell’ultimo lustro dalla Sezione Terza, finiva però per cedere di nuovo il passo in ragione di una pronuncia a Sezioni Unite apparentemente eccentrica rispetto agli istituti in commento, ma fondamentale nel nuovo modello di responsabilità civile italiano.

 

L’arrivederci alla lettura “monofunzionale” della responsabilità civile e l’impatto sull’applicazione dell’istituto della compensatio lucri cum damno. La regola della “giustizia” del beneficio

Con propria sentenza n. 16601/2017, le Sezioni Unite - proprio all’indomani della rimessione della questione della compensatio lucri cum damno – hanno offerto un colpo letale alla lettura “monofunzionale” della responsabilità civile (intesa, sin lì, come mera operazione di reintegra del pregiudizio patito dal danneggiato). Si legge infatti in chiusura di arresto (dedicato alla deliberazione di una pronuncia straniera facente applicazione dell’istituto dei punitive damages): “Nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, poichè sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile. Non è quindi ontologicamente incompatibile con l'ordinamento italiano l'istituto di origine statunitense dei risarcimenti punitivi”.

Questo passaggio, datato luglio 2017, non poteva che lasciare intendere l’esito del riscontro ai quesiti posti all’attenzione delle Sezioni Unite da parte della Terza Sezione.

La teoria della “giustizia del beneficio”, infatti, ben si incastona nel nuovo modo di leggere la finalità della responsabilità civile. Se la posta indennitaria non deve più essere strettamente letta come operazione di reintegro patrimoniale e non del danno ingiusto patito dal danneggiato, allora forse – con molta attenzione – si può sostenere che, anche quando un “beneficio” previdenziale dovesse tendere direttamente a sollevare la vittima dallo stato di bisogno, non sarebbe comunque corretto ridurre le conseguenze patrimoniali che l’ordinamento vuole che siano poste in capo al danneggiante alla stregua di un punitive damage.

Giusta o sbagliata che sia la nuova visione “poliedrica” della responsabilità civile, non si può che prendere atto dell’impatto della stessa sulla materia in commento.

 

Le quattro pronunce delle Sezioni Unite in materia di applicabilità dell’istituto della compensatio lucri cum damno alla vicenda risarcitoria 

Attese da tempo, le sentenze fanno rapido seguito alla pronuncia del Consiglio di Stato (n. 1/2018) sempre in tema di compensatio lucri cum damno che, in modo un poco pilatesco, non aveva dato risposta piena ai numerosi dubbi che si è detto riguardare la materia. 

Se, da un lato, il Consiglio di Stato deciderà nel caso di specie per l’applicazione dell’istituto in commento (il caso atteneva ad una infermità per causa professionale in cui si discuteva del diritto della vittima di incassare il danno non patrimoniale conseguente alle lesioni patite in aggiunta all’equo indennizzo già riconosciutogli dal Ministero datore di lavoro pubblico) affermando (si veda punto 8): “la presenza di un’unica condotta responsabile, che fa sorgere due obbligazioni da atto illecito in capo al medesimo soggetto derivanti da titoli diversi aventi la medesima finalità compensativa del pregiudizio subito dallo stesso bene giuridico protetto, determina la costituzione di un rapporto obbligatorio sostanzialmente unitario che giustifica, in applicazione della regola della causalità giuridica e in coerenza con la funzione compensativa e non punitiva della responsabilità, il divieto del cumulo con conseguente necessità di detrarre dalla somma dovuta a titolo di risarcimento del danno contrattuale quella corrisposta a titolo indennitario”; dall’altro, nella sentenza si legge infatti che, se il principio della compensatio tra conseguenze negative e “vantaggi” conseguenti al sinistro può ragionevolmente trovare applicazione quando il danneggiante sia chiamato, come nel caso di specie, in ragione dell’evento, a sostenere i costi del risarcimento e per altro titolo a pagare prestazioni di natura indennitaria, l’istituto stesso della compensatio entra in crisi in caso di rapporti trilateri (dove vi è l’intervento di un assicuratore privato o di un ente previdenziale): “Le descritte fattispecie si caratterizzano per la presenza di “rapporti giuridici trilaterali” ovvero, più precisamente, di duplici rapporti bilaterali: i) la relazione tra parte responsabile obbligata a titolo di illecito e parte danneggiata; ii) la relazione tra quest’ultima e altra parte obbligata a titolo diverso a seconda della vicenda che viene in rilievo. Tali situazioni rendono più complessa la ricostruzione dei modi di operatività della compensatio. Non è questa la sede per proporre una possibile soluzione, in quanto si tratta di questioni che, con le ordinanze sopra indicate, sono state rimesse all’esame delle Sezioni unite della Cassazione”.

A pochi mesi di distanza, ecco l’arrivo delle note sentenze in commento. L’intervento della Sezioni Unite, come anticipato, è stato richiesto con quattro diverse ordinanze, datate 22 giugno 2017 (nn. 15534, 15535, 15536 e 15537). Nelle ordinanze di rimessione al Primo Presidente, la Terza Sezione di Cassazione ha richiesto: 

Se nella liquidazione del danno debba tenersi conto del vantaggio che la vittima abbia comunque ottenuto in conseguenza del fatto illecito, ad esempio percependo emolumenti versatigli da assicuratori privati, da assicuratori sociali, da enti di previdenza, ovvero anche da terzi, ma comunque in virtu' di atti indipendenti dalla volontà del danneggiante”.

In due delle quattro ordinanze, il quesito sarà così diversamente formulato: 

Se, in tema di risarcimento del danno, ai fini della liquidazione dei danni civili il giudice deve limitarsi a sottrarre dalla consistenza del patrimonio della vittima anteriore al sinistro quella del suo patrimonio residuato al sinistro stesso, senza far ricorso prima alla liquidazione e poi alla cd. compensatio lucri cum damno (istituto o principio non individuabile nell'ordinamento giuridico); e di conseguenza stabilire, quando l'evento causato dall'illecito costituisce il presupposto per l'attribuzione alla vittima, da parte di soggetti pubblici o privati, di benefici economici il cui risultato diretto o mediato sia attenuare il pregiudizio causato dall'illecito, se di essi il giudice deve tenere conto nella stima del danno, escludendone l'esistenza per la parte ristorata dall'intervento del terzo

Posto il quesito in termini generali, stante le diverse vicende all’attenzione della Terza Sezione (due sinistri stradali verificatosi in itinere, un caso di malpractice medica e la nota vicenda di Ustica), nelle quattro ordinanze si richiede a cascata ratione materiae:

a)se la c.d. "compensatio lucri cum damno" (così icasticamente denominato il meccanismo liquidatorio anzidetto) possa operare come regola generale del diritto civile ovvero in relazione soltanto a determinate fattispecie”. Questo il quesito per il caso Ustica e uno dei due sinistri stradali (si vedano ordinanze 15534 e 15535/2018); 

b)se il risarcimento del danno patrimoniale patito dal coniuge di persona deceduta, e consistito nella perdita dell'aiuto economico offertole dal defunto, va liquidato detraendo dal credito risarcitorio il valore capitalizzato della pensione di reversibilità' attribuita al superstite dall'ente previdenziale” (si veda ordinanza 15536/2018);

c) se il risarcimento del danno patrimoniale patito dalla vittima di lesioni personali, e consistente nelle spese da sostenere per l'assistenza personale ed infermieristica, vada liquidato detraendo dal credito risarcitorio il valore capitalizzato della indennità di accompagnamento di cui alla L. 21 novembre 1988, n. 508, articolo 1, oppure di cui alla L. 12 giugno 1984, n. 222, articolo 5, comma 1” (si veda ordinanza 15537/2018).

A fronte dei quesiti svolti e, soprattutto, di quello primario e di carattere generale sull’esistenza e necessaria applicazione generalizzata dell’istituto della compensatio lucri cum damno, tre erano i possibili esiti, almeno dal punto di vista logico:

1) Soluzione coerente con la lettura recedente data dalla Terza Sezione. Dall’ammontare del danno risarcibile/indennizzabile va sempre e comunque defalcato ogni importo che sia occasionato dall’evento lesivo, sia che questo sia dovuto direttamente dal danneggiato, ovvero da un ente terzo (sia esso, ad esempio, un assicuratore privato, sociale o altro ente chiamato alla prestazione)

2) Soluzione estrema di segno opposto (mai accolta in giurisprudenza). Nella quantificazione del danno risarcibile non si deve mai tenere conto di altri “vantaggi” che la vittima abbia ottenuto in ragione dell’evento lesivo;

3) Soluzione del caso concreto, della distinzione per classi omogenee di prestazioni e della “giustizia del beneficio”. Nel liquidare il danno risarcibile si dovrà indagare in concreto di quale prestazione si tratti e solo dopo un’attenta analisi della sua natura concludere per il defalco del valore della stessa dall’ammontare risarcibile.

Quest’ultima soluzione è quella accolta dalle Sezioni Unite. 

Così, il poker di sentenze non ha intenzionalmente voluto offrire una risposta secca e valida universalmente in tema di calcolo dell’ammontare risarcibile, limitandosi le Sezioni Unite a prendere posizione sulle quattro vicende poste alla loro attenzione (in questo senso, si veda il passo per cui alle Sezione Unite non spetta “l'enunciazione di principi generali e astratti o di verità dogmatiche sul diritto, ma la soluzione di questioni di principio di valenza nomofilattica pur sempre riferibili alle specificità del singolo caso della vita”), e offrendo – anche qui deliberatamente – all’interprete una serie di strumenti per poter fare corretta applicazione dell’istituto della compensatio lucri cum damno.

 

Il percorso logico seguito dalle Sezioni Unite (e che dovrà d’ora in avanti orientare gli interpreti)

i) L’ambito di applicazione dell’istituto della compensatio lucri cum damno è controverso nel caso in cui risarcimento e (asserito) vantaggio provengano da soggetti tra loro diversi (danneggiante e ente terzo, compagnia di assicurazione o istituto di previdenza). “…Là dove il vantaggio acquisito al patrimonio del danneggiato in connessione con il fatto illecito derivi da un titolo diverso e vi siano due soggetti obbligati, appunto sulla base di fonti differenti. Situazione che si verifica quando, accanto al rapporto tra il danneggiato e chi è chiamato a rispondere civilmente dell'evento dannoso, si profila un rapporto tra lo stesso danneggiato ed un soggetto diverso, a sua volta obbligato, per legge o per contratto, ad erogare al primo un beneficio collaterale…

ii) Ai fini dell’applicazione del principio si tratta di comprendere se il “beneficio” debba più opportunamente restare nel patrimonio del danneggiato o essere scomputato dall’ammontare risarcibile. “… In questa ed in altre fattispecie similari si tratta di stabilire se l'incremento patrimoniale realizzatosi in connessione con l'evento dannoso per effetto del beneficio collaterale avente un proprio titolo e una relazione causale con un diverso soggetto tenuto per legge o per contratto ad erogare quella provvidenza, debba restare nel patrimonio del danneggiato cumulandosi con il risarcimento del danno o debba essere considerato ai fini della corrispondente diminuzione dell'ammontare del risarcimento…

iii) La regola generale accolta dalla giurisprudenza di legittimità in questi casi è e resta nel senso del cumulo e non del diffalco. “… Tornando all'ambito operativo della compensatio in presenza di una duplicità di posizioni pretensive di un soggetto verso due soggetti diversi tenuti, ciascuno, in base ad un differente titolo, occorre rilevare che la prevalente giurisprudenza di questa Corte ritiene che per le fattispecie rientranti in questa categoria valga la soluzione del cumulo del vantaggio conseguente all'illecito, non quella del diffalco…”

iv) Altra importante considerazione alla base della regola favorevole al cumulo è la diversità di titolo da cui deriva il diritto al risarcimento e quello da cui promana il diritto alla prestazione previdenziale o assicurativa“…La diversita' dei titoli delle obbligazioni - il fatto illecito, da un lato; la norma di legge (ad esempio, nel caso di percezione di benefici da parte di enti previdenziali, assicuratori sociali, pubbliche amministrazioni) o il contratto (ad esempio, nel caso di percezione di indennizzi assicurativi), dall'altro - costituisce una idonea causa di giustificazione delle differenti attribuzioni patrimoniali: conseguentemente, la condotta illecita rappresenta, non la causa del beneficio collaterale, ma la mera occasione di esso”

v) Si tratterà quindi di passare per un test eziologico per cui non possono entrare in linea di conto vantaggi indiretti o mediati, tanto più se l’incremento patrimoniale è il frutto di scelte autonome del danneggiato o del suo sacrificio (es. la ricerca di una nuova occupazione).“… Le Sezioni Unite ritengono che la sollecitazione a compiere la verifica in tema di assorbimento del beneficio nel danno in base a un test eziologico unitario, secondo il medesimo criterio causale prescelto per dire risarcibili le poste dannose, non possa spingersi fino al punto di attribuire rilevanza a ogni vantaggio indiretto o mediato, perche' cio' condurrebbe ad un'eccessiva dilatazione delle poste imputabili al risarcimento, finendo con il considerare il verificarsi stesso del vantaggio un merito da riconoscere al danneggiante. Cosi', non possono rientrare nel raggio di operativita' della compensatio i casi in cui il vantaggio si presenta come il frutto di scelte autonome e del sacrificio del danneggiato, come avviene nell'ipotesi della nuova prestazione lavorativa da parte del superstite, prima non occupato, in conseguenza della morte del congiunto…”

vi) Le prestazioni rese dal terzo, rispetto al danneggiante, devono avere un collegamento funzionale comune con il risarcimento ed essere intese direttamente a indennizzare la vittima dell’evento.“… E' un approccio ermeneutico, questo, che da tempo la scienza giuridica offre alla comunità interpretante, rilevando che la determinazione del vantaggio computabile richiede che il vantaggio sia causalmente giustificato in funzione di rimozione dell'effetto dannoso dell'illecito: sicché in tanto le prestazioni del terzo incidono sul danno in quanto siano erogate in funzione di risarcimento del pregiudizio subito dal danneggiato. La prospettiva non è quindi quella della coincidenza formale dei titoli, ma quella del collegamento funzionale tra la causa dell'attribuzione patrimoniale e l'obbligazione risarcitoria …”

vii) Si tratterà quindi di distinguere tra classi di casistiche, da analizzare al filtro della regola di “giustizia del beneficio” per comprendere la ragione specifica posta a fondamento della prestazione resa dal soggetto terzo rispetto al danneggiante. Un esempio di esclusione dal diffalco è proprio l’assicurazione sulla vita dove il capitale o la rendita sono la contropartita del risparmio previdenziale svolto tempo per tempo attraverso il versamento di premi di assicurazione da parte del danneggiato.“… La selezione tra i casi in cui ammettere o negare il diffalco deve essere fatta, dunque, per classi di casi, passando attraverso il filtro di quella che è stata definita la "giustizia" del beneficio e, in questo ambito, considerando la funzione specifica svolta dal vantaggio. Così, nel caso di assicurazione sulla vita, l'indennità si cumula con il risarcimento, perché si è di fronte ad una forma di risparmio posta in essere dall'assicurato sopportando l'onere dei premi, e l'indennità, vera e propria contropartita di quei premi, svolge una funzione diversa da quella risarcitoria ed è corrisposta per un interesse che non è quello di beneficiare il danneggiante …”.

viii) La stessa verifica per classi andrà svolta per verificare se la legge preveda un diritto del terzo erogatore del “beneficio” a surrogarsi verso il danneggiante. In questo caso pare evidente che il legislatore non abbia voluto ammettere la possibilità di cumulo di risarcimento e prestazione in capo al danneggiato.“… Una verifica per classi di casi si impone anche per accertare se l'ordinamento abbia coordinato le diverse risposte istituzionali, del danno da una parte e del beneficio dall'altra, prevedendo un meccanismo di surroga o di rivalsa, capace di valorizzare l'indifferenza del risarcimento, ma nello stesso tempo di evitare che quanto erogato dal terzo al danneggiato si traduca in un vantaggio inaspettato per l'autore dell'illecito …”.

In conclusione, ai fini del diffalco, l’interprete dovrà interrogarsi sulla natura della prestazione, indagando la funzione del vantaggio secondo il filtro della “giustizia” del beneficio; facendosi aiutare in tal senso dall’esistenza o meno di un’ipotesi di surroga in favore dell’ente erogante, come riprova della non volontà dell’Ordinamento di veder cumulato in capo al danneggiato risarcimento e beneficio previdenziale o assicurativo.

E, così, sintetizzando, non entrano nel diffalco, quindi, quei potenziali benefici che conseguano a un sacrificio compiuto spontaneamente dal danneggiato (ad esempio,  trovare una nuova occupazione) o quelli che per ragione di solidarietà sociale debbano essere necessariamente rivolti al danneggiato (si pensi a interventi di sostegno a zone svantaggiate o sconvolte da eventi tellurici) ovvero ancora a prestazioni che altro non sono che contropartita di una precedente opera di risparmio (ad esempio, le assicurazioni sulla vita, peraltro pagate iure proprio ai beneficiari in caso di morte del portatore di rischio).

Come anticipato, secondo la Corte, l’esercizio risulterà più semplice nel caso in cui sia già il legislatore ad avere previsto un diritto di surroga in capo all’ente erogatore della prestazione. In questo caso non vi dovrebbero essere dubbi sulla necessità di procedere allo scomputo del valore della prestazione dall’ammontare del danno risarcibile. Se il legislatore ha voluto che l’ente erogatore della prestazione possa recuperare la posta erogata presso il danneggiante, è chiaro come lo stesso non abbia voluto che il danneggiato possa cumulare “benefici” e risarcimento. Ritornando per un attimo al principio generale declinato in termini di incumulabilità dei benefici e del risarcimento da parte del danneggiante nel caso in cui la legge consenta una surroga dell’ente erogatore verso il danneggiante, la degna conclusione di questo iter interpretativo è che l’istituto della compensatio lucri cum damno sia sempre applicabile all’assicurazione danni, alle prestazioni INAIL e all’indennità di accompagnamento. Per tutte e tre le prestazioni esiste infatti un passo di legge che consente espressamente la surroga da parte dell’assicuratore privato o di INPS o INAIL (l’art. 1916 c.c. e l’art. 41 della L. 183/2010, in merito al quale le Sezioni Unite pongono incidentalmente fine alla discussione sulla portata del del lemma “recupero” riferito ai diritti dell’INPS che, sin qui, avevano dato vita a una lettura della disposizione intesa a riconoscere un diritto proprio dell’Istituto a richiedere il rimborso delle somme pagate a titolo di prestazioni assistenziali e non invece a titolo di surroga e nei limiti del danno indennizzabile).

Qui le tre massime:

1) Cass. SS.UU. n. 12565/2018: “Il danno da fatto illecito deve essere liquidato sottraendo dall'ammontare del danno risarcibile l'importo dell'indennità' assicurativa derivante da assicurazione contro i danni che il danneggiato-assicurato abbia riscosso in conseguenza di quel fatto

2) Cass. SS.UU. n. 12566/2018: “L'importo della rendita per l'inabilità permanente corrisposta dall'INAIL per l'infortunio in itinere occorso al lavoratore va detratto dall'ammontare del risarcimento dovuto, allo stesso titolo, al danneggiato da parte del terzo responsabile del fatto illecito”.

3) Cass. SS.UU. n. 12567/2018: “Dall'ammontare del danno subito da un neonato in fattispecie di colpa medica, e consistente nelle spese da sostenere vita natural durante per l'assistenza personale, deve sottrarsi il valore capitalizzato della indennità' di accompagnamento che la vittima abbia comunque ottenuto dall'Inps in conseguenza di quel fatto”.

Seguendo lo stesso iter logico, le Sezioni Unite riconoscono il diritto al pieno cumulo per i superstiti tra risarcimento e pensione di reversibilità, con evidente chiusura all’orientamento fatto proprio in precedenza da Cass. n. 13537/2014 (contraex multis, Cass. 11761/2006 e 4205/2002). Si legge nella pronuncia a SS.UU. n. 12564/2018: “Dal risarcimento del danno patrimoniale patito dal familiare di persona deceduta per colpa altrui non deve essere detratto il valore capitale della pensione di reversibilità accordata dall'Inps al familiare superstite in conseguenza della morte del congiunto”. Le ragioni del mancato diffalco consistono qui: x) nell’assenza di una previsione di surroga dedicata al caso di specie; xx) così come nel passaggio al metodo di calcolo contributivo per la pensione per invalidità, vecchiaia e superstiti con la L. 335/1995 (Legge “Dini”) e con D.L. 201/2011 (Revisione “Monti/Fornero”) per cui “tanto contribuisci” in termini pensionistici, “tanto ricevi” (anche se il ragionamento non è perfettamente coerente con il calcolo della pensione di invalidità, per cui per definizione mancano parte dei contributi per l’erogazione della prestazione che si andrà a rendere, essendosi in un caso di anticipo per definizione del rateo pensionistico rispetto alla data effettiva di maturazione dei requisiti per la pensione di anzianità e vecchiaia). 

 

Alcuni punti ancora aperti

Non essendo oggetto di analisi, rimane ancora aperto il tema relativo alla cumulabilità tra prestazione dovuta in ragione di una polizza infortuni e il risarcimento del danno da parte del terzo danneggiante (cumulo negato di recente dalla nota pronuncia Cass. 13233/2014). Resta, quindi, aperta una delle partite più interessanti e complesse del nostro ordinamento: se la polizza infortuni sia intesa a indennizzare il pregiudizio patito dal singolo e, come tale, l’importo vada defalcato dal risarcimento ottenibile dal terzo danneggiante (in questo senso lascerebbe deporre, seguendo il ragionamento della Corte, l’art. 1916 c.c. che ammette espressamente il diritto di surroga dell’assicuratore per le poste pagate in ragione di infortuni sul lavoro o per disgrazie accidentali) ovvero, come sembra giustificare l’evoluzione di queste soluzioni dal 1942 in avanti, nel moderno modello di sicurezza sociale fondato su logiche multipillar e di welfare mix, l’assicurazione infortuni abbia natura squisitamente previdenziale e non tenda affatto a “rivalere” il singolo di un danno patito, bensì a garantirgli i mezzi convenzionalmente ritenuti necessari a sé e ai propri cari in ipotesi di eventi infausti. Così la “giustizia” del beneficio (e il sacrificio di risparmio svolto dal singolo) a cui fa riferimento la Corte non dovrebbe essere inquinata dalla messa in linea di conto con l’ammontare dovuto dal danneggiante che tende per definizione giuridica e economica a compensare il pregiudizio patrimoniale e non patito dal singolo.

Ulteriore dubbio attiene all’effettiva ricomprendibilità ai fini del calcolo del risarcimento di prestazioni sociali che siano sì legate allo stato di invalidità del singolo, ma il cui diritto a beneficiarne sia connesso ad altri requisiti (es. la presenza di un indicatore di situazione economica equivalente – ISEE particolarmente basso o l’assenza di un’occupazione). È sufficiente, in linea con quanto avviene con le prestazioni di invalidità civile erogate da INPS e oggetto di possibile surroga, che l’evento lesivo sia causa del soddisfacimento di uno dei diversi requisiti per l’ottenimento del vantaggio per far sì che quando gli altri si concretino per spontanea azione del singolo danneggiato questi perda parte del diritto al risarcimento?

Altra considerazione attiene poi alla possibile crisi della netta correlazione tra diritto di surroga e non cumulabilità di benefici e risarcimento. Questa soluzione, apparentemente lineare, si complica in almeno due ipotesi:

a) quando convenzionalmente l’assicuratore decida di rinunciare preventivamente al diritto di surroga. Ora, essendo l’art. 1916 c.c. (in tema di surroga dell’assicuratore verso il terzo danneggiante) pacificamente derogabile dalle parti (assicuratore e contraente), cosa accade nel caso in cui l’impresa accetti preventivamente di rinunciare ad ogni diritto di surroga verso il danneggiante? Può sostenersi in questo caso che la rinuncia al diritto di surroga qualifichi di fatto la prestazione come avente natura previdenziale e non indennitaria e come tale da escludersi nel calcolo del risarcimento dovuto? È questo il caso tipico, peraltro, delle assicurazioni infortuni. In caso affermativo, sarebbe sufficiente verificare l’esclusione dell’applicabilità dell’art. 1916 c.c. per comprendere quando l’assicurazione danni debba essere considerata ai fini della liquidazione del danno;

b) per il fatto che l’ordinamento prevede un’ipotesi aperta di surroga legale, l’art. 1203, c. 1, n. 3: “a vantaggio di colui che, essendo tenuto con altri o per altri al pagamento del debito, aveva interesse di soddisfarlo”.

Quando il pagamento è fatto con altri o per altri o invece in proprio per legge o per atto spontaneo? È necessaria l’esistenza di un obbligo ad adempiere o no?

Comunemente, a titolo di esempio, si sostiene che l’ipotesi naturale di surroga legale per pagamento “con altri” sia quella dell’adempimento integrale da parte di uno dei diversi debitori solidali, mentre quella del pagamento “per altri” venga a verificarsi nel caso della fideiussione. La questione diviene più complessa quando ci si trovi al cospetto (come nella materia che ci occupa) di adempimenti di obbligazioni scaturenti da titoli diversi (e, forse, per quel che si è detto, non coincidenti in termini di finalità). Ma qui, di tutta evidenza sostiene un obbligo di adempiere l’obbligazione originaria “con altri” o “per altri”.

Diverso il caso in cui l’obbligazione che il (potenziale) surrogante vada ad adempiere abbia titolo diverso da quella a cui è chiamato all’adempimento il terzo debitore. Secondo il più recente insegnamento della Corte di legittimità (Cass. 28061/2013) “… la norma [n.d.r., l’art. 1203, c. 1, n. 3, c.c.] non impone affatto che il solvens sia tenuto al pagamento del debito per la medesima causa debendi vantata dall'accipiens nei confronti dell'altro o degli altri obbligati, né che sia direttamente obbligato nei confronti dell'accipiens, richiedendo piuttosto la titolarità di un interesse, giuridicamente qualificato, alla estinzione dell'obbligazione, requisito che, a sua volta, postula l'esistenza non già di una obbligazione già attuale e liquida, o comunque giudizialmente accertata, ma solo di un rapporto del solvens con il debitore preesistente al pagamento”.

La più recente giurisprudenza di legittimità, quindi, se da un lato esclude che la surroga legale possa verificarsi in ipotesi di adempimento spontaneo di un debito altrui, dovendo il (potenziale) surrogante esservi “tenuto” per altri o con altri, dall’altro lato, esclude altrettanto che la surroga legale possa verificarsi solo nel caso sussista in capo al solvensun obbligo giuridico di adempiere l’obbligazione nei confronti dell’accipiens.

Quale, quindi, la soluzione? Se la surrogazione non può avvenire in caso di adempimento spontaneo, ma allo stesso tempo non è necessario che l’adempimento sia conseguenza di un obbligo giuridico con l’accipiens, la soluzione rinvenuta, non del tutto prendibile, fa risiedere il diritto di surroga nell’ “interesse” del solvensdi adempiere l’obbligazione “per altri” o “con altri” e nella preesistenza di un rapporto (obbligo?) preesistente ad adempiere (non verso l’accipiens, ma) verso il debitore preesistente.

Insomma, la questione sembra più complessa che mai. Se, infatti, il passo in commento fosse letto come necessaria presenza ai fini della surroga di un obbligo tra solvens e debitore preesistente, che senso avrebbe agire in surrogazione? Il diritto a richiedere il rimborso di quanto pagato da parte del solvens, infatti, promanerebbe proprio dal titolo che lo lega al debitore preesistente.

Allora deve trattarsi evidentemente di altro. E, così, provando a rimettere ordine, si potrebbe sostenere che ai fini della surroga legale vi debba essere un interesse del solvens ad adempiere (“interesse” proprio del solvens non necessariamente corrispondente ad un obbligo di legge, ma – ad esempio – alla volontà di scongiurare un possibile futuro contenzioso con l’accipiensavente ad oggetto l’accertamento di un suo diritto risarcitorio, pur se dubbio) e che la legge o la natura dei rapporti che legano solvense debitore preesistente giustifichi l’intervento del terzo pagatore (che si ricorda, come affermato dalla Corte di legittimità, paga in proprio e solo per conto di terzi). Laddove passasse questo tipo di lettura, allora l’esistenza di una clausola aperta di surroga legale potrebbe riportare in campo prestazioni altrimenti da escludere dal diffalco, ove si possa sostenere che l’ente terzo o l’assicuratore adempiano la loro obbligazione, certamente in proprio, ma anche “per altri” o “con altri” e, cioè, il danneggiante.

Così provando a esemplificare, quando, ad esempio, una legge dovesse imporre a un ente locale, di sostenere per legge i costi della ristrutturazione dell’immobile del danneggiato per adeguarlo alle novità della domotica, per far fronte al suo stato di invalidità, sarebbe corretto sostenere che l’ente locale stia pagando “per altri” o “con altri” ai fini della surroga nei confronti del danneggiante (pur in assenza di un’ipotesi specifica di surroga legale, qual è ad esempio l’art. 1916 c.c.)? In caso affermativo, la presa di posizione delle Sezioni Unite sulla centralità della surroga ai fini del diffalco potrebbe condurre a un’ipertrofica applicazione dell’istituto in commento, anche a spregio di quella “giustizia del beneficio” che sembra invece essere l’elemento a cui porre primaria attenzione, anche in presenza di un possibile diritto di surroga da parte dell’ente pagatore e erogatore del beneficio.

Da qui l’ultimo dubbio: il criterio della “giustizia del beneficio” può confliggere e, in caso affermativo, prevalere sulla circostanza che il legislatore a fronte dell’erogazione della prestazione abbia comunque previsto un diritto di surroga in capo all’ente? E, quindi, quando la prestazione sia evidentemente pensata per essere destinata a favore del singolo per ragioni di interesse sociale? Rispondendo affermativamente al primo quesito sarebbe allora ben possibile immaginare che – nel caso citato dell’esclusione convenzionale dell’applicazione della surroga dell’art. 1916 c.c. a favore dell’assicuratore privato – la “giustizia del beneficio” sia essa stessa riprova della volontà dell’assicuratore privato di non surrogarsi a fronte della prestazione resa, dandosi forse definitiva risposta al tema del rapporto tra poste risarcitorie e capitali e rendite riconosciuti a fronte di una polizza per infortunio della persona.

Alessandro Bugli, Area Assicurativa e Welfare Studio Legale Taurini&Hazan - Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

15/10/2018

 

 

 
 
 

Ti potrebbe interessare anche