Dopo il parere delle Commissioni, fondi pensione a rischio?

La Commissione per la riforma fiscale propone di intervenire sulla tassazione delle prestazioni finali della previdenza complementare: le modifiche imboccano però una strada ben lontana da quella che il settore avrebbe bisogno di percorrere per il definitivo slancio delle adesioni, a cominciare da una fondamentale stabilità legislativa

Alberto Brambilla

Per i fondi pensione si profilano in futuro grandi problemi se il governo accoglierà il documento conclusivo di indirizzo politico per la predisposizione della legge delega sulla riforma fiscale elaborato dalle rispettive Commissioni di Camera e Senato. 

Questa la frase che ci riporta indietro di 21 anni, vale a dire all'infelice riforma Visco del 2000: La Commissione concorda che, nel rispetto delle compatibilità finanziarie, sia importante l’applicazione alla previdenza complementare del modello che prevede l’esenzione dall’imposta sostitutiva sul risultato netto maturato, considerando al contempo la modifica del regime di tassazione per la fase di erogazione delle prestazioni”, che si aggiunge: “ovviamente andrebbe uniformata la tassazione in fase di prestazione, considerando la tassazione secondo le aliquote IRPEF ordinarie”.

Tradotto: oggi siamo nel cosiddetto sistema ETT cioè Esente, Tassato, Tassato. In pratica, esente significa che si può versare ai fondi pensione fino a 5.164 euro deducendoli dal reddito e quindi beneficiando di uno sconto fiscale pari al valore dell’aliquota marginale; ad esempio, con un'aliquota fiscale marginale del 32% versando 5.164 euro, si risparmiano 1.652,5 euro di tasse. I rendimenti sono tassati con aliquota ridotta pari al 20%, rispetto al 26% ordinario (è del 12,5% per i titoli di Stato e assimilati); in origine era l’11%. Le prestazioni in rendita e capitale sono tassate con aliquota sostitutiva tra il 15% e il 9% per incentivare la permanenza nei fondi. Il meccanismo è semplice: dopo il 15esimo anno di permanenza nei fondi, per ogni anno successivo la tassazione si riduce dello 0,3% fino a raggiungere il 9%. La Commissione invece ritiene la tassazione “...nella fase di prestazione con un meccanismo molto complesso”. Fate voi se è così complesso! Lo hanno capito tutti, tant’è che si tratta di un grande incentivo se si considera il differenziale tra l’aliquota fiscale che si detrae quando si versa e la tassazione finale (ad esempio, la detraibilità con la prima aliquota è del 23%, quindi 14 punti più alta della tassazione finale).

Ma l’adozione dell’aliquota sostitutiva - che ho fortemente voluto quando ho scritto la legge di riforma del sistema previdenziale, il decreto legislativo 252/2005, per riparare i danni della legge 47/2000 di Visco - si pone proprio come obiettivo quello di non cumulare i redditi da fondi pensione con altri redditi e, soprattutto, con quelli della pensione pubblica. Passare a EET, come in modo assai sprovveduto propongono le Commissioni presiedute da Marattin e D’Alfonso, significa togliere la tassazione del 20% sui rendimenti (20% di un rendimento del 3% è 0,6%) e tassare ad aliquota marginale (cumulo dei redditi) le prestazioni finali: insomma, ci tolgono lo 0,6% e ci fanno pagare fino al 46%. Con l’aggravante che la normativa italiana prevede un'enormità di bonus, esenzioni e agevolazioni fiscali (le tax expenditures), tutte legate al reddito, in un Paese nel quale il 51% dei pensionati è totalmente o parzialmente assistito e un altro 20% gode di prestazioni aggiuntive anch’esse collegate al reddito e che scomparirebbero se il soggetto avesse anche la rendita complementare. 

Tornare alla Visco, così come propone la Commissione, significherebbe distruggere la previdenza complementare!

Il tema delle pensioni è complesso e stupisce che in 6 mesi di lavoro e dopo 61 audizioni, come afferma in gloria il “documento”, non sia venuto in mente a nessuno di chiedere il perché del sistema di tassazione attualmente in essere. Bastava leggere che: a) il decreto legislativo, oltre che essere approvato da Camera e Senato con ampia votazione fu il risultato della firma di un protocollo preliminare tra governo e oltre 30 parti sociali (un fatto raro nella storia italiana) al fine di consentire finalmente lo sviluppo dei fondi pensione. b) Siccome i lavoratori non hanno l’anello al naso, quando si introdusse la tassazione ordinaria delle prestazioni complementari, si verificò il blocco delle adesioni; il ragionamento di operai e impiegati, forse meno sofisticato di quello dei parlamentari, ma più pratico fu il seguente: “Oggi verso e mi fanno lo sconto ad aliquota marginale ma tra 10 anni, quando prenderò rendita pensionistica complementare, se si somma alla pensione pubblica l’aliquota fiscale aumenta e tutti i vantaggi acquisiti nella fase di versamento li risputo con gli interessi nella vecchiaia". 

Non solo: i lavoratori previdenti corrono il serio rischio, avendo una pensione complementare, di perdere gli svariati bonus (elettrico, canone TV, casa, ticket, trasporti e così via) collegati al reddito. Insomma, il previdente prenderebbe poi meno pensione dell’imprevidente che tra maggiorazioni sociali, integrazioni al minimo, bonus (di cui è difficile quantificare il numero tra statali, comunali e regionali) e agevolazioni può agevolmente superare i 900 euro al mese.

Lo sviluppo dei fondi pensione è indispensabile per i cittadini e per il Paese e, di conseguenza, bisogna fare “tutto ciò che è necessario” perché aumentino le adesioni visto che siamo tra gli ultimi nelle classifiche OCSE e che la pensione pubblica potrebbe non bastare per via dei bassi redditi da lavoro. Cosa fare? Anzitutto, è necessario che la politica non faccia confusioni come fanno le Commissioni quando dicono che l’obiettivo della riforma dev’essere: “la crescita dell’economia”. Difficile far crescere i fondi pensione aumentando le tassazioni e confondendo il risparmio finanziario con quello previdenziale, come ha fatto il governo Renzi (quello che ha proposto il TFR in busta paga, un flop per merito dei lavoratori). Semmai, occorre il ripristino del fondo di garanzia perché la sua eliminazione a cura di Prodi e Damiano ha negato agli oltre 6 milioni di lavoratori di micro e piccole imprese il diritto alla pensione complementare. La riforma fiscale deve ridurre la tassazione sui rendimenti all’11% (e anche meno),  portandola da annuale al “maturato”, e aumentare il versamento di 5.164 euro l’anno, importo fermo dal 2005, in base alla variazione dei prezzi. E, poiché il fondo pensione è un ottimo libretto di risparmio, favorirne l’adozione da parte dei giovanissimi, incentivando i versamenti da parte di nonni, zii e parenti attraverso la deduzione fiscale. 

Ma di tutto ciò non c’è traccia nel discutibile documento che come nella migliore tradizione di chi si sente “progressista” prevede solo un aumento delle tasse. La speranza è che il governo Draghi, competente ed equilibrato, non tenga conto del parere delle Commissioni.


di Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali


L’articolo, integralmente riprodotto sul blog ilPunto con il consenso dell’autore, è stato pubblicato sul Corriere della Sera, L’Economia del 23 agosto. Si riportano a seguire, per completezza, le successive repliche e precisazioni a cura dell’On. Marattin  e del Prof. Brambilla 

Sull’inserto economico del Corriere della Sera di lunedì 23 agosto Alberto Brambilla fornisce un giudizio molto negativo sul documento conclusivo del lavoro semestrale delle Commissioni Finanze di Camera e Senato sulla riforma fiscale, arrivando in conclusione ad augurarsi che “il governo Draghi, competente e equilibrato, non tenga conto del parere delle commissioni”. Ne deriva, immagino, che Brambilla ritiene che le Commissioni Finanze devono aver quindi dimostrato di essere “incompetenti” e “poco equilibrate”.

Il motivo di questo giudizio così netto è che il documento approvato dalle Commissioni, secondo Brambilla, “distruggerebbe la previdenza complementare” perché propone di detassare completamente la fase di maturazione dei contributi versati (attualmente l’aliquota è al 20%) e tassare secondo la disciplina ordinaria le prestazioni (attualmente vi è un’aliquota sostitutiva del 15%, che dopo quindici anni si riduce dello 0,3% annuo fino ad un minimo del 9%). Secondo Brambilla, questo intervento danneggerebbe fortemente i lavoratori perché “ci tolgono lo 0,6% e ci fanno pagare fino al 46%”.

Il fraintendimento di Brambilla nasce da un equivoco di fondo, probabilmente non sufficientemente chiarito nel paragrafo incriminato ma – invero – piuttosto chiaro a chiunque invece abbia letto l’intero documento, e non solo quel paragrafo. Quando si afferma che le prestazioni della previdenza complementare andranno tassate secondo il regime ordinario, si fa riferimento al nuovo regime duale proposto dalle Commissioni, vale a dire quello in cui le rendite finanziarie – così come i redditi da capitale – verrebbero tassate in maniera proporzionale con un’aliquota tendenzialmente vicina all’aliquota più bassa dei redditi da lavoro. Non quindi, il 46% di cui parla Brambilla.

Quando le Commissioni propongono l’adozione del sistema EET - che magari non sarà quello che scrisse Brambilla a suo tempo, ma è quello largamente prevalente in tutta Europa - hanno quindi in mente l’eliminazione dell’aliquota del 20% annuo lungo tutto il periodo di maturazione, in modo che alla fine il montante contributivo sia sensibilmente più alto rispetto alla situazione attuale, e così quindi la rendita annuale lorda. Per quanto riguarda la tassazione poi, dipenderà da quale sarà l’aliquota proporzionale del nuovo sistema duale. Ma basta fare qualche semplice simulazione per verificare che anche se fosse simile a quella del sistema attuale, la detassazione nella fase di maturazione garantirebbe comunque al lavoratore una rendita netta più alta (o nelle ipotesi più pessimistiche riguardo i rendimenti, comunque non inferiore a quella attuale).

Non vi è quindi alcun intento distruttivo verso la previdenza complementare, che le Commissioni ritengono invece fondamentale non solo per il welfare del futuro ma anche per la crescita economica, essendo una fonte di investimenti nell’economia reale che è necessario sviluppare al fine di diversificare e rafforzare le fonti di finanziamento del tessuto imprenditoriale.

Luigi Marattin, Presidente della Commissione Finanze della Camera, 

pubblicato da Il Corriere della Sera L'Economia del 28 agosto


Ringrazio il Presidente Marattin per la risposta che, tuttavia, rafforza le perplessità sollevate nell’articolo che riflette puntualmente i contenuti dell’intera relazione la quale, con qualche scollamento tra le sue parti, prevede per i fondi pensione di eliminare la tassazione dei rendimenti ed equiparare la tassazione finale delle prestazioni in capitale e rendita all’attuale aliquota sulle rendite finanziarie (26%) che dovrebbe essere prossima, dice la relazione, alla minore delle aliquote ordinarie (23%) ma “che dipenderà da quale sarà l’aliquota proporzionale del nuovo sistema duale”. 

Tre osservazioni: 1) Il solo fatto di introdurre modifiche al profilo fiscale dei fondi pensione e indicare addirittura un futuro incerto (dipenderà), come ampiamente è accaduto in passato, genera insicurezza tra i lavoratori e inevitabilmente produce un rallentamento delle adesioni, l’esatto contrario dello sviluppo auspicato dalle Commissioni. 

Chi si fida a iscriversi alla previdenza complementare se la politica ogni 4/5 anni cambia le regole del gioco? 

2) Nella migliore delle ipotesi, passando al sistema EET, l’aliquota sull’intero montante maturato passerebbe tra il 23% e il 26% rispetto all’attuale imposta sostitutiva tra il 15% e il 9%, studiata per incentivare una più prolungata iscrizione ai fondi pensione. Tutto ciò, oltre che aumentare le preoccupazioni dei lavoratori, genera un aumento del carico fiscale. Ipotizziamo un rendimento fisso del 3% annuo: con una tassazione pari all’attuale 20%, avremo un tasso di capitalizzazione del 2,4% che, per legge, non subisce ulteriori tassazioni in fase di erogazione delle prestazioni e, nella proposta EET delle Commissioni, del 3% che però verrà tassato al momento della prestazione. Supponendo un investimento di 5.000 euro per 20 anni, con le regole attuali, avremo un montante finale che, al netto della tassazione (13,5%) sul montante e pari a zero sui rendimenti, è di 115.980 euro; con la proposta delle Commissioni otterremo un montante finale di 106.554,14 euro se tassato al 23% o 102.402,68 euro se tassato al 26%. Quindi, tra 9.426 e 13.577 euro in meno, che aumenterebbero di altri circa 1.225 euro se il montante venisse tassato, come tutto il risparmio gestito, al momento della fruizione delle prestazioni (20 anni nel nostro caso). Non proprio poco per un lavoratore! 

3) Dopo l’eliminazione nel 2007 del fondo di garanzia per le PMI, che di fatto ha bloccato l’accesso alla previdenza complementare ai circa 6 milioni di lavoratori delle PMI, e l’aumento nel 2015 e 2016 della tassazione sui rendimenti dei fondi pensione dall’11% all’11,5% e poi al 20% (26% per le Casse privatizzate), ci si sarebbe aspettato che le Commissioni risolvessero i 2 principali problemi fiscali dei fondi pensione, sostituendo la tassazione annuale dei rendimenti (unica nel mondo del risparmio gestito) con la normale tassazione al riscatto finale della posizione, magari tornando all’11% originale ed eliminando le diverse tassazioni delle prestazioni a seconda delle date di contribuzione, equiparandola alla RITA (rendita integrativa temporanea anticipata). Due complicate e penalizzanti per i lavoratori. 

L’impressione è che permanga nella politica una confusione tra risparmio previdenziale e risparmio finanziario/speculativo, con un accanimento terapeutico verso il primo, tanto più che i PIR (Piani di Risparmio Individuali) per importi che vanno da 150mila euro a 1,5 milioni di euro (enormemente più elevati del fondo pensione di un metalmeccanico), se detenuti per almeno 5 anni non hanno alcuna tassazione sui rendimenti, anche a vita; una grossa contraddizione tanto più che da oltre 10 anni si tenta invano di agevolare gli investimenti in economia reale domestica dei fondi pensione. 

Converrà l’Onorevole Marattin che, prima di modificare ancora una volta la tassazione dei martoriati fondi pensione, sia meglio - se si vuole favorirne lo sviluppo (siamo maglia nera nella classifica OCSE) e quello del Paese, - eliminare le storture che la relazione delle Commissioni non coglie e dare finalmente “pace fiscale” ai fondi. 

Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali,

pubblicato da Il Corriere della Sera L'Economia del 6 settembre
 

7/9/2021

 
 
 
 

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