Le promesse elettorali a carico dei contribuenti tra demagogia e incompetenza

Sono sempre più numerose le proposte riguardanti pensioni e assistenza che stanno accompagnando la campagna elettorale in vista delle elezioni politiche. Dati alla mano, quante e quali di queste promesse sono davvero sostenibili? Le anticipazioni del Quinto Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale italiano a cura del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

Alberto Brambilla

È cominciata di gran carriera la campagna elettorale e con puntualità italica sono iniziati i proclami e le “promesse”. Il grosso si concentra su pensioni e assistenza, argomento ad alta sensibilità sociale e nervo scoperto degli italiani; i destinatari infatti sono molti: 16,1 milioni di pensionati, dei quali 8,2 assistito totalmente o parzialmente dallo Stato e quindi “molto” sensibili, oltre a qualche altro milione che anela alla giusta quiescenza. In totale, compresi i familiari, fanno quasi 40 milioni, la fetta maggiore dell’elettorato: la più appetibile!

Tuttavia, analizzando proclami e promesse, si ha la sensazione che la conoscenza del bilancio dello Stato e degli argomenti sia modesta. Vediamo insieme qualche esempio:

1) “Basta con questa austerità imposta dall’Europa” - proclamano alcuni protagonisti della politica – “è ora di avere più flessibilità” (tradotto, poter fare più deficit). Conoscendo i saldi del bilancio pubblico, potremmo affermare “meno male che l’Europa c’è”. Eh sì, perché dal 2013 al 2017, a fronte di un risparmio di spesa per interessi sul debito pubblico di ben 76 miliardi, lo stock di debito è aumentato di 215 miliardi a una media di oltre 43 miliardi l’anno. Verrebbe da dire: e se non fossimo stati in austerity quanto debito avremmo fatto? E poi ci si preoccupa dei giovani che fuggono all’estero, li si rabbonisce con il “bonus cultura” ma, a fronte dei 500 euro donati, lasciamo sul groppo delle giovani generazioni un debito monstre. E pensare che se avessimo un debito normal,  come gran parte dei Paesi UE (poco sotto 100%), potremmo risparmiare quasi 15 miliardi da investire in sviluppo, tecnologia e ricerca.

2) C’è una gara per introdurre forme di sostegno alle famiglie in stato di povertà: chi propone il REI (reddito di inserimento), chi il Reddito di cittadinanza (780 euro al mese), chi il Reddito di Dignità, con costi che vanno dai 7 miliardi nel triennio della proposta governativa agli oltre 20 miliardi strutturali annui per le proposte estreme. Le coperture? Vaghe e in buona parte reperite a scapito dei redditi alti meritati con duro lavoro; monitoraggi e controlli pressoché non previsti. Altro che promessa di riduzione delle tasse. Negli ultimi 20 anni sono stati molti i tentativi di introduzione di forme di sostegno al reddito; negli anni 2000, a livello regionale Campania, Veneto, Basilicata, Sicilia, Friuli Venezia Giulia e Lazio; poi il Reddito Minimo di Inclusione (RMI) promosso dall’allora Ministra alla Solidarietà Sociale Livia Turco (d.lgs 237/1998), smantellato già nel 2002 a favore del Reddito di Ultima Istanza (RUI), pure cancellato; il RMI fu sperimentato in diversi comuni tra cui quello calabro di Isola Capo Rizzuto, dove furono 1.800 i soggetti richiedenti (quasi la metà dei nuclei residenti) dei quali 800 finirono sotto inchiesta per truffa (argomento magistralmente trattato da Gian Antonio Stella sul Corriere).

3) Ma al di là dei fallimenti e degli esiti negativi di queste forme di intervento i proponenti dovrebbero almeno conoscere quanto spendiamo oggi per l’assistenza. Vediamo qualche anticipazione del Quinto Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale italiano a cura del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali: a) per il 2016, su 830 miliardi di spesa pubblica totale, per pensioni, sanità, assistenza, abbiamo speso 452 miliardi pari al 54,4% del totale; di questi circa 40 miliardi, a debito. Se calcoliamo tale spesa sulle entrate (788,5 miliardi) l’incidenza aumenta al 57,32%, cioè un valore più alto di quello svedese, la patria del welfare; b) per l’assistenza, totalmente finanziata dalla fiscalità generale, nel 2016 abbiamo speso circa 100 miliardi , ioè quasi il 64% dell’intera spesa netta per pensioni, cifra destinata peraltro ad aumentare per via del citato REI; i beneficiari solo nel comparto pensionistico sono oltre 8,2 milioni, cioè il 51% di tutti i pensionati (sembra siamo appena usciti da una catastrofe) e tutte queste prestazioni (pensioni e assegni sociali, invalidità, accompagnamento, pensioni di guerra – ne paghiamo ancora 190 mila per un costo di 1,3 miliardi l’anno – maggiorazioni sociali, integrazioni al minimo, 14° mensilità, social card, Sia ecc) sono esenti da imposte; c) per inciso, la spesa pensionistica è pari a circa 200,7 miliardi al lordo delle imposte, mentre le entrate contributive sono state pari a 181,2 miliardi; ma poiché sulle pensioni si pagano le imposte, le uscite nette per lo Stato sono di 150 miliardi, il che smonta un altro luogo comune che vede le pensioni come il costo maggiore.

4) Altro proclama demagogico il taglio dei vitalizi con validità retroattiva sbandierato, ma non realizzato, per il semplice motivo che tale norma è palesemente incostituzionale e, inoltre, sarebbe costata più soldi a causa dell’imperizia di chi l'ha scritta; e ancora, tagliamo allora le cosiddette “pensioni d’oro”, che qualcuno pone a 3.000 euro il mese, altri a 5.000, senza precisare se lordi o netti. Una buona parte di questi pensionati d’oro, se gli venisse ricalcolata la pensione con il metodo contributivo, ci guadagnerebbe - altro che tagli - perché il retributivo già prevedeva decurtazioni nei coefficienti anche del 50%.  

5) Ultima promessa, gli aumenti delle pensioni minime a 780 euro o a 1000 euro mese. Se venissero portate a 1.000 euro, nessuno verserebbe più contributi e sarebbe la fine del nostro sistema previdenziale (se lo stipendio medio è di 1.900 euro lordi la pensione netta – 70% per i dipendenti, 60% per gli autonomi e 50% per i professionisti – arriva a malapena ai mille euro per i dipendenti (inferiore per gli altri), per cui perché versare se alla fine avrò i 1.000 € netti? E il costo? Tra i 20 e i 37 miliardi, da trovare come? Con la riduzione delle tasse? In conclusione, il problema vero non è distribuire ancora soldi (spesa corrente) ma premiare il lavoro, aumentare la produttività (vero tallone d’Achille dell’Italia); razionalizzare, riducendola, l’enorme spesa assistenziale, introdurre il “contrasto d’interessi”, unica formula per ridurre l’enorme evasione fiscale, combattere la criminalità; tutte cose difficili e che necessitano grande preparazione.

Promettere soldi è invece più facile e in campagna elettorale le promesse valgono più dei numeri. Quello che si stenta a comprendere è come gli italiani credano ancora a queste “bufale”  o fake news, che credano ancora che ci saranno più soldi per tanti e meno tasse per tutti

Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi Itinerari Previdenziali

8/2/2018

 
 

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