COVID-19, se un decreto non basta a curare il welfare e l'Italia…

Il decreto "Cura Italia" nasce dalla necessità improvvisa e immediata di rispondere con misure straordinarie a una situazione straordinaria: buono e condivisibile l'intento di sostenere lavoratori e imprese, non sempre efficace l'esecuzione. Sono però sicuramente molte le lezioni che l'esperienza COVID-19 lascia in eredità al welfare italiano 

Mara Guarino

Un (primo) pacchetto di misure straordinarie con destinatario principale il sistema sanitario impegnato in primissima linea nella lotta contro COVID-19 e, in seconda battuta, famiglie, lavoratori e imprese che stanno invece fronteggiando le ricadute economiche e occupazionali dell’epidemia gravemente abbattutasi sull’Italia: è con questi auspici, e prevedendo uno stanziamento complessivo di 25 miliardi di euro, che lo scorso 17 marzo è entrato in vigore il cosiddetto decreto “Cura Italia”, ora al vaglio del Parlamento.  Nel frattempo, diverse delle misure di welfare previste dal provvedimento hanno già trovato attuazione, anche se non senza problemi (ricorrendo al caso più eclatante, basterà pensare alle travagliate sorti dell’indennità una tantum da 600 euro, inizialmente al centro delle polemiche per la grave “dimenticanza” – poi superata – subita da liberi professionisti e, in seguito, indiretta causa di un lungo down del sito INPS), e l’esecutivo ha approvato un nuovo decreto, già ribattezzato dl “Liquidità” perché finalizzato – nelle intenzioni del governo – a favorire l’accesso al credito e il sostegno alla liquidità delle imprese italiane.

Facendo però un passo indietro e tornando appunto al “Cura Italia”, vale la pena chiedersi quali siano le principali misure a sostegno del reddito e di protezione sociale messe finora in campo per attenuare, entro i limiti del possibile, gli effetti della diffusione del nuovo coronavirus e del successivo lockdown. E, soprattutto, cosa stia o non stia funzionando e dovrà quindi subire inevitabili accorgimenti in corsa. 

 

Cassa integrazione e altre forme di integrazione salariale

Con un occhio di riguardo ai lavori e alle imprese costrette a un rallentamento delle proprie attività quando non addirittura allo stop forzatoil provvedimento allarga innanzitutto le maglie delle Cassa Integrazione nelle sue diverse declinazioni, semplificandone le procedure e ampliando – grazie in particolare allo strumento dell’assegno ordinario e alla Cassa in deroga demandata alle iniziative di Regioni e province autonome - la platea dei potenziali beneficiari di trattamenti di integrazione salariale. Al di là delle buone intenzioni e dei limiti tecnici già evidenziati in questo articolo, proprio a proposito della platea non si può fare a meno di evidenziare alcune esclusioni eccellenti: mentre viene prevista ad esempio, con buona dose di accortezza, una disciplina ad hoc per i lavoratori in somministrazione, risultano d’altra parte del tutto esclusi colf, badanti e altri lavoratori domestici, categoria professionale peraltro particolarmente esposta e danneggiata dal coronavirus. 

Tradotto in numeri e trascurando per ovvie ragioni i pur numerosi rapporti di lavoro irregolari, che sarebbero quasi altrettanti e che, paradossalmente, rischiano così di essere quasi “incentivati”, si sta dunque parlando di circa 859.000 persone (dato INPS al 2018) escluse dalle misure del decreto, in attesa – come promesso anche dal ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali Nunzia Catalfo – di rimediare con i prossimi interventi legislativi. Solo discreta, del resto, la consolazione in arrivo sul versante degli adempimenti previdenziali, rinviati per i datori di lavoro domestico al prossimo 10 giugno, al netto di sanzioni o eventuali interessi. 

 

Bonus una tantum da 600 euro e altre forme di tutela per i lavoratori 

Pagando lo scotto dell’assenza di strumenti già rodati come la CIG e tradendo forse, anche per una questione di retaggio culturale, una maggiore attenzione o sensibilità nei confronti delle forme di lavoro più tradizionale come per l’appunto i rapporti di tipo subordinato, vengono invece destinati a un bonus una tantum di 600 euro lavoratori autonomi, liberi professionisti, collaboratori coordinati e continuativi, stagionali e lavoratori dello spettacolo. Tralasciando appunto il caos in cui è piombato il sito INPS il giorno di apertura delle domande – secondo l’Istituto, a ogni modo, i problemi di privacy e stabilità sarebbero stati provocati da un attacco hacker e non dalle troppe affluenze – in questo caso è soprattutto la formula a far discutere: un’indennità una tantuma domanda individuale ed erogata fino a esaurimento delle risorse stanziate.  Se si considera che alla sola INPS alle ore 11 dell'8 aprile erano già pervenute 3.650.000 richieste, la corsa al sussidio – e le sue possibili conseguenze – si fanno ancora più palesi. E non va meglio alle Casse dei liberi professionisti: al momento, salvo rifinanziamenti, i 200 milioni stanziati consentirebbero infatti di coprire poco più di 330.000 richieste, escludendo nel concreto almeno il 40% dei potenziali aventi diritto. Aventi diritto – come si può leggere in questa nota di AdEPP, l’Associazione degli Enti Previdenziali Privati – a proposito dei quali le Casse stesse hanno presto richiesto ulteriori chiarimenti, lamentando una norma non scritta al meglio e, proprio per questa ragione, aperta a dubbi interpretativi su diversi punti (dalla corretta definizione di “attività limitata dai provvedimenti restrittivi” al reddito cui debbano far riferimento i neoiscritti). E, se possibile, resa ancora più confusa proprio dal dl “Liquidità”, che ha ulteriormente modificato la platea di riferimento, limitandola ai soli professionisti iscritti esclusivamente agli enti di previdenza privati e costringendo di fatto le Casse a sospendere in via temporanea la raccolta delle domande e l'erogazione dei pagamenti

Mentre, sempre a proposito di lavoro subordinato, viene stabilita a partire dal 23 febbraio 2020 e per 60 giorni la sospensione di tutte le procedure di licenziamento collettivo già pendenti e, sempre nello stesso periodo, anche l’impossibilità di intimare nuovi licenziamenti, compresi quelli individuali per giustificato motivo oggettivo, il decreto “Cura Italia” cerca poi di venire incontro anche a quanti hanno invece perso il proprio impiego, verosimilmente rivolgendo il pensiero soprattutto ai rapporti di lavoro non confermati proprio a causa dell’emergenza COVID-19. Con questo intento, dunque, il decreto-legge 18/2020 estende i termini per la presentazione delle domande di NASpI e DIS-COLL, senza tuttavia prevedere – va precisato – alcun particolare incremento della disponibilità finanziaria in dote all’indennità di disoccupazione.  

 

Congedi parentali, bonus baby-sitting work-life balance

Guardano invece, anche qui non senza elementi di criticità, al tema della conciliazione lavoro e famiglia, altre due tra le misure più discusse del decreto legge, vale a dire congedi parentali e bonus baby-sittingCome riuscire del resto a coniugare il lavoro, anche se da remoto, con la cura dei bimbi impossibilitati a frequentare asili e asili nido o dei ragazzi alle prese con lezioni telematiche e aule di scuola virtuali? Proprio nel tentativo di rispondere nel migliore dei modi a questa domanda, ai genitori con rapporti di lavoro dipendenti e figli fino ai 12 anni di età viene riconosciuta la facoltà di usufruire, in forma frazionata o continuativa, di un periodo di congedo della durata massima di 15 giorni. 15 giorni nel corso dei quali al genitore che ne fa richiesta – e qui il singolare non è casuale considerato che il congedo può essere fruito solo da un genitore per nucleo familiare - è cioè concesso di astenersi dal lavoro, godendo comunque del 50% della retribuzione. Speciali e ulteriori accorgimenti sono poi previsti in caso di figli con disabilità o in caso di genitori disoccupati o percettori di forme di sostegno al reddito. Non solo, opportunamente declinata la possibilità del congedo si estende in questo caso anche ai lavoratori autonomi e agli iscritti alla Gestione Separata INPS. Tanto che, a destare perplessità, sono in questo caso la durata e i tempi per la richiesta del congedo: il decreto aveva infatti inizialmente previsto la possibilità di fruirne entro il 3 aprile 2020; alla luce dell’ulteriore prolungamento della sospensione dei servizi dell’infanzia e dell’attività didattica nelle scuole, i termini per la fruizione sono stati poi successivamente prorogati fino al 13 aprile. E, con la didattica che rischia seriamente di non riprendere in forma tradizionale fino a settembre, appare sempre più evidente come nuovi interventi su questo versante siano da mettere in conto. 

Come soluzione alternativa al congedo è comunque riconosciuta alle famiglie italiane anche la possibilità di optare per un bonus per l’acquisto di servizi di baby-sitting erogato a mezzo del cosiddetto “libretto famiglia” già in uso al posto dei vecchi voucher: l’importo così messo a disposizione dei potenziali beneficiari – lavoratori dipendenti, autonomi, iscritti alla Gestione Separata e liberi professionisti (subordinatamente all’apposita procedura di comunicazione da parte delle rispettive Casse di appartenenza) – è di 600 euro, ma si fa più generoso in particolari situazioni di difficoltà, come in presenza di handicap, nel caso del settore sanitario (pubblico e privato) e, più in generale, per tutte quelle categorie professionali direttamente coinvolte nella gestione dell’emergenza (pubblica sicurezza, difesa, etc). Numeri alla mano, in ogni caso ha per ora nettamente prevalso la soluzione del congedo: sempre all'8 aprile le richieste pervenute all’INPS erano più di 195mila contro le quasi 36mila domande di bonus per servizi di baby-sitting. Malgrado l’importo dell’indennità per il congedo sia stato da più parti indicato come poco congruo ad altre indennità a sostegno della genitorialità e comunque troppo basso, sembrano quindi aver trovato conferma, per quanto riguarda il bonus, i timori (ben evidenziati, ad esempio, da questo articolo di Percorsi di Secondo Welfare) di una modalità di richiesta ed erogazione troppo macchinosa a fungere da potenziale deterrente. Anche in questa circostanza, pesa poi indubbiamente il fatto che spesso questo genere di servizi venga prestato in forma irregolare. 

 

Verso un "reddito di emergenza"?  

E proprio il tema delle cautele nei confronti di chi colloca le proprie attività professionali in zone nere o grigie è finito al centro del dibattito politico quando si è palesata l’evidenza, in particolar modo al Sud o comunque nell’alveo di alcune particolari mansioni, di un numero non indifferente di lavoratori a rischio di indigenza proprio perché - in assenza di rapporto di lavoro regolare - fondamentalmente esclusi da gran parte delle misure previste dal decreto “Cura Italia”. Anche su questo terreno è dunque montata la proposta di un’estensione del reddito di cittadinanza o, in ogni caso, l’istituzione di un “reddito di base” “reddito di emergenza” in grado di intercettare i bisogni di chiunque si trovi in stato di necessità anche perché tagliato fuori, per diversi ordini di ragioni, dai primi provvedimenti emergenziali. 

COVID-19 è una situazione straordinaria e, in quanto tale, ha richiesto interventi straordinari: un presupposto condiviso malgrado il quale non sono mancate le polemiche, inevitabili, per i rischi connessi – non tanto nell’immediatezza dell’urgenza quanto piuttosto sul lungo periodo - di una deriva eccessivamente assistenzialistica di uno Stato che, nel 2018,  quando l’ipotesi di una pandemia era quasi fantascientifica, già destinava al proprio welfare e in particolar modo al capitolo assistenza il 26% del proprio PIL, il 56,62% delle entrate contributive e fiscali e il 54,14% della propria spesa totale. E le cui casse, non va dimenticato, continuano a soffrire anche per l’incapacità di contrastare efficacemente il sommerso. 

Legittimo dunque tutelare dignità e necessità umana, anche allo scopo di evitare derive sociali pericolose o addirittura criminali – come nel caso degli assalti ai supermercati – ma solo a condizione che cautelato l’oggi si pensi al domani: esattamente come in campo economico serve un piano che vada oltre il solo accrescere il già elevatissimo debito pubblico italiano, anche nell’ambito delle misure di protezione sociale occorre allora studiare un approccio che, cessata l’iniziale urgenza, vada oltre la semplice elargizione di indennità e trattamenti monetari, destinando le risorse verso politiche attive del lavoro, rilancio dell’occupazione e della produttività. 

 

Come cambierà il welfare italiano dopo COVID-19? 

Insomma, una situazione certo complicata affrontare anche sul piano normativo, che si presta allora a fare da volano ad almeno tre diversi ordini di riflessioni sul welfare italiano. 

Innanzitutto, a prescindere dai limiti che possono presentare tanto il decreto nel suo complesso quanto le sue specifiche misure, il “Cura Italia” risponde con una certa immediatezza ai danni provocati da una minaccia che fino a qualche settimana fa non era immaginabile e che ora esercita invece una pressione a dir poco enorme sul welfare italiano (e non solo). In quest’ottica, almeno alcuni degli errori compiuti diventano forse più facilmente perdonabili, a patto però che i prossimi provvedimenti sappiano coniugare l’attenzione ai soggetti più bisognosi, senza confusioni, cambi di rotta e iniquità, con investimenti a supporto della crescita e dello sviluppo del Paese.

In secondo luogo, va rilevato come, in una situazione emergenziale, le già crescenti difficoltà del welfare statale abbiano delineato ancor più che in passato la necessità di una maggiore presa di coscienza da parte dei privati, chiamati alla responsabilità di svolgere un ruolo sussidiario o addirittura complementare allo Stato. Chiamata, va detto, cui la risposta non ha tardato ad arrivare sia da parte di soggetti più istituzionali, come ad esempio le Fondazioni di origine Bancaria che si sono prontamente mosse a sostegno di un trascurato Terzo Settore o, ancora, come le Casse di Previdenza che, a maggior ragione in virtù della loro peculiare natura di enti privatizzati che svolgono una funzione pubblica, sono in molti casi andate oltre quanto sancito dalla legge prevedendo coperture e misure di tutela aggiuntive per i propri iscritti, sia da parte di organizzazioni filantropiche, fondazioni di impresa o, più semplicemente delle aziende stesse che, in quota sempre più numerosa, sono  ricorse allo strumento del welfare aziendale per rinforzare le tutele nei confronti dei propri dipendenti.  

Un ultimo pensiero infine, parlando di welfare, non può che correre alla sanità pubblica che, già ben prima di SARS-CoV-2, palesava i sintomi di uno stato di salute precario. Sotto la spinta dell’emergenza epidemiologica, il decreto “Cura Italia” è corso immediatamente ai ripari prevendendo a favore del Servizio Sanitario Nazionale stanziamenti d'urgenza ad esempio per il finanziamento degli straordinari del personale medico-infermieristico o dell’aumento dei posti di letto, e misure straordinarie come la possibilità,  in caso di difficoltà a reclutare nuovo personale, di trattenere in servizio il personale del SSN che pur avrebbe raggiunto i requisiti utili alla pensione (e qui, peraltro, il pensiero non può che correre anche al modo in cui Quota 100 ha concorso allo  “svuotamento” delle strutture sanitarie pubbliche). Interventi giusti e necessari che, ricollegandosi però ai numeri del Settimo Rapporto Itinerari Previdenziali sul finanziamento del welfare italiano e sul livello di spesa delle diverse voci che lo compongono, portano ad alcune domande retoriche: perché lasciar scendere i posti letto dai 595mila del 1980 (1 ogni 94 abitanti) ai 151.600 del 2017 (1 ogni 398), mentre la spesa per il welfare italiano non cessava a calare, spinta da misure di tipo assistenziale spesso frutto più di “promesse elettorali” che di una volontà concreta di risolvere alla radice i problemi di questa o quella fascia di cittadini?  

Una domanda retorica appunto, ma non pretestuosa se da questa esperienza si vogliono davvero trarre insegnamenti utili per il futuro. 

Mara Guarino, Itinerari Previdenziali 

10/4/2020

 

 
 
 

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