Adattarsi al nuovo regime di volatilità

Il "vecchio" regime all'insegna della bassa volatilità sta per volgere al termine: cosa devono attendersi gli investitori che hanno scelto di affidarsi alle asset class più rischiose

Leo Campagna

Se si ripercorrono velocemente gli ultimi cinque anni dei mercati finanziari, emergono alcuni denominatori comuni. Tra questi, l’aspetto che più spicca è la ridotta volatilità (ovvero l’ampiezza media delle oscillazioni delle quotazioni) anche delle asset class più rischiose: azioni, obbligazioni societarie e mercati emergenti.

A fotografare in modo plastico questo fenomeno è il VIX, l’indice che misura la volatilità prospettica della Borsa americana in base alle opzioni sull’indice S&P500. Ebbene, la media storica del VIX dal 1992 a oggi si attesta intorno a quota 20, mentre negli ultimi 5 anni è scivolata a quota 14. Tra le principali ragioni di questo regime di bassa volatilità figurano le azioni delle Banche Centrali che, per contrastare gli effetti devastanti della grande crisi 2008-2009, hanno adottato politiche monetarie ultraespansive. L’adozione da parte loro del quantitative easing ha portato un'ingente liquidità sui mercati che ha sbilanciato domanda e offerta (a favore della prima) determinando una significativa caduta dei rendimenti del mercato obbligazionario fino ad arrivare ai tassi negativi, mai sperimentati in passato.

Una tendenza che, a propria volta, ha invogliato i risparmiatori a dare la caccia al rendimento nelle asset class più rischiose portando alle quotazioni record i mercati azionari, quelli delle obbligazioni societarie (sia investment grade che, soprattutto, high yield) e quelle dei mercati emergenti. Il fatto che la domanda fosse irrobustita dalle Banche Centrali (per quanto riguarda i titoli di Stato dei Paesi ‘core’ e per i corporate bond di alta qualità) e dalla liquidità disponibile a tutti gli altri investitori (per le altre asset class) a discapito dell’offerta, ha ulteriormente depresso la volatilità. Dal 2013 in poi il VIX ha registrato picchi al di sopra dei 20 punti in rari episodi. 

Il 2017 è stato poi l’anno in cui il regime di bassa volatilità ha raggiunto l’apice: in tutto l’anno solare l’indice S&P500 non ha mai registrato un calo del 5% o superiore rispetto al suo massimo. Ma dall’inizio di quest’anno qualcosa ha cominciato a cambiare. Tra la fine gennaio e febbraio, il VIX si è spinto oltre quota 37 punti con l’indice S&P500 che ha lasciato sul parterre oltre il 10 per cento. A ottobre c’è stata la replica, con un mese andato in archivio con perdite mensili per i mercati azionari tra le più pronunciate degli ultimi 7 anni e con un VIX quasi costantemente oltre quota 20 punti.

Mentre ci si interroga se si tratti di una correzione fisiologica oppure dell’inizio di una fase prolungata di ribassi, gli investitori farebbero bene a considerare definitivamente finito il ‘vecchio’ regime: stiamo entrando in modo progressivo nel nuovo regime di volatilità più elevata. Le Banche Centrali stanno passando da politiche monetarie ultraespansive a moderatamente restrittive (come nel caso della Federal Reserve) o, quantomeno, meno accomodanti (Bce e Bank of Japan) e questo comporta un drenaggio di liquidità sul mercato. In parallelo, il rialzo dei tassi e dell’inflazione fa pressione sulle valutazioni delle asset class più rischiose. Tradotto in pratica, significa che è necessario verificare di essere davvero disposti ad accettare nel breve periodo oscillazioni dei valori degli investimenti in portafoglio più elevate al fine di conseguire rendimenti più robusti nel lungo termine. Perdite medie di circa l’8% per un portafoglio azionario, o del 3,5% per uno bilanciato, come accaduto nel mese di ottobre, diventeranno molto più frequenti nei prossimi mesi: credere che si tratti di eccezioni rischia di spingere gli investitori a future scelte emotive che potrebbero compromettere in modo irrimediabile i risultati attesi.

Leo Campagna 

23/11/2018

 
 
 

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