La sanatoria dei migranti non crea occupazione: in 500mila senza lavoro

Fallito l'obiettivo di soddisfare il fabbisogno di stagionali nei comparti dell'agricoltura, la sanatoria si conferma - come d'altra parte lecito attendersi sulla base degli esiti di quelle passate - uno strumento incapace di creare vera occupazione e usato in molti casi solo per ottenere il permesso di soggiorno ricorrendo a collaborazioni domestiche fittizie 

Alberto Brambilla e Natale Forlani

Mentre si intensificano gli sbarchi di migranti irregolari, il Ministero dell’Interno comunica che, al 31 luglio 2020, sono 148.594 le domande di regolarizzazione degli immigrati per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi di lavoro, di cui 128.179 riguardanti rapporti di lavoro domestico e 19.875 relative ai lavoratori subordinati dei comparti agricoltura e pesca. Numeri lontani dai 600mila stranieri irregolarmente presenti in Italia evocati in alcune analisi utilizzate per sostenere l’opportunità della sanatoria e persino dalle stime prudenziali adottate dal governo nella relazione di accompagnamento al provvedimento che, nel frattempo, è stato prorogato di un mese per la presentazione delle domande.

Leggendo la normativa sulla sanatoria ci si rende conto che è un “liberi tutti” e che è stata cioè progettata per eliminare qualsiasi ostacolo alla regolarizzazione ed estesa a tutti gli extracomunitari entrati nel Paese prima dello scorso 8 marzo per motivi di turismo, visite parentali e finalità che non richiedevano il rilascio di un permesso di soggiorno. L’unica impossibilità è l’aver subito una condanna, per il resto è possibile regolarizzarsi anche in assenza di documenti o di date certe di ingresso, basta una scheda telefonica o la dichiarazione di una qualsiasi associazione (molte delle quali della stessa etnia dei richiedenti); se poi la famiglia che chiede la regolarizzazione ha redditi insufficienti è consentito che l’assunzione sia fatta da due o più nuclei familiari. E poi c’è l’ego te absolvo, valido ovviamente solo per gli stranieri nel senso che, una volta ottenuta, la sanatoria è come aver ricevuto un condono fiscale e contributivo: sospensione di ogni procedimento di carattere penale o amministrativo anche se per anni si è usufruito della sanità e degli altri servizi senza pagare un euro di tasse e contributi. Insomma, se gli italici si arrabbiano, qualche motivo ce l’hanno.

Ma sono le caratteristiche delle domande presentate a confutare gli obiettivi che erano stati individuati a monte del provvedimento. A partire dall'esigenza di soddisfare i fabbisogni di lavoratori stagionali nei comparti dell’agricoltura, per via del mancato ingresso di 250mila lavoratori comunitari che ha avuto esiti totalmente fallimentari. Com'era ampiamente prevedibile, sulla scorta delle sanatorie precedenti, i rapporti di lavoro domestico hanno costituito il veicolo preferito per il rilascio dei permessi di soggiorno per un consistente numero di stranieri irregolari bengalesi, marocchini, pakistani, albanesi, cinesi, indiani, egiziani, in gran parte maschi, che non hanno particolari predisposizioni per il lavoro domestico, il 25% dei quali assunto da famiglie straniere delle stesse etnie. Esiti del tutto simili a quelli della sanatoria del 2012 e per rapporti di lavoro destinati a sciogliersi in breve tempo una volta ottenuto il permesso di soggiorno. Solo il 20% delle domande ha riguardato collaboratrici domestiche e badanti provenienti dai Paesi dell’Est. Probabilmente questi dati - oltre a quelli sulla ripresa degli sbarchi di immigrati irregolari, in buona parte tunisini - devono aver generato qualche dubbio anche alla ministra Lamorgese che, in una recente intervista, ha tenuto a precisare che i migranti irregolari entrati in Italia successivamente all’8 marzo 2020 non potranno accedere alla regolarizzazione.

L’effetto di attrazione di nuovi stranieri provocato dalle sanatorie era già stato documentato nel passato. Del resto, le procedure di regolarizzazione del lavoro sommerso, che riguardano mercati  caratterizzati da elevata mobilità del lavoro e da rapporti di breve durata, oltre il 50% inferiore ai 3 mesi, risultano essere scarsamente efficaci a questo scopo e producono l’effetto di aumentare le persone che cercano lavoro, aggravando così la situazione degli stessi lavoratori immigrati soprattutto in coincidenza di crisi economiche come l’attuale. Esattamente com'è avvenuto per le due sanatorie del 2009 e del 2012, contribuendo al raddoppio del tasso di disoccupazione della popolazione attiva immigrata e a un impoverimento dei redditi medi percepiti. Nel 2019, il 30% degli immigrati versava in condizioni di povertà assoluta.

Quest'evoluzione negativa è destinata a aumentare nel corso della crisi economica post COVID-19, essendo la popolazione attiva immigrata particolarmente concentrata nei comparti dei servizi che scontano gli effetti della pandemia: turismo, ristorazione, e lavoro domestico. Le ultime rilevazioni dell’Istat di giugno 2020 certificano una diminuzione di 750mila occupati rispetto l’analogo mese del precedente anno, in buona parte, circa 600mila, dovuta alla mancata attivazione di nuovi rapporti di lavoro, soprattutto stagionali e a termine, che riguardano per almeno il 20% proprio i lavoratori stranieri. Una condizione destinata a peggiorare con la fine del blocco dei licenziamenti.

Realisticamente possiamo stimare che il numero degli stranieri in cerca di lavoro abbia già superato il mezzo milione di unità, considerando le 400mila già registrate alla fine dello scorso anno. Lecito allora chiedersi come mai di fronte a queste evidenze, corredate da analisi ampiamente disponibili alle autorità di governo, si possano promuovere sanatorie e persino auspicare la programmazione di nuovi flussi di ingresso di lavoratori stranieri. Il dovere di ottemperare per motivi giuridici e umanitari agli obblighi di accogliere le persone che fuggono da guerre e persecuzioni non deve far trascurare, per un esecutivo serio, l’evidenza che il nostro Paese è il fanalino di coda per i numeri del tasso di occupazione (totale, giovanile e femminile) e ai primi posti per quello della disoccupazione; che l’ingresso di nuovi immigrati per motivi economici serve quando c’è bisogno di manodopera e, come ovvio, non è il nostro caso. Peggio ancora pensare che l’immigrazione sia la soluzione delle criticità demografiche e della sostenibilità delle prestazioni sociali in Italia. L’immigrazione, soprattutto questa molto dequalificata, è un costo e i dati INPS - al di là delle manipolazioni ideologiche - lo dimostrano.

Queste idee tecnicamente sbagliate servono a gruppi di interessi che, per finalità ideologiche, sociali ed economiche, si ostinano a identificare le politiche dell’immigrazione con quelle finalizzate alla accoglienza degli immigrati condizionando negativamente i processi decisionali e l’adozione di politiche per governare la complessità dei fenomeni, aprendo uno iato profondo con il comune sentire della popolazione. Ma finisce per generare anche una percezione sbagliata del nostro sistema Paese sul piano internazionale, rendendolo vulnerabile verso i comportamenti opportunistici e la gestione di pratiche malavitose.

Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 

Natale Forlani, Comitato Tecnico Scientifico Itinerari Previdenziali 

18/8/2020

 
 
 

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