Alla ricerca della stabilità perduta

Le politiche d’investimento attuate dagli investitori istituzionali si trovano oggi strette in una morsa contraddittoria: devono garantire una solidità di lungo periodo, ma attraversano e subiscono dinamiche che cambiano in modo repentino, fornendo instabilità. L’origine di questa fluidità è però a monte, nelle crisi geopolitiche che influenzano l’andamento dei mercati...

Giovanni Gazzoli

È ormai abbastanza assodato che – al giorno d’oggi – sia difficile coniugare l’analisi macroeconomica e geopolitica con un respiro di lungo periodo. Ciò è dovuto a molti fattori, che variano da scenario a scenario, ma che generano un unico risultato: una costante e diffusa instabilità.

Instabilità che si può coniugare in diversi ambiti: tra questi, spicca quello dei mercati finanziari, che rispecchiando il sentore generale degli investitori, sempre più offrono il polso dell’economia mondiale. Tuttavia, ciò che ne caratterizza in modo sempre più marcato l’azione è la repentina risposta agli eventi che li circondano, a volte anche esagerandone la portata.

Dunque, la combinazione di scenari in mutamento e di mercati “schizofrenici” nell’esserne influenzati, genera un contesto assai arduo per coloro che devono pianificare investimenti a lungo periodo: chi, tra questi, sono più chiamati in causa degli investitori istituzionali, che per natura hanno come stella polare delle proprie politiche d’investimento la solidità?

La grande sfida per questi attori, in sostanza, è quella di identificare gli investimenti meno rischiosi e instabili, e per fare ciò è certamente cruciale conoscere quali sono i principali driver geopolitici che determinano l’andamento dei mercati finanziari. Se pare eccessivo, infatti, chiamare in causa il “conosci il tuo nemico” di Sun Tzu, è altrettanto vero che avere contezza delle crisi che ci circondano è uno strumento decisivo per orientarsi in mari tanto tempestosi.

Il punto di partenza è senza dubbio la Presidenza di Donald Trump, che ha dato una svolta netta alla politica economica ed internazionale degli Stati Uniti. Le sue misure hanno generato un lungo periodo positivo per l’economia statunitense, arrivando a toccare il tasso minimo di disoccupazione dal 1969; tuttavia, l’obiettivo di riequilibrare la bilancia commerciale con l’estero, che è in negativo per ben 687 miliardi di dollari (dati 2017), ha innescato una lunga guerra commerciale con la Cina, che da una parte ha contribuito a rallentare la crescita dell’economia globale, e dall’altro rischia di influenzare negativamente la stessa crescita americana, come recentemente ribadito da Goldman Sachs. Inoltre, il “Make America Great Again” sta influenzando anche il processo della Brexit: è evidente come l’avvento di Boris Johnson si sposi perfettamente con l’ambizione di Trump di giocare un ruolo attivo nella definizione (o meno) del deal UK-EU, in vista di una restaurazione della special relationship che ha sempre caratterizzato il mondo anglosassone.

Proprio la guerra commerciale con la Cina generata dalla politica economica americana è la seconda grande crisi internazionale. In particolare, tale tensione influenza decisamente i mercati europei soprattutto per i gravi effetti che sta generando sull’economia tedesca: questa, storicamente molto legata al manufatturiero e – di conseguenza – all’export, in particolare del settore dell’automobile, nel 2019 sta pericolosamente oscillando sul crinale della recessione. Le vendite sono diminuite dell’1,3% - ossia il minimo negli ultimi 6 anni. Peraltro, lo stesso Trump ha minacciato severi dazi sulle stesse merci europee, misura che indebolirebbe ulteriormente la crescita di Bruxelles e dintorni. A ciò, ovviamente, è legata anche la politica monetaria della BCE, che si appresta a salutare Mario Draghi, la cui azione espansiva è stata decisiva per sostenere l’economia europea durante la crisi, e ad accogliere l’ex Presidente del FMI Christine Lagarde, che sembra essere in continuità con l’ex Presidente della Banca d’Italia.

La Cina, comunque, non influenza i mercati internazionali solo indirettamente tramite la guerra commerciale con gli Stati Uniti: le sue ambizioni globali, ormai acclarate dal progetto One Belt One Road, sono accompagnate da una forte crescita dell’urbanizzazione e – di conseguenza – da maggiori necessità energetiche. Per questo lo sviluppo cinese influenza soprattutto i prezzi delle materie prime (si pensi all’oro bianco, ossia il litio, metallo cruciale per il settore tecnologico), rendendoli estremamente volatili. Inoltre, l’enorme ampliamento della classe media genera un aumento dei consumi in molti ambiti.

Il grande sviluppo economico ed energetico della Cina, nonché di molti altri paesi emergenti, richiama en passantun altro fattore cruciale per gli investitori, ossia quello ambientale. È aumentata esponenzialmente negli anni l’attenzione ai criteri ESG, aventi l’obiettivo di definire i comportamenti di diversi soggetti (principalmente aziende) anche in relazione al rispetto dell’ambiente. Dopo la grande spinta generata dall’accordo di Parigi, c’è stato un rallentamento dato dal ritiro degli USA, ma a livello mediatico la sensibilità aumenta costantemente. Come emerge dall’indagine effettuata dal Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali in merito alle politiche d’investimento sostenibili, tale risalto nell’opinione pubblica sembra avere un seguito anche nell’azione “pratica”, se è vero che l’80% degli investitori istituzionali intende intraprenderle o aumentarle.

Ultime, ma non per importanza, una serie di crisi “regionali” che – ciascuna a suo modo – influenzano fortemente l’andamento dei mercati: si pensi alla questione nucleare iraniana, che blocca una delle economie più grosse di tutta l’Asia (e con cui l’Europa, l’Italia in particolare, ha sempre avuto stretti rapporti commerciali), alla crisi del Golfo Persico, che genera oscillazioni sul prezzo del barile di petrolio, uno dei beni che stanno in cima alla “piramide dei mercati”, passando per il Venezuela (anch’esso cruciale nel mercato del petrolio), l’Artico (lo scioglimento dei ghiacci apre nuove rotte commerciali e nuovi accessi a vaste risorse di materie prime) o la Russia (le sanzioni mettono in difficoltà una delle principali economie mondiali).

Insomma, gli antichi romani direbbero mala tempora currunt, e la verità di tale osservazione è evidente. La speranza per gli investitori istituzionali è che non si riveli altrettanto fondato il seguito del famoso detto popolare, ossia sed peiora parantur. Le premesse, tuttavia, non sono esattamente rassicuranti, perciò la delicatezza delle scelte d’investimento si manifesta ancor più nella sua chiarezza: trovare “soluzione solide” per soddisfare “promesse liquide” è oggi più importante che mai.

Giovanni Gazzoli, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 

12/9/2019

 
 

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