Quota 100 e staffetta generazionale: effetto giovani o lavoro sommerso?

Nonostante l'elevato numero di richieste, è ancora presto per capire se Quota 100 possa essere effettivamente definita un successo: alcune riflessioni sui costi della misura, sui possibili esiti dell'auspicata staffetta generazionale e sui rischi di lavoro sommerso

Alberto Brambilla

Quota 100 è un successo?  Per definire se il provvedimento di pensionamento anticipato con quota 100, cioè 62 anni di età anagrafica e 38 di contributi, porterà dei benefici al sistema in termini di staffetta generazionale occorrerà attendere probabilmente qualche trimestre; tuttavia analizzando i dati di flusso delle domande, che non è comunque detto si traducano in altrettante pensioni, possiamo già fare alcune considerazioni. 

 

I costi dell'operazione

Anzitutto i costi dell’operazione. Supponendo a) un numero di optanti per Quota 100 nel triennio sperimentale (2019/20/21) pari a 300.000 (180.000 il primo e 60.00 gli altri due e con durate medie dell’anticipo comprese tra i 4,5 anni e 1,5 anni); b) 180.000 anticipate (in pensione con 42 anni e 10 mesi per i maschi e con un anno in meno per le donne); c) 15.000 aderenti a Opzione Donna,  tra mancato flusso di contributi in entrata nella casse dell’INPS e maggiori spese per le prestazioni anticipate, si può stimare un costo totale dell’operazione attorno ai 30-33 miliardi. Nell’ipotesi che dopo il 2021 Quota 100 non venga rinnovata,  che le anticipate (l’effetto blocco dell’adeguamento alla aspettativa di vita della anzianità contributiva) si concludano nei 6 anni (2019/2024) e che tutto torni, come probabile, alla legge Fornero, gli effetti finanziari - unica buona notizia - si esauriranno nel 2026, quando anche l’ultimo stock di soggetti avrà raggiunto l’età anagrafica di 67 anni e qualche mese (nell’ipotesi di un incremento dell’aspettativa di vita). 

 

La staffetta generazionale

Ma quanti posti nuovi per i giovani potrà creare questo ingente investimento? Considerando che il punto di massima espansione dell’occupazione si è verificato nel maggio/giugno 2018, con 23.345.000 occupati, per poi ritracciare al 31 dicembre 2018 a 23.269.000 (76.000 in meno) e, alla luce dei “flussi mensili” di nuove assunzioni e nuove dismissioni di personale che negli ultimi mesi hanno mostrato un segno negativo, le aspettative di un discreto rimpiazzo dei neopensionati grazie a Quota 100 con giovani sono modeste. Tanto più che siamo in presenza di ciclo economico negativo (incremento 2019 del PIL forse inferiore allo 0,4% e produzione industriale con relativo portafoglio ordini in forte calo e che difficilmente migliorerà nel secondo semestre dell’anno in corso).

In questa situazione, come ampiamento accaduto in passato, le aziende cercheranno di liberarsi (anche con forme di pressione e buoni incentivi) di quanti più lavoratori possono, soprattutto tra coloro che sono difficilmente reinseribili nel nuovo ciclo di produzione perché hanno professionalità obsolete oppure tra quelli che fanno parecchie assenze per motivi di salute o familiari o che sono particolarmente “affaticati”. In sostanza, le categorie previste da APE sociale, che si sarebbero potute “trasferire” a costo zero per lo Stato nei cosiddetti fondi esubero o di solidarietà. 

D’altra parte, se le aziende si devono “alleggerire” di personale in eccesso rispetto al fabbisogno (cosa che sta succedendo dall’anno 2000 al sistema bancario e assicurativo, che ha così “prepensionato” oltre 70mila lavoratori a costo zero per le finanze pubbliche) è più che giusto che paghino le imprese stesse in modo solidaristico e mutualizzato il costo di questo “efficientamento” attraverso i fondi bilaterali. Invece, con Quota 100, l’intero costo che poteva essere posto a carico del sistema produttivo (lavoratori e imprese) sarà pagato dallo Stato e quindi da tutti noi: un’occasione perduta! Era difficile fare questa operazione? No! Sarebbe bastato copiare quanto fatto da noi nel 2000.

 

Effetto giovani o lavoro sommerso?

Risultato? L'uscita della maggior parte dei circa 30mila lavoratori dipendenti del settore privato darà luogo a pochissimi posti di lavoro per i giovani, forse meno di un 10%. Quanto ai 15mila autonomi è più facile che, una volta andati in pensione, intestino l’attività ai familiari e la proseguano dunque in “ombra”;  a molti di questi pensionati, soprattutto al Sud, si dovrà riconoscere anche l’integrazione al minimo per gli scarsi contributi versati. Se consideriamo poi che gran parte delle domande provengono da aree in cui operano piccole e micro-imprese industriali, ma soprattutto dai settori dei servizi e del turismo o dall’agro-alimentare, il divieto di cumulo, che nelle intenzioni del legislatore avrebbe dovuto bloccare l’esodo, darà invece luogo a un incremento del lavoro irregolare.

Restano infine i 32mila dipendenti pubblici che andranno a sguarnire settori vitali come la scuola, la sanità e anche l’INPS. Per questi neopensionati, la “palla” passa al Governo: certo che, per fare lavorare i giovani, dover pagare lo stipendio doppio (uno al pensionato e uno al giovane) non ci pare un grande affare, tenuto altresì conto della grande perdita di professionalità nel trade-off. Non era meglio spendere questi soldi per incentivare la nuova occupazione con il super-ammortamento del 130%, peraltro previsto nel programma della Lega e non trasferito nel famoso “contratto”? Considerando un incentivo medio di circa 17.000 euro, con 30 miliardi si sarebbero potuti finanziare oltre 1.700.000 posti di lavoro. Quanto alla decontribuzione totale al Sud si denota (come per il governo Renzi) scarsa memoria e poca pratica; questo sgravio lo abbiamo avuto per 20 anni fino al 1995: non ha portato un posto di lavoro in più! Solo altri costi per le finanze pubbliche e,  così, pure il divieto di cumulo tra redditi da lavoro e quelli da pensione, enorme produttore di lavoro “nero”. 

Infine, vista la rapidità nell’arrivo delle domande, è ipotizzabile che per la fine di marzo saranno superate agevolmente le 110.000 richieste di Quota 100, le 40.00 anticipate e le 10.000 opzione donna: ciò significa che entro la fine di quest’anno avremo circa 250.000 lavoratori attivi in meno e altrettanti pensionati in più, con un pericoloso deterioramento del rapporto attivi/pensionati, che calerà di circa l’1,5%, e un aumento del saldo negativo tra entrate contributive e uscite per prestazioni.

Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 

4/3/2019 (ultimo aggiornamento l'11/3/2019)

 
 
 

Ti potrebbe interessare anche