Incertezza e rallentamento economico, Europa e Italia legate a doppio filo

La ripresa economica che nel 2017 aveva mostrato segnali di consolidamento ha dovuto fare i conti con un 2018 piuttosto instabile, tanto nella crescita quanto nelle performance finanziarie. Quali prospettive riserverà l’anno in corso e quanto la politica ne sarà protagonista?

Niccolò De Rossi

Un’Italia che rallenta. È quanto emerge dai dati sul fatturato dell’industria italiana a dicembre 2018 pubblicati dall’Istat, che evidenzia una consistente flessione su base tendenziale (-7,3%), peggior dato dal 2009, interrompendo una serie positiva che durava da 25 mesi. Ma non va male solo all’Italia. Ad aggravare lo scenario è anche il dato sugli ordinativi, anch’esso in calo, che riflette un rallentamento sia puntuale che prospettico dell’export nazionale, segnale che conferma una tendenza di fondo a livello europeo al rallentamento economico. Come spesso è accaduto durante lo scorso anno, anche in quest'occasione, i mercati si sono rivelati sensibili alle statistiche sui fondamentali dell’economia italiana riflettendo, nel seppur contenuto rialzo dello spread, il timore di una frenata piuttosto marcata e vista come possibile fonte di contagio per il Vecchio Continente.

Alcune perplessità sono state sollevate riguardo ai provvedimenti messi in campo dell’esecutivo, su tutti reddito di cittadinanza e quota 100, ritenuti poco funzionali alla crescita e al contenimento del debito pubblico. E alle fragilità interne al Paese si sommano quelle di un’Europa chiamata a fare i conti con numerosi fattori di rischio che contribuiranno a generare una crescita con il freno a mano tirato. Il rally dei mercati borsistici di gennaio non deve infatti indurre a pensare che le turbolenze dei mercati internazionali che hanno accompagnato soprattutto la seconda metà del 2018 siano ormai solo un recente ricordo. Anche per l’anno in corso infatti permangono alcuni degli scenari avversi che hanno influenzato negativamente le performance di quasi la totalità dell’investibile a livello globale, cui si aggiunge l'incertezza per l’esito delle prossime elezioni europee.

 

I fattori di rischio

Seppur con toni più concilianti rispetto a qualche mese fa, permane lo scontro commerciale tra le due maggiori potenze mondiali USA e Cina, che continua a rappresentare la maggiore fonte di rischio per gli investitori globali. Sul fronte europeo è ancora tutta da decifrare la Brexit che, se si concretizzasse nello scenario estremo di “divorzio duro” (senza accordo), costituirebbe un nodo rilevante tanto per l’incertezza politica che ne deriverebbe quanto per la dubbia reazione che potrebbero avere i mercati finanziari. Proprio questi ultimi dovranno fare i conti con la nuova nomina del presidente della BCE e con la fine del Quantitative Easing in Europa, che porterà un graduale rialzo dei tassi di interesse e di cui andrà monitorata l’evoluzione dell’inflazione core, parametro di riferimento per la guidance della BCE degli ultimi anni. Se infatti la virata verso un atteggiamento da colomba della politica monetaria della FED ha contribuito al rimbalzo soprattutto dei listini azionari americani, gli effetti che produrrà la conclusione degli stimoli monetari europei sono ancora incerti.

Il quadro macroeconomico è ulteriormente complicato sia dalle previsioni di rallentamento dell’economia tedesca, influenzata in particolar modo dalla frenata del mercato automobilistico, sia dalle proteste dei gilet gialli che continuano a creare tensioni interne alla Francia. Da ultimo, ma non per importanza, per i 27 Stati membri dell’UE si avvicinano appunto le elezioni europee, le cui votazioni sono previste tra il 23 e il 26 maggio 2019 in base alla data scelta da ogni singolo Paese. Gli ultimi sondaggi parlano di un’avanzata della compagine “sovranista-populista” che, seppur ancora distante dal poter conquistare la maggioranza nel Parlamento Europeo, acuisce i timori per un possibile cambio di indirizzo politico delle istituzioni europee.

 

Le conseguenze

Come spesso è accaduto in passato e come più volte hanno dimostrato i mercati, in periodi di forte incertezza, come quello attuale, tornano fortemente appetibili per gli investitori i beni rifugio. Il prezzo dell’oro è infatti tornato a crescere insieme agli altri metalli preziosi, segnale che le turbolente politiche globali preoccupano gli investitori, agitati sia per la volatilità crescente sulla componente equity sia per l’incerto percorso che potranno avere i tassi di interesse sui bond a seguito degli sviluppi della fine del QE e della politica di normalizzazione attuata dalla banca centrale USA.

Non solo. Cresce di conseguenza la volontà, divenuta ormai necessità, di rivolgere l’attenzione verso gli investimenti nei cosiddetti private markets. Il paniere di strumenti tramite cui investirvi è ampio e in questo senso un segnale è arrivato anche dalla Legge di Bilancio 2019, che ha puntato ancora una volta sui PIR di cui però ancora si attende il decreto attuativo. Gli strumenti di investimento nei private markets, che consentono di portare un diretto sostegno all’economia reale del Paese, hanno la caratteristica di essere decorrelati con l’andamento dei mercati tradizionali e di riuscire dunque a conseguire ritorni interessanti anche in contesti, come quello attuale, di crescente incertezza e alta volatilità sui tradizionali asset di mercato.

Oltre alla componente legata all’andamento dei mercati globali, gli scenari di politica interna continuano a preoccupare. Le prossime elezioni europee hanno chiamato, ormai da qualche tempo, alla continua ricerca di consenso da parte delle forze politiche in campo (in Italia, ma non solo) che in più occasioni hanno testimoniato di guardare all’appuntamento del prossimo 26 maggio come un punto di svolta o, al contrario, di probabile indebolimento. Di conseguenza, c’è il timore che le misure adottate dalla politica siano volte più a obiettivi di corto respiro (volata verso le europee) che a dispiegare i loro effetti di crescita nel lungo periodo. D'altra parte, va considerato che la percezione di un pervasivo percorso riformista avrebbe invece contribuito, da un lato, ad allentare le tensioni sullo spread, che inevitabilmente finisce per costare al Paese svariati miliardi di interessi sul debito per ogni nuova emissione e, dall’altro, ad abbassare progressivamente il debito pubblico.

Per tornare a crescere occorre dunque puntare sulla domanda esterna, incrementando soprattutto la competitività, ma anche sulle riforme: tra i punti chiave per il rilancio dell’economia, la semplificazione della burocrazia, che porta a una riduzione dei costi e delle tasse per le imprese italiane. Permane inoltre il tema della riduzione delle aliquote fiscali, realizzabile solo a patto di attuare una drastica riduzione dell’evasione fiscale, che colloca il Paese ai primi posti a livello europeo.

Ogni nazione e in particolar modo l’Italia avrà dunque il compito di intercettare le tendenze dei singoli mercati interni, di confrontarsi con lo stato di salute - non solo attuale, ma soprattutto prospettico - della propria economia, di saper avere una visione organica di sviluppo e mettere in campo riforme strutturali per sostenere la crescita.

Niccolò De Rossi, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 

25/2/2019

 
 

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