Un'opportunità chiamata istruzione: povertà, scuola e mercato del lavoro

Fornire un'istruzione di qualità, equa e inclusiva e promuovere opportunità di apprendimento costanti e per tutti resta la "ricetta" forse più scontata, ma anche adeguata, contro la povertà. Innanzitutto educativa e, di riflesso, anche sociale ed economica: un circolo virtuoso che, per l'Italia, non può dirsi ancora pienamente realizzato

Mara Guarino

Così come la discussa povertà economica, anche la povertà educativa è un fenomeno stratificato e complesso che coinvolge molteplici dimensioni, cause scatenanti e conseguenze: benché non sia certo l’unico attore coinvolto nella crescita personale, culturale e professionale di giovani e giovanissimi, è indubbio tuttavia che la scuola resti in questo contesto un riferimento essenziale e imprescindibile. E non a caso proprio alla scuola – intesa in senso ampio come luogo e strumento di apprendimento ed educazione – fa primario riferimento l’Agenda 2030 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nell’indicare come quarto tra i 17 goals finalizzati all’eliminazione della povertà, alla protezione del pianeta e al raggiungimento di una prosperità diffusa quello di “fornire un’educazione di qualità, equa e inclusiva e promuovere opportunità di apprendimento per tutti”.

Ma a che punto si trova l’Italia nel difficile cammino che porta al conseguimento dell’ambizioso obiettivo? A rispondere alla domanda è l’ultimo Rapporto SDGs, che si concentra sul percorso formativo italiano dall’accesso fino all’istruzione secondaria e terziaria, monitorando conoscenze e competenze acquisite. Nella pubblicazione, l’Istat traccia un quadro in chiaroscuro, evidenziando come gli ultimi dieci anni abbiano portato a un diffuso avanzamento sul fronte dell’istruzione inclusiva, ma non senza elementi di criticità: nonostante i progressi, l’Italia è infatti ancora agli ultimi posti in Europa per numero di laureati, tasso di abbandono e competenze e, anche quando gli indicatori sono positivi, spesso permangono importanti disomogeneità, territoriali o di genere.

 

Livelli di alfabetizzazione e dispersione scolastica 

Analizziamo quindi i dati nel dettaglio, a partire proprio da uno dei traguardi fissati dall’Agenda 2030, vale a dire lo sviluppo di sistemi educativi in grado di fornire capacità di calcolo e alfabetizzazione adeguate, riducendo le disuguaglianze. A questo proposito, il Rapporto utilizza come fonte il Sistema Statistico INVALSI, rilevando che in Italia la quota di ragazzi iscritti al terzo anno delle scuole secondarie di primo grado – i ragazzi all’ultimo anno delle scuole medie – che non raggiungono la sufficienza nelle competenze alfabetiche è pari al 34,4%, mentre il 40,1% tradisce competenze matematiche insufficienti. Pur volendo fare la tara a queste statistiche (qui, i dati 2019 recentemente presentati da INVALSI) e anche alla metodica di rilevazione, spesso oggetto di critiche, numeri comunque rilevanti e non immuni a differenze territoriali, spesso a propria volta determinate da altri fattori che acuiscono le disparità nell’accesso alle opportunità educative.

Percentuali di studenti di terza classe che non raggiungono competenze alfabetiche e numeriche sufficienti

Campania (50,2% di low performer in lettura), Calabria (50%) e Sicilia (47,5%) sono le regioni dove i livelli di studenti con scarse competenze alfabetiche sono più alti e non va molto diversamente per le competenze numeriche, per le quali queste stesse regioni mantengono i livelli più elevati di insufficienza. Come in parte prevedibile, spiccata anche la differenza tra le competenze dei nativi italiani e quelle degli stranieri, in particolare quando di prima generazione: il 67,7% dei ragazzi che non sono nati nel nostro Paese non raggiungono la sufficienza alfabetica e il 61,3% quella numerica; l’analoga quota di studenti italiani è invece pari, rispettivamente, al 31,9% e al 38,6%.

A livello territoriale, il gap tra Nord e Sud pare poi confermato anche dalle rilevazioni su dispersione e abbandono scolastico. Tanto per cominciare,  va precisato che, malgrado dati in calo negli ultimi anni, l’Italia registrava nel 2017 l’incidenza di NEET più elevata tra i Paesi dell’UE, con un valore (24,1%) superiore alla media europea di oltre 10 punti percentuali. Non solo, mentre in Europa il trend è in miglioramento, nel 2018 il tasso di abbandono precoce[1] è risalito ai livelli del 2015 toccando quota 14,5%, con differenze territoriali per l’appunto non trascurabili: è rimasto infatti stabile al Sud, dove il numero di 18-24enni non inseriti in alcun percorso di formazione è comunque già piuttosto elevato (17,3%), mentre risulta in aumento nel Nord-Ovest (13,3%) e nelle Isole (22,3%). A livello regionale, la Provincia Autonoma di Trento, l’Umbria, l’Abruzzo e il Friuli-Venezia Giulia spiccano con valori al di sotto del 10%, quota fissata come obiettivo da Europa 2020, mentre Calabria, Sicilia e Sardegna superano invece il 20% (rispettivamente 20,3%, 22,1% e 23%).

Uscita precoce dal sistema di istruzione e formazione

Significativa, per quanto in progressiva diminuzione, anche la differenza di genere, con le ragazze più coinvolte nel sistema di istruzione rispetto ai ragazzi: con riferimento al 2018, hanno abbandonato la scuola, senza più rientrare in alcun percorso formativo, il 16,5% dei maschi di 18-24 anni contro il 12,3% delle femmine; ancora più marcato il divario in base alla provenienza: la quota di abbandono dei nativi si aggira intorno al 12,3%, mentre tra gli stranieri sfiora il 37,6% (percentuale in aumento nell’ultimo biennio). Il tutto lasciando prefigurare un possibile circolo vizioso in cui la povertà educativa va a sommarsi a un tessuto socio-economico già carente o complesso, alimentandosi vicendevolmente.

 

Livello di istruzione e opportunità nel mondo del lavoro

Un tema, quest’ultimo, che va di pari passo con quello delle opportunità, anche in campo professionale. A un minore livello di competenze (linguistiche, matematiche e di alfabetizzazione funzionale, da un lato, e specialistiche, dall’altro) tendono infatti a corrispondere maggiori difficoltà anche nell’inserimento nel mercato del lavoro. Muovendo quindi proprio dal presupposto secondo il quale “le persone con più alto livello di competenze hanno più probabilità di trovare lavoro”, il Rapporto analizza anche le opportunità di apprendimento della popolazione più adulta, sia in termini di formazione continua sia di accesso all’istruzione terziaria. Ancora una volta, e in entrambi i casi, il quadro si presenta tuttavia ambivalente e frazionato, soprattutto a livello territoriale.

Nel 2018, ha svolto attività di istruzione e formazione nelle 4 settimane antecedenti l’attività di indagine sul tema l’8% degli intervistati tra i 25 e i 64 anni: tra i più coinvolti i giovani tra i 25 e i 34 anni (15,3%), le donne (8,6%), i residenti delle grandi città (10,1%) e del Nord-Est (10,5%). Per quanto riguarda l’istruzione terziaria, occorre invece partire da un altro valore percentuale, quello del 27,9%, corrispondente alla quota di persone comprese tra i 30 e i 34 anni in possesso di un titolo terziario: benché l’obiettivo nazionale previsto da Europa 2020 sia pienamente centrato, l’Italia resta ampiamente al di sotto della media UE e appena al di sopra della sola Romania.

Percentuale di persone che hanno conseguito un titolo terziario

Importante la differenza di genere, in questo caso in favore delle donne (34% contro 21,7%), e altrettanto forte, di nuovo, il divario territoriale, peraltro in aumento: negli ultimi 10 anni, la crescita dei laureati al Nord è stata infatti significativamente maggiore rispetto alle regioni meridionali. Se, ad esempio, in Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli-Venezia Giulia e Emilia-Romagna, così come nel Lazio, la percentuale di giovani tra i 30 e 34 anni con un titolo terziario supera in linea di massima il 30%, in Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Calabria, Sicilia, e Sardegna non raggiunge, invece, neppure il 25%. Con un ulteriore elemento di criticità, ben rilevato da Prometeia, secondo i cui dati proprio le regioni con il minor numero di laureati sono spesso quelle in cui i giovani sono più “mobili” e pronti a spostarsi verso aree più attrattive, in Italia o all’estero.

L’argomento, certo ampio e complesso, richiederebbe riflessioni anche sulle opportunità professionali legate ai diversi titoli di studio, su strumenti e strategie per favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro (l’ISTAT ha ad esempio stimato come pari all’1,1% il tasso di posti vacanti destagionalizzato per il primo trimestre 2019), sull’effettiva capacità del sistema produttivo italiano di reagire alla crisi e agli stimoli indotti dalla digitalizzazione e, quindi, sul contrastante fenomeno della sovraistruzione. Pur senza tuttavia entrare in questa sede nel merito delle cause della sofferenza del mercato del lavoro italiano, che, se da un lato, risente indubbiamente di un’economia stagnante, dall’altro lamenta la mancanza di figure adeguate tanto nell’industria quanto nei servizi, le statistiche evidenziano senza dubbi come il “capitale umano” continui a rivestire un ruolo cruciale nel determinare la partecipazione al mercato del lavoro: a un buon livello di istruzione tendono infatti a corrispondere tassi di occupazione più elevati e, viceversa, tassi più bassi di disoccupazione e di mancata partecipazione.  Tanto più che, come evidenziato sempre dall’ISTAT nel suo ultimo Rapporto annuale sulla situazione del Paese, a un livello di istruzione più elevato si lega anche un maggiore investimento dell’individuo per (continuare ad) accrescere il proprio bagaglio formativo.

Tasso di posti vacanti

 

Contrastare la povertà educativa

Mancanza di competenze e conoscenze non possono allora che accrescere le disuguaglianze, impedendo a livello individuale la realizzazione personale e innescando a livello comunitario problemi di integrazione e inclusione che, a propria volta, possono generare costi socio-economici non trascurabili. Ed ecco perché contrastare la povertà è e resta anche un fatto innanzitutto culturale. Di qui, l’importanza di un grande sforzo finanziario (negli ultimi anni l’Italia ha speso per gli interessi sul debito più di quanto non abbia fatto per l’istruzione) e progettuale da parte dello Stato che, fin dalle scuole primarie, dovrebbe essere chiamato a fornire ai cittadini tutti gli strumenti necessari a raggiungere il benessere socio-economico, avviando un processo di emancipazione sociale che permetta, generazione dopo generazione, di allontanarsi anche dalle situazioni più difficili.

Un’opportunità che, dati alla mano, l’Italia sembra faticare a offrire con omogeneità e continuità, ma che deve quanto prima essere rilanciata come una delle priorità del Paese.  

Mara Guarino, Itinerari Previdenziali 

17/7/2019


[1] Percentuale di persone di 18-24 anni con al più il diploma di scuola secondaria di primo grado (licenza media), che non sono in possesso di qualifiche professionali regionali ottenute in corsi con durata di almeno 2 anni e non sono inserite in un percorso di istruzione o formazione sul totale delle persone di 18-24 anni.

 
 
 

Ti potrebbe interessare anche