Perché il contrasto di interessi è un'arma vincente (e la flat tax no)

Flat tax e contrasto di interessi sembrano, almeno all'apparenza, andare nella stessa direzione ma, per un Paese ad alta infedeltà fiscale come l'Italia, proprio la seconda soluzione potrebbe rivelarsi la più efficace per le casse dello Stato, per le famiglie e anche per la battaglia contro lavoro nero e sommerso

Alberto Brambilla

Redistribuire la ricchezza, lotta alle disuguaglianze, riduzione del carico fiscale sui redditi da lavoro e flat taxqueste ormai sono le frasi fatte e i luoghi comuni di una politica che pensa solo alla cattura del consenso elettorale in uno Stato dove ogni tre mesi c’è qualche elezione, ma da almeno 20 anni manca un “progetto nazione”. Che l’imposizione fiscale in Italia sia eccessiva per il combinato di imposte dirette e indirette, non v’è dubbio; il tema però è per chi è così alta e, se non si risponde a questa prima domanda, si continua a parlare a vuoto. Quanto alla flat tax di cui si straparla è bene precisare che i pochi Paesi che l’hanno introdotto sono economie poco significative e soprattutto hanno un sistema di protezione sociale poco sviluppato e poco costoso; alcuni sono ritornati alla tassazione ordinaria altri, come qualche Stato degli USA, sono in bancarotta. 

Nel nostro Paese caratterizzato da un’elevata spesa per welfare (che incide per il 57% delle entrate totali dello Stato), da un elevato grado di elusione ed evasione fiscale (circa il 20% del PIL comprendendo le attività illegali) e da un enorme debito pubblico, l’introduzione della flat tax ha creato forti discriminazioni tra lavoratori autonomi e dipendenti a favore dei primi ma anche tra autonomi in crescita di attività e di fatturato - e che quindi deducono le spese dai ricavi - e quelli che non crescono o crescono poco e che, dunque, non avendo interesse a deduzioni e detrazioni, veleggiano nell'economia "grigia". Anche l’aumento del numero delle partite IVA ampiamente sbandierato e per gran parte dovuto agli oltre 800mila pensionati che lavorano e che, per evitare di sommare pensione e reddito, hanno preferito optare per una partita IVA, così sui redditi pagano solo il 15% e la pensione non fa cumulo. Insomma, la flat tax è un potente motore per fare “nero”.  

Infine, dall’analisi dei redditi 2018 dichiarati nel 2019 emerge che ben il 74% degli oltre 41 milioni di dichiaranti versa un’aliquota inferiore al 15%, mentre un ulteriore 13% dalla flat tax trarrebbe assai poco; ne guadagnerebbero quelli da 50mila euro in su di reddito ma a costoro la flat tax è preclusa altrimenti, si chiedono i nostri politiconi, chi paga le tasse? Appunto vediamo chi le paga: il 43,89% dei contribuenti dichiara redditi da zero o addirittura negativi a 15mila euro lordi l’anno (una media di meno di 7.500 euro l’anno per vivere) e versa solo il 2,42% di tutta l’IRPEF, mentre un altro 13,84% ne corrisponde il 6,56%: significa che il 57,72% degli italiani versa - al netto del bonus Renzi - l’8,98% dell’IRPEF cioè 15,4 miliardi, pari a soli 442 euro in media per ognuno dei 34,84 milioni di cittadini. In pratica, oltre la metà del Paese vive a carico di qualcuno e certamente non è oppressa dalle tasse.

Eppure, ai più importanti “influencer” del Paese - politici, sindacati, Chiesa e media - questa cosa va bene perché parlare di poveri, di redistribuire soldi che non ci sono, di tassare di più gli odiati ricchi, porta consensi e plausi. Per garantire i servizi sanitari - la cui spesa totale è di 115,45 miliardi pari a 1.886,5 euro pro capite al citato 57,72% di italiani - occorrono più di 50 miliardi che sono a carico soprattutto del 13,08% della popolazione con redditi da 35mila euro in su che versa il 59% dell’IRPEF mentre il restante 29,20% è autosufficiente per la sanità che costa - compresa la quota della persona a carico - 2.752 euro, contro un’imposta media pagata al netto del bonus di 4.555 euro, ma non per la spesa per la scuola e gli altri servizi (il rapporto contribuenti/popolazione è 1,459). 

Potremmo proseguire dicendo che il 4,63% dei cittadini versa quasi il 38% dell’IRPEF e che il grosso dell’IVA, IRES, IRAP e ISOST è a carico di pochi ma è preferibile porsi la domanda: dove si annida maggiormente l'evasione fiscale? In Italia ci sono più di 25 milioni di famiglie che comprano una serie di servizi e lavori per la casa, aiuti domestici, mobilità e così via, direttamente dai fornitori finali che sono, oltre ai lavoratori autonomi regolari, un plotone di irregolari, secondo lavoristi, assistiti da ammortizzatori sociali, disoccupati, clandestini e altri. Tolti artigiani e commercianti regolari, possiamo stimare in circa 4 milioni i "sommersi" (dati Istat) che, peraltro, fanno una spietata concorrenza sleale nei confronti dei regolari. Moltiplicate il numero di famiglie per 3 o 4 interventi l'anno e per 3 milioni di soggetti e vengono fuori 300 milioni di prestazioni "IVA evasa"; a questi numeri occorre poi sommare le prestazioni fatte dai regolari ma che diventano a propria volta in "nero" per un ovvio motivo di concorrenza e competitività. Prendiamo un lavoratore medio che guadagna 1.400 euro al mese e che deve imbiancare casa (la stessa cosa vale per lavori idraulici, elettricisti, tappezzieri, meccanici di bici, moto, auto, carrozzieri ecc.); costo dell'intervento 1.000 euro. Il copione nazionale è ormai standard: "Se vuole la fattura sono 1.220 euro ma se non le serve - perché in Italia è indeducibile o se te la fanno dedurre la sconti in 10 anni, idiozia della nostra burocrazia - il costo posso farlo a 900 euro”. Ora, poiché gli italiani non sono né eroi fiscali e né tantomeno idioti, la scelta è scontata: “faccia 900 euro". Il fornitore non ci paga le tasse, l'IVA, i contributi sociali e vive a carico di coloro che le tasse le pagano mentre il capo famiglia, con i 320 euro risparmiati, riesce in quel mese a comprare qualcosa in più per i bambini e per la casa. 

Per aumentare il potere d'acquisto delle famiglie e quindi aumentare in modo razionale i consumi la proposta chiave è il "contrasto di interessi" che riesce a dare una soluzione a tutti questi temi senza causare perdite di gettito per l’erario. L’idea è la seguente: per un periodo sperimentale di 3 anni tutte le famiglie possono portare in detrazione dalle imposte dell'anno il 50% delle spese effettuate con regolare fattura elettronica (incrocio dei codici fiscali) nel limite di 5.000 euro annui per una famiglia di 3 componenti che aumenta di 500 euro per ogni ulteriore componente; nel caso di incapienza sono previste misure compensative (quota asili nido, mense ecc.). I lavori/servizi detraibili sono: manutenzione della casa (lavori idraulici, elettrici, edili, tappezzerie, mobili), manutenzione di auto, moto e biciclette, piccoli aiuti domestici. 

Risultati: 1) la famiglia, indipendentemente dal reddito, risparmia 2.500 euro di IRPEF (è come pagare i lavori, IVA compresa, al 50% che è una bella concorrenza agli irregolari) il che equivale a una quattordicesima mensilità che, per redditi fino a 35mila euro (il grosso dei contribuenti come emerge dall’Osservatorio di Itinerari Previdenziali), rappresenta una riduzione del 50% del cuneo fiscale. 2) Gli irregolari, diffusissimi da noi vengono drasticamente ridotti, si inizia un “circolo virtuoso” e si spezza la catena per la quale nero tira nera; questo è forse il maggiore risultato dell’intera operazione: si riafferma la legalità3) Lo Stato non fa un guadagno stratosferico, anche se le entrate migliorano almeno del 15% che, su un’evasione tra IVA (evasa per 8 fatture su 10), contributi e imposte pari a circa 160 miliardi, vale comunque 24 miliardi (giusto lo sminamento delle clausole IVA). Oltre ai contributi sociali evasi (si stimano 20 miliardi l'anno) incassa anche più IRPEF, IRES, IRAP. 

Per un Paese ad alta infedeltà fiscale il contrasto di interessi è l’unica soluzione possibile: perché non sperimentarla? Quali sono gli ostacoli? Solo politici, ideologici e burocratici. E poi, perché mai gli attuali evasori dovrebbero emergere se si riduce l’IRPEF o si applica la flat tax quando per beneficiarne dovrebbero pagare il 24% di contributi sociali, l’Inail, l’IVA e le altre incombenze fiscali?  Ultima domanda: perché non si è mai fatto se la prima proposta è del 2004? Perché è mancato il coraggio e la voglia di un cambiamento vero, fuori dai lacci della burocrazia e finalmente a favore dei nostri concittadini, soprattutto quelli onesti.

Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 

5/10/2020

L'articolo è stato pubblicato su Il Riformista del 28/9/2020 
 
 

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