PNRR al via: da dove si parte?

Un intero capitolo dell'ultimo Rapporto annuale Istat è dedicato a tracciare il quadro generale del Paese in relazione a due temi chiave per il PNRR, vale a dire investimenti e ambiente: un'analisi che consente di apprezzare lo stato dell'arte su cui l'ambizioso progetto di spesa mira a impattare con decisione

Giovanni Gazzoli

A fine aprile il governo ha trasmesso alla Commissione Europea il testo del PNRR, mettendo al centro investimenti e ambiente, ossia la ripresa del processo di accumulazione del capitale materiale e immateriale e il rafforzamento del percorso verso la transizione energetica ed ecologica. Questi, infatti, sono stati identificati come due fattori chiave da rilanciare per dare un impulso allo sviluppo del Paese.

Impulso che - è sotto gli occhi di tutti - è necessario per le condizioni di difficoltà che da molti anni caratterizzano il nostro sistema, e che l’Istat nel suo Rapporto Annuale ha provato ad analizzare. Il punto di partenza è la stagnazione della produttività del lavoro, che da tempo affligge l’evoluzione dell’economia nazionale e viene ricondotta a quattro fattori principali: la debolezza del ciclo di accumulazione del capitale privato, la contrazione degli investimenti pubblici, il ritardo nell’accumulazione di conoscenza e una dotazione disomogenea del capitale infrastrutturale tra le aree del Paese.

La ricetta proposta per la ripresa passa dunque da tre direttrici: produttività, investimenti e ricerca. La prima, si diceva, paga una stagnazione ormai cronica. Effettivamente, nel 2019, il volume del valore aggiunto per ora lavorata in Italia era superiore solo dell’1,5% al dato del 2010: dato che tuttavia era già molto simile a quello del 2000. Insomma, negli ultimi vent’anni in Italia il valore aggiunto per ora lavorata è rimasto stabile, mentre nell’Eurozona è aumentato di quasi il 10% nello stesso periodo. Il valore italiano paga soprattutto il calo di alcuni settori specifici: quello dei servizi professionali e tecnici, diminuito del 9%, dei servizi pubblici (-7,2%), e dei servizi personali (-2,2%). Al contrario, il settore manifatturiero ha fatto da contraltare, performando in modo simile a Germania, Francia e Spagna. Alla base di questa stagnazione ce n’è un’altra ancor più profonda, quella cioè della produttività totale dei fattori, in crescita solo dello 0,4% dal 2000 al 2019, contro il 2,4% della Spagna, il 3,3% della Francia e il 6,6% della Germania.

Certamente questa “scarsa dinamicità” è riconducibile alla mancanza di investimenti: la quota di investimenti sul PIL si ferma infatti al 18%, contro il 22% della zona euro. Investimenti che dal 2007 si sono ridotti di un quinto (19,1%), meglio solo della Spagna considerando le maggiori economie europee. Un dato che peggiora ulteriormente se regionalizzato: gli investimenti sul PIL del Mezzogiorno, infatti, sono al 16,2%, sei punti percentuali in meno del 2007 (il doppio delle altre macroregioni). Guardando invece i settori, si evidenzia il drastico calo degli investimenti nella Pubblica Amministrazione (-34,6% tra 2009 e 2014). Ci sono però anche elementi positivi da considerare: nei 12 anni intercorsi tra il 2007 e il 2019, le imprese in Italia hanno speso in ricerca e sviluppo una cifra simile a quella della Germania (4,6% contro 4,8%), soprattutto – sottolinea l’Istituto – grazie alle misure di sostegno introdotte dopo il 2013. In questo ambito, un’altra buona notizia è che tale propensione all’investimento in R&S non è appannaggio esclusivo delle grandi aziende (oltre 500 dipendenti), ma ha visto una crescita delle piccole e medie imprese. Sul totale di questi investimenti, la loro quota è cresciuta dal 7,7% del 2007 al 13,4% del 2019 per quanto riguarda le piccole, e dall’11,9% al 20,8% relativamente alle medie.

Ebbene, come il PNRR potrebbe incidere su questa situazione? La stima dell’impatto quantifica gli effetti in un innalzamento del livello del PIL – rispetto allo scenario base - compreso tra il 2,3% e il 2,8% nel 2026, con impatto che aumenta al crescere dell’intensità della componente immateriale della spesa (R&S, software, altri prodotti della proprietà intellettuale). L’altra grande componente, si diceva, è quella ambientale. Da questo punto di vista, l’Italia è tra i leader della riduzione delle emissioni di gas serra: -25,5% tra 2008 e 2019, contro il 17,5% della media UE; nel 2020 si stima un -9,6% sul 2019, anche per la riduzione delle attività economiche e produttive in seguito al lockdown. Una diminuzione sostenuta, frutto del -13,7% delle emissioni generate dalle attività delle famiglie (condizionatori, riscaldamento, mobilità…), superiore di 2,7 punti percentuali alla media europea, e del -28,9% delle emissioni generate nella produzione di beni e servizi (-19% il dato comunitario).

Come detto, un ruolo importante in questo calo lo hanno avuto le famiglie. Dei 13,7 punti, 8,8 sono dovuti al cambiamento di abitudini in termini di mobilità privata, mentre 4,8 sono riconducibili alla climatizzazione domestica, dove tuttavia permane un grande spazio di miglioramento guardando all’esperienza dei Paesi europei. Per quanto riguarda invece le attività produttive, l’utilizzo di tecnologie meno inquinanti e a minor intensità energetica è alla base della forte riduzione di emissioni. L’altro lato della medaglia - bisogna dirlo - è che 2,8 punti di questa componente sono conseguenza della contrazione del valore aggiunto, la cui crescita negli altri Paesi dell’Unione ha portato un aumento di emissioni di 9,3 punti percentuali. Che impatto potrà avere l’investimento in attività di protezione dell’ambiente? Ebbene, la crescita stimata del valore aggiunto in queste attività è del 4,4% per il trattamento delle acque reflue e del 3,4% per la gestione dei rifiuti, mentre l’insieme delle attività economiche resta ancorato all’1%.

Gli investimenti del PNRR dovranno essere orientati alle città, che dal punto di vista ambientale hanno ampi margini di miglioramento, con particolare riferimento alle grandi città e soprattutto ai temi dell'inquinamento atmosferico e dei trasporti. Ecco perché, conclude Istat, “il potenziamento dei servizi di trasporto pubblico locale (Tpl) è la principale leva per la transizione verso un sistema di mobilità urbana sostenibile”. In particolare, si caldeggia il ricorso alla rete di Tpl su ferro (tram). Altre criticità nelle realtà locali sono identificate nelle reti di piste ciclabili, ancora marcatamente differenti a seconda dei territori, nelle aree verdi, poco disponibili nelle realtà urbane soprattutto al Sud, e nelle difficoltà delle grandi città nello smaltimento dei rifiuti in discarica, anche qui con significative differenze territoriali in termini di efficienza e capacità.

Giovanni Gazzoli, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 

28/7/2021

 
 
 

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