Elezioni europee, quali riflessi su economia e mercati finanziari?

Le prossime elezioni cambieranno, e se sì come, equilibri politici e politiche economiche delle istituzioni europee? Qualunque sia l'esito una cosa è certa: il 2019 sarà un anno chiave per le future sorti dell'Unione Europea

Giovanni Gazzoli

I dodici mesi a cavallo di 2018 e 2019 sono per l’Unione Europea una sorta di volo della speranza, un viaggio decisivo per abbandonare ciò che resta di un capitolo destinato a chiudersi, e dirigersi verso un futuro che in gran parte è da riscrivere, pena la sua stessa sopravvivenza.

Il decollo – soft – è avvenuto nell’autunno 2018 con l’avvicendamento alla Vigilanza della BCE tra Danièle Nouy e Andrea Enria; la crociera, che si preannuncia turbolenta, inizia in queste settimane con la campagna elettorale per le elezioni del Parlamento europeo (e il relativo Presidente dopo Tajani) e avrà il suo culmine a maggio, quando ci saranno il voto per gli europarlamentari e la nomina del capo-economista della BCE al posto di Peter Praet); infine, in autunno, ci sarà l’atterraggio, che rischia di trasformarsi in un crash landing: tra ottobre e novembre, infatti, si avrà l’ufficialità del Presidente della BCE, di quello del Consiglio Europeo e di quello della Commissione europea (e dei relativi Commissari), in sostituzione di Draghi, Tusk e Juncker: in sostanza, i massimi vertici dell’Unione.

Gli appuntamenti appena delineati si possono raggruppare in due macro-ambiti: uno economico, meno sotto i riflettori ma – per come è attualmente impostata l’impalcatura comunitaria – probabilmente più importante da un punto di vista prettamente “materiale”; e uno politico, fondamentale sia da un punto di vista simbolico sia perché, in ultima, qualora chi tenga le redini riesca a dirigerle, può effettivamente dare una sterzata e cambiare le sorti dell’Unione, riscrivendo un finale che ad oggi non sembra roseo.



Economia

Per quanto riguarda il primo, basta citare la prossima fine del Quantitative Easing fortemente voluto da Mario Draghi (“whatever it takes”) per capire la delicatezza delle vacancies nella BCE. È ampiamente riconosciuto che la politica decisa dall’ex Governatore della Banca d’Italia abbia tenuto a galla le economie maggiormente in difficoltà durante la crisi, tra tutte proprio l’Italia, come è altresì noto che tale posizione abbia scontentato più di un profilo tra i più rigorosi economisti del nord Europa. Ai quali, ora, toccherà la carica, che quindi potrebbe conoscere una direzione diversa da quella degli ultimi anni. In lizza per la sostituzione di Draghi, infatti, sono: il tedesco Jens Weidmann, Presidente della Bundesbank, Erkki Liikanen, ex Governatore della Banca centrale finlandese, il suo successore Olli Rehn, il Governatore della Banca centrale francese Francois Villeroy de Galhau e un membro del board esecutivo della BCE, il francese Benoit Coeure.

Fino a un anno fa, Weidmann sembrava il grande favorito, ma negli scorsi mesi aveva perso molto terreno rispetto agli avversari. Recentemente, la decisione del governo tedesco di astenersi dall’indicazione di un sostituto per Praet, insieme alle dichiarazioni del Ministro Tria a Davos, hanno restituito vigore alla sua candidatura, che comunque resta piena di ostacoli: da una parte, le rigide posizioni (sue e del governo tedesco) sulla politica della BCE nei confronti degli Stati più in difficoltà, dall’altra la decisione strategica di Angela Merkel, che ha due proiettili (Weidmann alla BCE e Weber alla Commissione) e deve scegliere quale usare per sparare l’ultimo (forse) grande colpo della sua lunghissima carriera politica. Nel caso Weidmann dovesse essere vittima di questa partita a scacchi berlinese, il favorito alla poltrona presidenziale sembra il finlandese Liikanen, che nel 2012 ha fatto parte di un gruppo di esperti focalizzatosi sulla riforma del settore bancario europeo; parlamentare in patria da quando ha 21 anni, è stato Commissario europeo, Ministro delle Finanze a Helsinki, Ambasciatore a Bruxelles e Segretario Generale dell’SPD.

Il terzo incomodo è il Governatore di Banque de France Villeroy de Galhau: ha studiato (come Macron) all’École nationale d'administration, ed è il più “draghiano” tra i principali candidati; certo, Parigi sembra più concentrata su difesa e politica estera, ma ha dimostrato di non sottovalutare l’economia, come in occasione della ricollocazione della sede della European Bank Authority, ottenuta proprio a scapito di Francoforte. Sicuramente il rapporto tra Parigi e Berlino sarà decisivo nella “spartizione” politica di queste cariche istituzionali.

Quali saranno dunque le principali sfide economiche che dovrà affrontare l’UE e, di rimando, la BCE?

L’ISPI, in un'analisi dello scorso dicembre, ne delinea alcune. Sicuramente la gestione dell’eredità del QE. Quindi bisognerà prendere una decisione sui tassi di interesse, che hanno raggiunto livelli negativi. C’è poi da dare continuità all’abilità di Draghi nel gestire i rapporti con i propri omologhi, coordinando le politiche monetarie delle principali Banche centrali, in particolare la Federal Reserve americana. Altri aspetti critici sono quelli della trasparenza, dell’indipendenza sia dalle pressioni politiche che da quelli del mondo bancario e della comunicazione con i mercati e con gli altri organi dell’Unione.

Altri spunti si possono ricavare da un documento inviato lo scorso 7 settembre dall’allora Ministro per gli Affari Europei al Presidente della Commissione europea Juncker. Tra tutti, una serie di limitazioni all’azione della BCE, come in materia di intervento sul cambio estero dell’euro (ha ricevuto una delega dal Consiglio europeo, che può essere revocata) e di svolgere funzioni da prestatore di ultima istanza (così “che lo strumento risponda veramente all’istanza di essere non solo whatever it takes, ma anche operi in time”), o in materia fiscale, dove deve fermarsi davanti alla sovranità nazionale.

Sono solo alcune delle tematiche che investiranno non solo il prossimo Presidente della BCE, ma l’Unione tutta, essendo necessarie riforme strutturali che operino sulle fondamenta stesse dell’impalcatura comunitaria.

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Politica

Ed ecco dunque il secondo dei macro-ambito delineati in apertura: quello politico, ossia quello a cui, in linea teorica, spetterebbe questo intervento sulle fondamenta.

Per introdurlo, viene in aiuto proprio un passaggio dell’intervento che il Presidente della BCE Draghi ha tenuto lo scorso 22 febbraio in occasione del conferimento della Laurea ad honorem in Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Bologna: “La globalizzazione ha profondamente cambiato la natura del processo produttivo e aumentato l’intensità dei legami tra Paesi. […] A livello mondiale ciò non è tanto il risultato di scelte politiche quanto il frutto del progresso tecnologico […] che ha reso conveniente lo scambio globale e la frammentazione produttiva”. E ancora: “Nel mondo di oggi le interconnessioni tecnologiche, finanziarie, commerciali sono così potenti che solo gli Stati più grandi riescono a essere indipendenti e sovrani al tempo stesso, e neppure interamente. […] L’Unione europea è la costruzione istituzionale che in molte aree ha permesso agli Stati membri di essere sovrani. È una sovranità condivisa, preferibile a una inesistente”.

Emergono due spunti importanti: una riflessione sul ruolo della politica nel governare l’evoluzione della società, e una proposta di direzione verso la quale andare. Il primo ci rimanda all’osservazione del passato e del presente, il secondo ci proietta all’immaginazione del futuro.

Passato e presente - Le prossime elezioni europee saranno decisive, perché in un senso o nell’altro daranno un segnale molto forte: o prevarranno le forze europeiste, e dunque sarà un mandato ad accelerare ulteriormente un’integrazione troppo spesso ostacolata dagli “egoismi” nazionali, o sarà un successo per le forze anti-sistema, e dunque l’UE cambierà radicalmente (se non cesserà di esistere, scenario che comunque appare difficile da immaginare).

Ciò che è stata e che è diventata l’Unione Europea, è noto a tutti. Un’idea nata da politici illuminati (De Gasperi, Adenauer, Schuman tra tutti), infrantasi più volte su numerose barriere (la più importante, la bocciatura della CED) e dunque riadattatasi e parzialmente mutata in un progetto più economico che politico, che però – con l’avvento della crisi e la necessità di prendere scelte, compito che spetta in primis alla politica – si è indebolito al punto di vacillare nelle stesse fondamenta.

Le forze “europeiste” sono considerate quelle su cui oggi si fonda la maggioranza del Parlamento Europeo: Partito Popolare Europeo, Partito Socialista Europeo e Alleanza dei Liberali e Democratici per l’Europa detengono 471 eurodeputati su 750. All’opposizione si schierano Gruppo dei Conservatori e Riformisti Europei, Verdi, Sinistra Unitaria Europea, Europa della Libertà e della Democrazia Diretta, Europa delle Nazioni e della Libertà e i Non Iscritti ad alcun gruppo politico.

La maggioranza (PPE, PSE e ALDE) esprime anche i membri della Commissione Europea, a partire dal Presidente Juncker (PPE), il cui partito compone la maggioranza della Commissione stessa. Questi schieramenti sono considerati i rappresentanti del vecchio sistema, che secondo molti deve cambiare, passando in mano a nuovi protagonisti. Le grandi famiglie europee (popolarismo, socialismo, liberalismo) sono vittime di una reductio ad unum per il fatto che si sono sempre trovate a convergere verso una posizione moderata, centrista, forse l’unica possibile in un contesto che non può contemplare posizioni estremiste, dovendo concertare la volontà di 28 membri differenti.

Paradossalmente, della necessità di cambiare sono consapevoli gli stessi additati di immobilismo, come dimostra l’ultimo Discorso sullo Stato dell’Unione, pronunciato lo scorso settembre dal Presidente Juncker.

Futuro - Cosa ci aspetta dunque? Il primo tema da cui partire nel valutare lo stato di salute dell’UE sarà proprio il tasso di partecipazione a queste elezioni. Nel 1979, alle prime elezioni del Parlamento Europeo votò il 63% degli elettori; nel 1994, 15 anni dopo, si scese di soli 6 punti, al 57%; altri 15 anni, e il dato è crollato di 15 punti, arrivando al 43,2% (simile al 2014). È evidente il progressivo disinteresse nelle istituzioni comunitarie: un evidente indicatore, per Affari Internazionali, del fatto che le elezioni europee “siano ancora percepite da elettori e classe politica come elezioni di secondo livello”.

Proiezione delle preferenze di voto nell'UE-27 e sulla distribuzione dei seggi nel Parlamento europeo

In secondo luogo, sarà ovviamente cruciale la composizione del Parlamento. Se per mesi si è temuta un’ingente avanzata dei partiti antieuropeisti, nelle ultime settimane si sta facendo largo una versione meno disfattista, anche se la fonte di tale cauto ottimismo è lo stesso Parlamento Europeo.

Quest’ultimo, infatti, pubblica costantemente delle proiezioni sulla sua futura composizione. Nell’ultima versione disponibile (fine febbraio), PPE e PSE perderebbero per la prima volta nella storia la maggioranza del Parlamento (316 totali), che però non sarebbe in discussione unendo anche l’ALDE (75 + 316 = 391).

Se dunque le forze “europeiste” insieme avrebbero più del 55%, bisogna anche considerare l’importante voce “Altri”: in questo gruppo rientrano i parlamentari riconducibili a Macron, più vicini ad un gruppo come ALDE che al ENF di Salvini e Le Pen. Se gli si aggiungesse il partito dei Verdi, inoltre, si andrebbe oltre il 65%. Insomma, la maggioranza euroscettica, ad oggi, non c’è. Si sono paventate maggioranze alternative (la più “chiacchierata” è quella tra PPE e destra sovranista, ma è molto fragile sia nei numeri sia per le possibili conseguenze interne ai singoli partiti).

Detto questo, non è tutto oro quel che luccica. Infatti, i movimenti anti-sistema hanno – forse per la prima volta – dichiaratamente messo nel mirino Bruxelles, e si sono organizzati a livello transnazionale per costruire basi comuni (per quanto possibile, essendo molti di loro sovranisti) aventi l’intento di “combattere” le istituzioni europee (o perlomeno quelle attualmente esistenti). Inoltre, le stesse famiglie europee scricchiolano al loro interno: l’esempio più clamoroso è senza dubbio quello del PPE, lacerato dalla vicenda legata ad Orban, la cui adesione ai valori popolari è da molti messa in dubbio. Inoltre, ci sarà una grande frammentazione, che probabilmente si tradurrà in una “fluidità” di posizioni anche a seconda dei dati ufficiali nel post election-day.

Se, dunque, la superficie potrebbe rimanere calma all’apparenza, e il “sistema” salvare la faccia, le profondità saranno scosse da forti correnti. Per questo, e torniamo all’inizio, saranno fondamentali i nomi dei leader che guideranno le istituzioni, in quanto dalla loro capacità di creare consenso e governare queste correnti dipenderà molto del futuro dell’Unione tutta. Probabilmente una figura come Juncker, spesso criticata sia per la sua scarsa carica carismatica sia per il fatto che – in fondo – era espressione di uno “staterello” come il Lussemburgo, non potrà andare bene. Per questo la Merkel ha deciso di proporre il conterraneo Weber: Presidente del principale partito europeo (stando ai sondaggi) ed espressione dello Stato più forte, garantirebbe alla Commissione la necessaria leadership.

Già, la Commissione: chi c’è dunque in lizza per la guida dell’esecutivo dell’Unione? A oggi, sono principalmente due: Weber, appunto, e Frans Timmermans. Il primo è tedesco e popolare. Presidente del PPE, giovane (46 anni) e cattolico, ingegnere nato nella bassa Baviera, è nel Parlamento Europeo dal 2004; il suo profilo è molto interessante, perché capace di unire e dialogare, come dimostra l’appoggio sia della Merkel che di Orban, nonché la volontà di non creare un muro nei confronti di Salvini e Le Pen. C’è poi il socialista Timmermans: olandese, classe 1961, è l’attuale vice-Presidente della Commissione Juncker. È stato un diplomatico, con incarico a Mosca, nonché Ministro degli Esteri. Nel suo discorso di “insediamento”, ha puntato su temi tradizionalmente di sinistra, in particolare i rapporti con i sindacati, i salari minimi, una tassazione equa e la violenza di genere. A lui l’ingrato compito di gestire la fase più difficile della storia del PSE.

Ci sono inoltre gli outsider: il francese popolare Michel Barnier, che ha gestito il dossier Brexit, e la liberale Vestager, star della Commissione per la sua battaglia contro l’evasione fiscale delle multinazionali.

A uno di questi spetterà il compito più difficile, ossia quello di guidare la nave nella burrasca. Operazione complicata, poiché ci sarà da trovare una posizione comune su tanti temi critici: dall’immigrazione al commercio, passando per Brexit, difesa comune e politica estera, per citare solo i principali.

Ma la sfida più grande sarà impostare una reale riforma delle istituzioni europee, che rendano la macchina più snella, efficace ed efficiente, dando meno l’idea di “carrozzone burocratico”. Su questo si sono riuniti la Merkel e Macron a Mesenberg lo scorso 19 giugno, vertice dal quale è scaturita una dichiarazione che formula alcune proposte: riduzione dei membri della Commissione, liste transnazionali per le elezioni del 2024, aumentare l’applicazione del voto a maggioranza qualificata nel Consiglio dell’UE (speso bloccato dall’unanimità).

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Conclusione

Il 2019 sarà dunque un anno chiave per il futuro dell’Unione Europea, uno degli esperimenti di “integrazione” istituzionale internazionale più riusciti della storia dell’uomo: non bisogna infatti dimenticare che, a oggi, rappresenta il più grande blocco commerciale del mondo, il primo esportatore al mondo di manufatti e servizi, il primo donatore di aiuti umanitari del mondo, l’istituzione con le più grandi elezioni transnazionali del mondo, l’impalcatura che ha garantito decenni di pace dove per secoli si era fatta la guerra (nel 2012 ha anche vinto il Premio Nobel per la pace)…e molto altro ancora.

Tuttavia, i problemi sono tanti, e la crisi economica ha scoperchiato il vaso di Pandora. La richiesta di cambiamento arriva da tutta Europa, come le varie vicende nazionali hanno ripetutamente dimostrato: in principio fu Brexit, poi l’est Europa, poi l’Italia e, ultimi, i gilets jaunes francesi. Questa richiesta deve essere ascoltata e, dove possibile, ricevere una risposta. Dalla capacità della prossima legislatura europea di assolvere a questo compito dipende il futuro dell’intera comunità.

Giovanni Gazzoli, Itinerari Previdenziali

11/3/2019

 
 

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