Casse e welfare strategico: per le professioniste un "libero" sostegno alla natalità?

Dati demografici alla mano, quella della natalità è una questione centrale per il futuro del Paese, che anche le Casse dei liberi professionisti si stanno gradatamente impegnando ad affrontare: quale il mix di ingredienti cui guardare per un approccio efficace al tema? 

Alessandro Bugli e Francesca Chiara Colombo

Mentre nei giorni scorsi si consumava la crisi di governo, nell’“acceso” dibattito parlamentare, si parlava di Europa, di migranti e di utilizzo di simboli sacri. Eppure per qualche secondo il discutere è virato su quello che dovrebbe essere il primo punto di attenzione nelle politiche presenti e future. Tra una battuta e l’altra, in pochi secondi e per evocazione, è stata estratta (metaforicamente) un’immagine dell’Italia al 2050 a tinte fosche. La foto mostra un’Italia di metà secolo, vecchia, con pochi autoctoni (sempre meno) e con tanto bisogno di assistenza; un Paese con una presenza elevata di stranieri o di neo cittadini.

Certo, si dirà, questa descrizione non è veritiera e non può essere fondata su statistiche e numeri. E, se anche lo fosse, si sa che i numeri sono come il lampione per l’ubriaco, che non serve a illuminargli la via, ma solo a sorreggerlo. Eppure un fondo di verità potrebbe anche esserci; o, anche, qualcosa di più.

Si è avuto più volte modo di osservare come l’invecchiamento della nostra popolazione e i fattori di crisi dei sistemi di protezione sociale non debbano ricondursi (almeno, non solo) all’aumento della speranza di vita (già ben oltre gli 80 anni), quanto invece alla contestuale scarna “cantera” di bebé e giovani che andranno a sostituire i loro genitori nel mondo del lavoro. Quella “cantera”, che non c’è, è la stessa che dovrebbe garantire con i propri redditi da lavoro e relativi contributi e imposte il soddisfacimento dei diritti dei loro cari anziani e malati e di tutti i bisognosi di assistenza ai sensi degli articoli 3 e 38 della Carta Costituzionale. Diversamente si potrebbe finire per non dare a chi necessita quell’esistenza libera e dignitosa ben cara al legislatore costituente; ciò salvo immaginare una progressiva iniezione di nuove forze lavoro e di famiglie di origine straniera (come avanzato da qualche noto studioso della materia che ci occupa).

Detta facile: l’Italia descritta potrebbe essere così, non tanto perché viviamo di più rispetto al passato, ma perché non si fanno abbastanza figli. I dotti statistici ci insegnano che se il tasso di fecondità totale - TFT non arriva a 2 (anche, se sarebbe meglio, arrivare almeno a 2,1/2,2) non si riesce a garantire l’equilibrio demografico della popolazione. E così, o ci si estingue o – come detto – si chiama qualcuno da fuori a dare il cambio, o entrambe. 

L’argomento che si va a trattare è “centrale” per il nostro presente e futuro, oltre a essere di estrema delicatezza, per la natura stessa dell’argomento. I pensieri che seguono sono quindi, ben lungi, dal voler essere verità “rivelate” o dogmi (peraltro, irrispettosi del nostro modesto ruolo di osservatori), bensì solo una riflessione ad alta voce su dati e esperienza quotidiana della libera professione (vista dai due fronti di genere, maschile e femminile). Il tutto nella speranza che possa svilupparsi, ancor più intensamente, un confronto generalizzato sul tema e, per quel che qui interessa, nel settore delle “libere” professioni. Insomma, diversamente da altri interventi svolti, si prenda questo articolo come un mero tentativo di mantenere la luce “accesa” su una tematica (“la” tematica) che più ci occuperà negli anni a venire, assieme a quella della LTC.

Proviamo a dare qualche numero. L’Europa ha un tasso di fertilità del 1,59 (dato relativo all’anno 2017, Eurostat). L’Italia secondo le stesse rilevazioni fa 1,32, in linea con buona parte delle esperienze mitteleuropee e mediterranee; eccezion fatta per la Francia, che conta un più generoso 1,90. Se si guarda all’esperienza africana, invece, i dati 2018 della Central Intelligence Agency - CIA ci dicono che il Niger sta al primo posto al mondo con un ben più elevato 6,35 (dato da bilanciare anche, però, con quasi un 8% di morti in età infantile). Altro dato interessante estrapolato da Eurostat è quello relativo all’età media in cui si partorisce per la prima volta: nel 2017, in Europa, l’età media di parto del primo figlio per le donne è di 29,1 anni, con l’Italia come fanalino di coda (31,1 anni) e Bulgaria e Albania in testa alla classifica (26,1 anni).

Quindi? Male, malissimo? Colpa dei governi? Colpa dell’economia? Colpa del cibo? Oppure più semplicemente, come si crede, si tratta di un fenomeno in parte scisso e avulso da queste variabili? A ben vedere, il declino delle natalità in Italia ha conosciuto il proprio avvio negli anni Settanta del secolo scorso. Non certo un periodo di magra, di precarietà e di credit crunch. Qualche provocatore potrebbe persino arrivare a sostenere allora che là dove c’è meno lavoro, meno denaro e meno tutele, si fanno più figli (Africa, in primis). Ma anche questo è solo una tesi tratta da una frettolosa lettura dei dati. Il differenziale di natalità tra nazioni per reddito non è sempre coerente in termini inversi con l’indice di fertilità.

Se è certo che non si hanno più figli dove si è più ricchi, non è vero che più i Paesi sono poveri, più proporzionalmente aumenta l’indice di natalità. La natalità sembra invece legata alle tradizioni e alla cultura di una determinata nazione nel tempo (anche transeunte), nonché di emulazione di quanto accade nel proprio contesto sociale (basti sapere, ad esempio, che Israele ha un indice di fertilità del 2,63 mentre il Cile dell’1,79). E, anche noi ne siamo la riprova, se è vero, come è vero, che anche gli immigrati provenienti da nazioni feconde, arrivati in Italia dopo un poco di tempo riducono la propria fertilità (si veda a riguardo il Rapporto annuale Istat 2019). Lo stesso ragionamento, potrebbe valere, mutatis mutandis per quanto attiene alla natalità nelle singoli Regioni italiane dove a giocarsi la testa della classifica ci sono da tempo due Regioni tra loro molto diverse per reddito, struttura territoriale e abitudini: Trentino-Alto Adige e Campania (elaborazioni Urbistat su dati Istat). Qui, forse, si registra il primo esempio di quanto si andrà a tentare di dimostrare, e cioè che le politiche attive a favore della natalità tipiche di alcune esperienze, consentono di aumentare  l’effetto “natalità” pur in un contesto depresso o, comunque, dalla media più contenuta. 

Un altro dei freni addotti a fondamento della tesi della scarsa natalità, oltre alle difficoltà economiche, è la sfiducia di contesto e la scelta di non avere figli data l’impossibilità di garantirgli un’esistenza dignitosa o un lavoro futuro. Ma anche qui, nel lungo periodo e salvo immaginare scenari catastrofici, il ragionamento dovrebbe essere ben diverso da quanto ad esempio accaduto, nel brevissimo termine, con  (il mancato turnover di) Quota 100: se è vero che una gran parte dei baby boomers dovrà negli anni a venire abbandonare la propria occupazione, i pochi millenials dovrebbero - se non altro per una questione di "numeri" - comunque sostituirli agilmente, anche in caso di riduzione dei posti di lavoro per stagnazione o robotizzazione di alcuni mestieri. 

Attenzione: resta inteso che il fare figli non deve essere percepito come un onere o (persino) un obbligo. Ci mancherebbe. Nel 2019 la scelta di avere un figlio deve essere semplicemente il coronamento di un sogno di maternità. Da qui, l’interesse a comprendere come si possa meglio aiutare a coltivare questo sogno.

Tornando a noi e all’esempio svolto sulla natalità a “macchia di leopardo” sul territorio italiano, un ruolo importante di stimolo alla natalità (ruolo forse non decisivo, ma certamente rilevante, in termini empirici) è dato dagli strumenti di incentivo e sostegno alle madri e alle famiglie. E di tale utilità pare essersene accorta anche l’Unione Europea. Nel novembre 2018 è stata emanata la“Risoluzione del Parlamento europeo sui servizi di assistenza per una migliore parità di genere” che invita la Commissione a elaborare orientamenti per gli Stati membri volti a implementare i servizi di assistenza favorevoli all’occupazione. Nel testo del provvedimento si legge come il divario occupazionale di genere aumenti notevolmente alla nascita di un figlio, “il che riflette le difficoltà affrontate dalle donne nel conciliare la crescita dei figli e le responsabilità assistenziali con il proprio lavoro, e questo a causa dell’assenza di sufficienti infrastrutture pubbliche di assistenza e del persistere della divisione del lavoro basata sul genere” (Art. 1). Insomma, allo stato la scelta della maternità sembra spesso un’opzione alternativa alla carriera e, spesso, al solo lavoro.

Tutto quanto premesso, guardando alla categoria di cui siamo parte, abbiamo deciso di offrire un spaccato delle misure di tutela e incentivo alla natalità con specifico riguardo al mondo della libera professione.

In questo esercizio, siamo erroneamente partiti dalla convinzione (diffusa) che le libere professioniste siano drammaticamente le lavoratrici meno tutelate e che esista in fatto un enorme gap differenziale di assistenza tra dipendenti e autonomi/liberi professionisti. In parte questa concezione è corretta, ma non così tanto quanto si immagini. Lasciamo ovviamente al seguito le conclusioni (una volta analizzato nel dettaglio il corpus di rispettive provvidenze).

Partiamo dall’ovvio assunto che per storiografia e approccio giuslavoristico, il mondo del lavoro subordinato dovrebbe essere assistito (per definizione) da maggiori tutele rispetto a quello autonomo e libero professionale. Visione questa, a nostro avviso, vetusta e non al passo coi tempi. Proprio per l’evoluzione del mercato del lavoro e per l’ibridazione dei diversi istituti tipici delle due figure (dipendenti e autonomi). Per questo, mantenere ancora nette separazioni tra i due mondi rischia di far torto al mondo che conosciamo: precarizzato, globalizzato e 4.0. Il legislatore del "Jobs Act degli autonomi" (l. 81/2017) aveva colto il problema, dando ampia delega per gli interventi del caso, ma le riforme sembrano rimaste, in quasi totalità, lettera morta.

Per dare un esempio, sono migliaia le colleghe libere professioniste sulla carta che, alla fine, operano né più né meno che come dipendenti, ma rimangono discriminate in termini di tutele (forse non tanto per quelle che immaginiamo, tipo la maternità; quanto invece per l’assenza di un contratto collettivo nazionale, territoriale o aziendale di riferimento). Se nella teoria ripugna alla categoria dei “liberi” professionisti l’idea del ricorso alla contrattazione collettiva (essendo questi “liberi” e non eterodeterminati), questa impostazione non convince del tutto. Basti pensare alle migliaia di praticanti e avvocati di studio, che finiscono per essere esempi viventi di un mondo del lavoro tardo ottocentesco, senza orari, ferie, clienti propri e redditi adeguati. Ciò, si badi, non sempre per ingordigia dei titolari di studio, ma anche spesso per la crisi che attanaglia alcuni settori in declino di fatturato e in costante crescita di iscritti.

Il mondo dei professionisti conta 1.659.834 iscritti alla Casse di Previdenza e Assistenza, numero questo che costituisce circa il 7% dei lavoratori totali, e di cui le donne sono il 36% (con un rapporto che arriva al 1 a 1 per gli under 40 e con prossimo rapido sorpasso di genere negli anni a venire. Si veda il + 20% di nuove quote rosa solo nel 2017, dato AdEPP). Le Casse dei Professionisti, come noto, sono 20 (con 23 gestioni di riferimento). Onaosi, in realtà, ha solo funzioni di assistenza in favore degli orfani dei professionisti sanitari italiani: 20 diversi enti; 20 potenziali regole; 20 potenziali risposte al tema della maternità. Una potenziale giungla di prestazioni, di esclusioni e di limiti. Ma per quel che diremo, non è affatto così per quanto riguarda la materia della maternità, dove sussiste una generale coerenza di approccio.

Al riguardo abbiamo preso le prime 5 Casse in termini di iscritti. Queste 5 Casse contano 1,1 milioni (per la precisione 1.101.924) di professionisti sul totale di 1,6 degli stessi (anche qui, 1.659.834). Il 66%, come emerge dai dati estrapolati dal Sesto Report sugli investitori istituzionali italiani a cura del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali di prossima presentazione). Le Casse in questione sono quelle per i medici, gli avvocati, gli agenti di commercio, gli architetti e i farmacisti. Per cominciare, leggendo l’elenco delle provvidenze di questi enti, non si può non salutare con favore una sensibile attenzione delle Casse al fenomeno dell’assistenza alla maternità. Insomma, queste lavoratrici non rientranti per legge nel sistema INPS, sono assistite dalle categorie di riferimento. Certo, si può sempre migliorare, ma quel che si legge non è comunque male, almeno per quanto attiene all’indennità cosiddetta. di maternità. L’offerta tuttavia è meno interessante e migliorabile invece (pur con i vincoli di bilancio e regolamentari del caso) per quanto attiene al mondo delle provvidenze successive alla nascita e di accompagnamento alla crescita dei figli, per il sostegno a quelle professioniste che riprendano la loro attività. Ben vada per il sussidio dato per il congedo di maternità, ma poi i figli vanno comunque cresciuti e gli impegni non diminuiscono affatto col tempo, con la pubertà e poi con l’adolescenza. E, ancora una volta, l’Unione Europea pare aver colto nel segno: il considerando U) della Risoluzione citata in precedenza afferma la mancanza di infrastrutture sufficienti che offrano un’assistenza all’infanzia di qualità e accessibile a tutti i livelli di reddito e invita gli Stati membri a strutturare i servizi di assistenza  in modo tale “da offrire scelte autentiche a tutti gli utenti […] siano essi occupati a tempo pieno o parziale, lavoratori autonomi o disoccupati” (art. 20 Risoluzione).

Proviamo, come detto, ora, a offrire lo spaccato italiano annunciato in precedenza. Per cominciare, sarebbe sbagliato – per compiere l’esercizio – distinguere tout court tra ciò che dà INPS e ciò che offrono le singole Casse. È necessario, infatti, distinguere tra le prestazioni che INPS eroga a tutte le madri, siano esse lavoratrici o meno (e, quindi, anche alle libere professioniste) e quanto offerto solo alle lavoratrici iscritte all’Istituto.

Il riferimento alla prima ipotesi è, ad esempio:

  1. al bonus mamma domani, concesso al compimento del settimo mese e pari a 800 euro una tantumper ogni figlio concepito dall’entrata in vigore della legge (l’importo che non concorre alla formazione del reddito);
  2. al bonus bebè, per ISEE inferiori ai 25.000 euro. L’assegno che verrà versato per tre anni è di 960 euro annui e per ISEE sotto i 7.000 euro sale a 1.920 euro.

Venendo invece al secondo caso e tentando, adesso, di marcare le distinzioni tra provvidenze per lavoratori INPS e quelle per iscritti alle Casse dei Professionisti, iniziamo con l’elencare le principali prestazioni offerte dall’Istituto per le lavoratrici e i lavoratori dipendenti in occasione della natalità:

  1. Indennità per congedo paternità/maternità per lavoratrici dipendenti e iscritte alla Gestione Separata

La prestazione è valida per il periodo a cavallo della nascita, per un massimo di 5 mesi (estensibile per motivi legati alla salute della lavoratrice o alle mansioni svolte dalla stessa) ed è pari all’80% della retribuzione media globale giornaliera (calcolata sulla base dell’ultimo periodo di paga precedente all’inizio del congedo di maternità). L’astensione dal lavoro è obbligatoria. La Legge di Bilancio per il 2019 ha introdotto, in alternativa alle consuete modalità di fruizione prima citate, la facoltà per le madri di astenersi dal lavoro esclusivamente dopo l’evento del parto, entro i cinque mesi successivi allo stesso.

Il padre ha diritto al congedo di paternità solo al verificarsi di particolari condizioni quali: morte, grave infermità della madre o abbandono del figlio da parte della stessa.

  1. Indennità per congedo parentale per lavoratrici e lavoratori dipendenti 

Nei primi 12 anni di vita del bambino i genitori possono assentarsi per un periodo non superiore a 6 mesi, sempre che sommando eventuali periodi fruiti dall’altro genitore non sia superata la soglia degli 11 mesi. L’indennità per queste assenze è pari al 30% della retribuzione media giornaliera (a determinati requisiti). A differenza del congedo di paternità, il congedo parentale è un diritto autonomo del padre, fruibile indipendentemente dalla madre, salvo il limite temporale poc’anzi detto.

  1. Indennità per i riposi giornalieri

Entro un anno di vita del bambino. Per i genitori per l’allattamento. Due ore al giorno di riposo, se l’orario è superiore a 6 ore giornaliere; o un’ora, in caso di orario lavorativo inferiore alle 6 ore. Sono poi previste condizioni di favore a determinati requisiti.

  1. Congedo Papà

I padri lavoratori possono assentarsi per 5 giorni, entro il quinto mese di vita del bimbo e a stipendio pieno, durante il periodo di congedo obbligatorio per la madre.Viene poi previsto un congedo facoltativo, condizionato alla scelta della madre lavoratrice di non fruire di un giorno di congedo maternità. Il giorno dal padre anticipa quindi il termine finale del congedo di maternità della madre.

Le lavoratrici iscritte alla Gestione Separata INPS hanno diritto a un trattamento uguale a quello delle lavoratrici dipendenti per quanto riguarda l’indennità per il congedo di maternità, mentre godono di un ridotto congedo parentale (seppur più elevato rispetto a quello previsto per le lavoratrici autonome). Non è poi previsto il riposo giornaliero per l’allattamento.

Veniamo ora ad esaminare le prestazioni offerte dall’Istituto alle lavoratrici autonome. L’indennità di maternità non impone un’obbligatoria astensione dal lavoro. L’indennità è comunque corrisposta, a condizione che la lavoratrice sia in regola col pagamento dei contributi, e segue il medesimo metodo di calcolo adottato per le lavoratrici dipendenti. Il congedo parentale è invece sensibilmente ridotto sia in termini soggettivi che oggettivi: ha diritto a beneficiarne solo la madre e per un periodo massimo di 3 mesi entro il primo anno di vita del bambino. La lavoratrice iscritta alla Gestione Separata ha invece diritto a un periodo massimo di 6 mesi entro i primi tre anni del bebè (almeno così, da quanto si è potuto verificare dal portale INPS). Non sono poi riconosciuti riposi giornalieri per l’allattamento.

Di seguito, quindi, un raffronto con le prestazioni per le professioniste iscritte alle rispettive Casse di appartenenza. Il confronto, come detto, è effettuato con riguardo alle prime cinque Casse per numero di iscritti all’anno 2018. Per quattro delle cinque Casse (esclusa ENASARCO, per il suo ruolo istituzionale meramente integrativo di INPS e che, comunque, a determinati requisiti, offre un importo fisso di euro 2.500), viene offerta un'indennità di maternità corrisposta in unica soluzione e pari all’80% di 5/12 del reddito professionale percepito e denunciato a fini fiscali nel secondo anno precedente a quello dell’evento, con un minimo di circa 5.000 euro e un massimo (altrettanto, circa) di 25.000 euro. La regola è chiaramente diversa da quella valida per INPS, dove il parametro è la retribuzione media giornaliera dell’ultimo periodo di paga ante congedo. Effettuare, invece, il calcolo su un reddito più datato, tanto più in fase di gioventù e recente avvio della carriera professionale, potrebbe risultare particolarmente penalizzante rispetto a quanto avviene per i lavoratori iscritti ad INPS. È nota la crescita esponenziale del reddito per alcune professioni nei primissimi anni di lavoro, soprattutto all’esito del praticantato. Regole simili a quelle dell’INPS sono previste per l’indennità di paternità, che spetta al padre solo al ricorrere di alcune gravi condizioni inerenti alla madre (morte, grave invalidità, abbandono del minore).

Sulla carta, parrebbero invece meno – come anticipato – le misure di assistenza nella crescita dei propri bebé. È vero sì che in alcuni casi sono previsti sussidi per sostenere i costi di baby sitting o asili nido, ma per il resto non si registrano apparentemente interventi strutturali per conciliare vita familiare e lavoro. L’importanza delle provvidenze e degli ausili in fase di crescita del bambino rileva però al pari, se non di più, di quelli offerti all’indomani del parto. Qualche piccolo esempio ci aiuterà a comprendere a cosa ci si riferisce. Una volta che il bebé avrà superato i primi 5/6 mesi di vita (quelli, forse, meno problematici per la mamma a casa dal lavoro), arrivano le prime criticità: 

a) progressiva ripresa dell’attività lavorativa: se la mamma vuole riprendere a lavorare, il piccolo andrà inserito in un nido o affiancato a un baby-sitter. Ma come conciliare gli orari degli asili (nido e prima infanzia) con quelli della mamma libero professionista? E ancora, come riuscire a coprire il costo di una baby-sitter, dato per assodato che se l’assistente è in regola, la sua retribuzione mensile  (per circa 8 ore giornaliere) è pari, se non superiore, a quello che percepisce – ad esempio, nella nostra categoria - una giovane donna avvocato? Il reddito medio a fini IRPEF di un avvocato di sesso femminile, compreso nella fascia di età 30-34 anni, è di 12.749 euro (si veda a riguardo Bilancio consuntivo 2018 Cassa Forense).

b) il periodo estivo. Come comportarsi nel periodo che va da giugno (fine delle scuole e degli asili) a settembre (data dell’inizio del nuovo anno scolastico)? In assenza di nonni “tutto-fare”, la libera professionista può scegliere se rinunciare al proprio lavoro e, conseguentemente, al proprio guadagno e alla propria crescita personale (3 mesi di stacco lavorativo sono tanti) o, in alternativa inserire il figlio in un campus estivo. Quest’ultima opzione – al di là del solito problema dell’orario  –  ha anche un costo non indifferente, soprattutto nelle grandi città. 

Qualche segnale positivo, e solo limitatamente contenibile per alcune professioni, è il ricorso allo smart working. Ma come noto, alcune categorie di professionisti devono, per forza di cose, vivere e presenziare sul luogo di lavoro (il pensiero va ai medici, ai farmacisti, agli infermieri, ai veterinari, ai lavoratori dell’agricoltura, agli spedizionieri, …).

Insomma, è chiaro che le risorse e i contributi specifici sono troppo limitanti per fare di più e molte categorie sono ancora in difficoltà in termini di reddito (tanto più le giovani generazioni di queste), con conseguenti complessità nel richiedere alle stesse un maggiore sforzo contributivo. Tuttavia, è anche vero che i rendimenti degli attivi investiti dall’insieme delle Casse (pari a 82,9 miliardi di euro nel 2018) – in una fase delicata come questa, pur nei limiti di legge, di gestione e di bilancio tecnico da presentare al Ministero – dovrebbero necessariamente essere anche deputati ad aiutare per dare risposta a domande quali quelle che ci occupano. Sebbene apparentemente eccentrico come tema di attenzione, si badi come al riguardo sia necessario ragionare su riforme strutturali anche dal punto di vista pensionistico  per garantire un accesso anticipato o, comunque, fortemente agevolato alla pensione per le lavoratrici che abbiano affrontato una o più gravidanze nel corso della vita lavorativa (magari, secondo il semplice e suggestivo esempio "un anno in meno di lavoro ai fini pensionistici per ogni figlio nato e cresciuto"). Gli esempi che si iniziano a registrare (ad esempio, l’estensione delle tutele di maternità ENPAM per le studentesse di medicina che si iscrivano negli ultimi anni di Università alla Cassa), ci lasciano ben comunque pensare, ma la strada – si ripete – è ancora molto lunga e la diapositiva dell’Italia 2050 rimane sullo sfondo.

Tornando su di un piano più generale, poi, uno spiraglio di luce sembra trasparire anche dall’Unione europea che con la Risoluzione del 2018 invita gli Stati membri a garantire una buona copertura dei servizi di assistenza, combinando costi e flessibilità al fine di ridurre il divario occupazionale e favorire l’equilibrio tra attività professionale e vita familiare. Infine, presso la Commissione europea è stata depositata una proposta di direttiva del Parlamento europeo relativa “all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza” con il duplice obiettivo di migliorare l’accesso ai meccanismi per conciliare attività professionale e vita familiare ed aumentare il numero di uomini che si avvalgono di congedi per motivi familiari e di modalità di lavoro flessibili

In conclusione, si può affermare che l’insieme delle risposte non risieda in facili ricette, bensì – come sempre – nella combinazione di più ingredienti: da un lato, l’offerta da parte dello Stato o di enti privati convenzionati di servizi di assistenza alla prima infanzia accessibili a tutti, che garantiscano flessibilità di orari; dall’altro, l’aumento della produttività e lo sviluppo generale e delle singole categorie di professionisti favorirebbe l’incremento dei redditi da lavoro, di modo da disporre di maggiori risorse da utilizzare per queste finalità (e, per quelle speculari, e altrettanto primarie, del sostegno familiare ai cari non autosufficienti, in un mondo che invecchia in un contesto di welfare state in conseguente difficoltà). 

Come sempre, si torna alla base: se non migliorano i fondamentali e non si cambia passo, nulla può andare meglio. In un contesto di stagnazione, niente è destinato a crescere e persino a preservarsi per lungo tempo.

Alessandro Bugli, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali e Area Assicurativa e Welfare Studio Legale Taurini&Hazan

Francesca Chiara Colombo, Area Assicurativa e Welfare Studio Legale Taurini&Hazan

28/8/2019

 
 

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