(Im)Missione liquidità: e se il bazooka BCE sparasse a salve?

Il presidente uscente della Banca Centrale Europea torna a servirsi della fornitissima cassetta degli attrezzi per incrementare gli effetti della politica monetaria espansiva, risvegliando un sopito QE, e non solo. Ma è davvero questa l’unica strada per sostenere economia e inflazione?

Niccolò De Rossi

Prende il via una nuova stagione politica, anzi due. Il nuovo governo italiano in carica si insedia quasi contestualmente con l’altro grande cambiamento del 2019. Dopo 8 anni arriva la scadenza del mandato di Mario Draghi alla presidenza della Banca Centrale Europea, il quale passerà all’ex numero uno del FMI, Christine Lagarde, il timone di una nave che solca acque agitate. Non prima però di aver lasciato nuovamente il segno e di aver fatto il suo regalo di addio. Draghi infatti ridesta dal sonno, per la verità non troppo profondo, un Quantitative Easing che aveva visto cessata la sua missione soltanto qualche mese fa, con l’aggiunta di un ampio pacchetto di stimoli monetari per tentare di dare una nuova spinta all’economia europea in rallentamento. Ma facciamo un passo indietro.

Il quadro di un’Europa che cresce a diverse velocità non è una scoperta di oggi, ma una condizione che dura da decenni. Nel periodo del boom economico generalizzato però, né i policy maker dei singoli Paesi né i mercati (che correvano a più non posso) sembravano farci caso. Ebbene, quando invece le condizioni economiche mutano e da una crescita sostenuta si passa a un rallentamento prima, e una possibile recessione poi, le differenze interne a ciascun Paese si fanno evidenti e maggiormente incisive per l’Unione tutta.

Se a ciò aggiungiamo le conseguenze dell’ultima crisi finanziaria, ancora in parte presenti, e una dinamica inflazionistica debole che stenta a raggiungere l’obiettivo target del 2%, viene da sé che qualcosa di importante e incisivo va fatto per sostenere produzione, consumi, domanda aggregata e investimenti. Ecco allora che anche l’Europa, a partire dal 2015, comincia a sperimentare una nuova fase macroeconomica e finanziaria, dove regole e strategie valide fino al giorno prima devono essere messe in discussione e necessitano di revisioni e di un profondo ripensamento. Questa “anomala” condizione sembrava però aver visto la sua conclusione con la fine del 2018, anche se i bassi tassi di interesse, alcuni negativi ormai anche su scadenze lunghe della curva, continuano a favorire la discesa degli spread sui titoli governativi.

Ma ecco allora che nella sua penultima riunione da Presidente BCE Mario Draghi da avvio al nuovo programma di Quantitative Easing, rispolverando un pacchetto di stimoli monetari ampio e con prospettive di mantenerlo tale per “un tempo prolungato o almeno fino a quando il tasso di crescita dell’inflazione non tenderà verso l’obiettivo di lungo periodo fissato dalla BCE”. I mercati sorridono poiché, ancora una volta, le decisioni di politica monetaria confermano le attese degli operatori finanziari, rimasti alla finestra e pronti ad accogliere con favore proprio una nuova immissione di liquidità e la conferma di tassi ai minimi.

 

Ma ha funzionato e funzionerà ancora?

Se in generale fare previsioni sul futuro è un compito assai arduo, lo diventa ancora di più quando a dover essere ipotizzati sono i possibili sviluppi che la nuova politica monetaria avrà, in un senso o nell’altro, su economia e inflazione della zona Euro. Ma cosa si rileva prendendo invece in analisi il recente passato e le ripercussioni sulle variabili obiettivo di tali misure?

Un punto a loro favore è certamente quello di aver agevolato tutti quei Paesi con deficit e debito pubblico alto (Italia in primis), prestando però il fianco alle polemiche da parte di quelli che invece hanno conti di finanza pubblica ben più virtuosi e in linea con quanto stabilito dalle regole comuni europee. I bassi tassi di interesse hanno infatti consentito soprattutto alle economie più deboli di finanziarsi sul mercato a condizioni vantaggiose, risparmiando sulla quota di interessi da corrispondere ai propri creditori, con buona pace di chi parlava di austerity.

Secondo punto da tenere in considerazione è il beneficio che la grande immissione di liquidità attraverso l’acquisto di titoli da parte della BCE avrebbe generato. L’obiettivo è ben chiaro a tutti: favorire consumi e investimenti iniettando denaro a basso costo soprattutto attraverso il canale bancario, disincentivato oltretutto a depositare gli eccessi di liquidità a causa del tasso di interesse negativo corrisposto dalla stessa banca centrale (ormai passato da -0,4 a -0,5%). Qui però ci si scontra con un primo problema. Le politiche monetarie, almeno come conosciute fino a oggi, non sembrano poter essere la cura a tutti i mali, in particolare se si è in presenza di tassi di interesse bassissimi. Questo perché, nonostante la riduzione del costo del denaro, vi deve essere una seria e concreta volontà di investire da parte delle imprese o di spendere da parte delle famiglie. L’ingranaggio infatti gira solamente se, a fronte della maggiore liquidità a disposizione delle banche, aumentano effettivamente i finanziamenti all’economia, sostenuta dalla domanda per investimenti, o in alternativa, dal credito al consumo per la spesa corrente dei singoli individui.

E qui entra in gioco il fattore che forse più di tutti condiziona la buona riuscita o meno della politica monetaria espansiva utilizzata fino a oggi: la fiducia, o in chiave contraria, l’incertezza di imprese, consumatori e mercati. A fronte infatti dell’evidente miglioramento degli attivi delle banche e la riduzione degli spread sui titoli obbligazionari dei diversi Paesi a seguito del QE, non c’è stato un contestuale trend positivo in termini di tasso di crescita e tantomeno del livello dei prezzi. Questo perché i timori per politiche interne instabili e scenari macroeconomici incerti influenzano negativamente spesa e investimento di molti degli attori finanziari, piccoli e grandi, che spesso preferiscono rimandare le proprie decisioni in attesa di trovare cieli più sereni all’orizzonte. Si restringe così, e non di poco, il già angusto corridoio attraverso cui le decisioni di politica monetaria dovrebbe portare i propri benefici.

In definitiva, se qualche anno fa le misure espansive adottate potevano dispiegare i loro maggiori effetti proprio perché nuovi e non previsti dai mercati, oggi il loro impatto sembra essere sempre minore, soprattutto sul livello dell’attività economica. Il rischio è quello di assecondare e alimentare l’umore e le previsioni dei grandi operatori finanziari, ampliando il divario tra i possibili benefici (pochi) all’economia reale e le prese di profitto (molti) dei mercati finanziari. Accanto alle misure straordinarie di politica monetaria c’è probabilmente bisogno di uno sforzo corale, in particolare dei Paesi più virtuosi, nell’intraprendere politiche fiscali espansive e rilanciare gli investimenti, giovando così a tutta l’Europa.

Un ringraziamento all’uomo forte dell’Europa è doveroso, ma probabilmente è il momento di inaugurare una nuova stagione politica, con obiettivi e strumenti più efficaci per far in modo di non favorire pochi a scapito di molti. Forse oggi, così com’è, il bazooka non spara più.

Niccolò De Rossi, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 

3/10/2019

 
 
 

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