Il debito pubblico italiano: un limite allo sviluppo e un rischio per la sovranità nazionale

Complice la campagna elettorale che entra nel vivo, ferve la discussione sui parametri di Maastricht del 1992: sul banco degli imputati, in particolar modo, il 3% del rapporto deficit/Pil. Che fare? Analisi e spunti di riflessione del Prof. Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 

Alberto Brambilla

Complice la campagna elettorale si stanno rimettendo in discussione i parametri di Maastricht del 1992 che hanno aggiornato quelli previsti nel trattato di Roma del 1957: in particolare, sul banco degli imputati, c’è il 3% del rapporto deficit/Pil. Persino Prodi, uno dei più convinti sostenitori dell’euro, ha recentemente dichiarato che: "Il 3% di deficit-Pil ha senso in certi momenti, in altri sarebbe giusto lo zero, in altri il 4 o il 5%; non è stupido che ci siano i parametri come punto di riferimento, è stupido che si lascino immutati 20 anni". Ma, per un Paese come l’Italia, con un debito pubblico “monstre”, che fare? Per l'ex presidente della Commissione europea: "Bisogna escludere temporaneamente dal computo del deficit i 51 miliardi versati dall’Italia alla solidarietà europea e usare quelle risorse per investimenti pubblici straordinari". Bettino Craxi nel 1997 disse che: "Si presenta l’Europa come una sorta di paradiso terrestre ma per noi nella migliore delle ipotesi sarà un limbo e nella peggiore un inferno; la cosa più ragionevole sarebbe stato richiedere e anzi pretendere, essendo noi un grande paese, la rinegoziazione dei parametri di Maastricht". 

Come si vede, l’uscita di Salvini, assai criticata, ha precedenti illustri ma la domanda principale è: “Con il debito pubblico che abbiamo possiamo permetterci di sforare il 3% o dobbiamo accettare escamotage come suggerisce Prodi o escludere come dicono altri gli investimenti in conto capitale dal computo del debito?

Andiamo con ordine:

1) Alla faccia della cosiddetta “austerity” impostaci dall’Europa, dal 2013 al 2017 a fronte di un risparmio di spesa per interessi sul debito pubblico di ben 76 miliardi grazie all’azione della BCE, lo stock di debito è aumentato di 215 miliardi, a una media di oltre 43 miliardi l’anno. Verrebbe da dire: e se non fossimo stati in austerity, quanto debito avremmo fatto?  

2) Se in linea generale il 3% può essere messo in discussione, nel caso Italia i margini di manovra sono esigui per 3 ordini di motivi: a) come si vede dalla tabella il nostro Paese ha un debito pubblico che, a fine 2017, è pari a circa il 132% del Pil, raggiungendo la stratosferica cifra di 2.283 miliardi di euro; nella classifica siamo battuti solo dalla Grecia, che però ha un Pil di soli 211 miliardi, cioè il 57% di quello della Lombardia (370 miliardi), mentre al 130% del Pil c’è il Portogallo con un Pil di 230 miliardi. Gli altri Paesi virtuosi sono tutti abbondantemente sotto il 100%; secondo l’11° Rapporto di Economia Reale di Mario Baldassarri senza l'effetto del Qe tale rapporto sarebbe arrivato al 157,3%, 27 punti in più, forse un poco esagerato, ma l’aumento di qualche punto è certo; b) secondo il Centro Studi Unimpresa, nel corso della prossima legislatura tra il gennaio 2018 e la fine del 2022, si dovranno rinnovare circa 1.000 miliardi di euro di titoli di Stato. (147 mld. di Bot, 734 mld. di Btp, 85 mld. di Cct e 32 mld. di Ctz) su un totale di 1.879 miliardi; c) secondo il Sole 24ore, se nel 2018 si dovranno rinnovare meno titoli rispetto al 2017 (nelle linee guida del Tesoro si stimano circa 390 mld), la riduzione del QE, potrebbe produrre, accanto al rischio politico, un aumento dello spread BTp/Bund. Da quanto sopra risulta perlomeno complicato pensare a uno sforamento del 3%, sia per l’alto stock di debito sia perché la fine del QE e il cambio al vertice della BCE produrranno certamente un aumento degli interessi sul debito, che dagli attuali circa 64 miliardi potrebbero aumentare nel 2019 di diversi miliardi. E pensare che se avessimo un debito normale come gran parte dei Paesi UE (poco sotto 100%) potremmo risparmiare quasi 15 miliardi da investire in sviluppo, tecnologia e ricerca a favore delle giovani generazioni, ma negli ultimi 25 anni tutti i Governi hanno preferito distribuire risorse a debito (soprattutto per il welfare assistenziale che in genere porta molti consensi) piuttosto che preoccuparsi di ridurre la spesa e, quindi, l’indebitamento.  

3) Occorre inoltre considerare che la finanziaria per il 2019, che i vincitori delle elezioni si troveranno a preparare già dal DEF di giugno, ha già impegnati circa 15 miliardi per disattivare l’aumento dell’Iva; a questa somma, occorrerà aggiungere una mini manovrina da circa 2 miliardi nella speranza che lo spread sui titoli di Stato non faccia brutti scherzi.

4) Uscire dall’euro? A guardare i casi della Grecia di Tsipras, dell’Inghilterra post-Brexit e della Catalogna sembrerebbe una strada pericolosa tanto più che il tallone d’Achille dell’Italia è la scarsa produttività (abbiamo perso circa 10 punti nei confronti degli USA e dell’EU) e, se tornassimo alla liretta, non potremmo far altro che “drogare” la nostra economia con svalutazioni competitive, come abbiamo fatto nei vent’anni precedenti l’entrata nell’euro. 

E allora che fare? Più che sul 3% (sul quale peraltro si possono fare gli aggiustamenti citati all’inizio), sarebbe più utile “battere i pugni in UE” per eliminare molti vincoli e limiti burocratici che penalizzano fortemente il nostro Paese, che fonda i suoi settori principali sulla qualità. Ad esempio nella pesca, negli allevamenti di mitili, nel settore lattiero caseario, nella filiera agro-alimentare dove i nostri marchi Doc e Dop sono spesso non rispettati; e questo riguardo sia le importazioni sia gli accordi di libero scambio, tipo quello con il Canada. Ma occorre tutelare anche le aziende “strategiche” nei settori difesa, telecomunicazioni, infrastrutture (energia, acqua, fibra) e produttive (alluminio, acciaio e acciai speciali), fondamentali per il secondo Paese manifatturiero d’Europa. E poi se si vogliono tutelare le giovani generazioni e avere un Paese meno dipendente dai mercati e dalla finanza, e quindi con maggiore sovranità nazionale, occorre diminuire la spesa corrente, aumentare gli investimenti migliorando la produttività, ma soprattutto ridurre il debito pubblico; e la prima regola per ridurlo è non farne così tanto di nuovo. Poi inutile lamentarsi se saltano i Governi.

                          Tab 1. Rapporto debito pubblico/PIL 

 Tab 1. Rapporto debito pubblico/PIL

 Tab 2. Prodotto interno lordo nazionale e pro-capite

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

31/1/2018

 
 
 

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