Troppa euforia: all'Italia del PNRR servono più merito, doveri e sviluppo vero

Le risorse del PNRR sembrano aver spinto politica, sindacati e media verso un'insensata euforia per il futuro del Paese: difficilmente infatti gli stanziamenti potranno tradursi in sviluppo, in assenza di interventi mirati a contenere il debito pubblico e a migliorare organizzazione del lavoro, produttività e salari

Alberto Brambilla

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) - che prevede un budget per l'Italia di circa 200 miliardi, di cui circa 125 di prestiti e circa 70 di sovvenzioni, oltre a 30 miliardi di Fondo supplementare nazionale per finanziare interventi non previsti dal Piano - ha creato un clima di euforia, forse eccessivo e troppo ottimistico nella politica e tra gli operatori economici.

La vigorosa ripresa 2021, ormai per buona parte consolidata nonostante i problemi pandemici che condizioneranno negativamente le ultime due settimane di dicembre, e le prospettive di crescita intorno al 4,3% del PIL per il 2022 hanno trasformato l'euforia da teorica a pratica, con immediata richiesta di interventi per alleggerire le bollette energetiche oltre i 5 miliardi già stanziati, aumentare gli ammortizzatori sociali e prevedere altri bonus (divorziati e separati è l'ultima frontiera di Salvini) o, ancora, la rottamazione delle cartelle esattoriali, cioè il solito condono mascherato richiesto da quella parte di politica che contemporaneamente vorrebbe anche una riduzione delle tasse. Persiste insomma il mito pagano della botte piena e della moglie ubriaca o quello più religioso della moltiplicazione dei pani e dei pesci.

Proviamo allora a mettere qualche punto fermo a questa euforia. a) Tutto andando bene, ma proprio tutto, alla fine del 2022 saremo forse allo stesso livello di PIL del 2019, un pochino ancora meno del 2008 ma con un debito pubblico, che dal 132% del Prodotto Interno Lordo, è schizzato al 154% o più, rispetto al 99,8% del 2008, e con oltre 300 miliardi in più da restituire rispetto al 2019. b) I redditi e i salari crescono poco, anzi negli ultimi trent’anni (tra il 1990 e oggi), l’Italia è l’unico Paese OCSE in cui le retribuzioni medie lorde annue sono diminuite in termini reali del 2,9%: un risultato che testifica, semmai ce ne fosse bisogno, il massimo del fallimento dei sindacati e della politica. Tutto questo ovviamente si riflette e ancor più si rifletterà sulle pensioni: salari poveri possono dare solo pensioni povere; è inutile che il sindacato continui a chiedere aumenti delle pensioni, farebbe meglio a far crescere i salari ma ci arriveremo tra poco. 

c) Se siamo il fanalino di coda per salari e redditi, lo siamo anche per l'occupazione: ultimi in tutte le classifiche per tasso di occupazione complessivo, femminile e dei giovani, appaiati alla Grecia, distanti 10 punti dalla media UE e a un abisso dai Paesi del centro e nord Europa. In Germania su 83 milioni di abitanti ne lavorano 40 milioni; in Francia che ha una popolazione numericamente simile a quella italiana, quelli che lavorano sono 34 milioni; in Italia su 36,5 milioni di cittadini in età di lavoro solo circa 23 milioni quelli che effettivamente lavorano. Come si fa a mantenere il welfare, che è uno dei più costosi tra i Paesi avanzati (pesa per il 56% sull'intera spesa pubblica, interessi sul debito compresi), se solo poco più di un terzo dei cittadini italiani lavora?! d) Ultimi siamo anche per incremento del tasso di produttività e arretrati di almeno 30 anni quanto a organizzazione del lavoro: nel 1990 un muratore con 60 anni e più andava sui ponteggi e oggi pure, altro fallimento sindacale.

Mi fermo qui e faccio le seguenti domande: 1) Alla luce di questi dati c'è ancora da essere euforici? 2) Quali sono le azioni messe in campo per diminuire il debito, aumentare i redditi, l'occupazione, la produttività e, in una parola, la crescita oltre il 2023? 3) Hanno capito politici, parti sociali e media che siamo alla fine di un ciclo e all'inizio di un nuovo periodo, che ci accompagnerà fino al 2050, caratterizzato da una profonda transizione demografica, peraltro, ormai quasi tutta scritta (salvo l’immigrazione), da una transizione energetica e ecologica che stravolgerà il nostro modo di consumare, viaggiare, produrre e vivere? Hanno valutato i rischi dell’inflazione, del tapering e del nuovo Patto di Stabilità?

A sentire le proposte dei sindacati, della politica e del Ministro del Lavoro parrebbe di no, sembra di essere nel secolo scorso. Pensioni a 62 anni e 20 di contributi, cassa integrazione anche per le aziende “morte”, più mesi di NASpI e meno contributi (un'altra moltiplicazione di pani e pesci), zero politiche attive, più assistenza; sciopero perché Landini vorrebbe ridurre le tasse a quelli che dichiarano redditi fino a 15mila euro (ben il 44% dell’intera popolazione), che non pagano un euro di IRPEF e sono totalmente mantenuti dal resto della popolazione. Ma quello che è grave è dare i sussidi - siano essi ammortizzatori sociali o reddito di cittadinanza - e poi lasciare totalmente soli i lavoratori e le persone in difficoltà. Nessun progetto di banca dati, di monitoraggio e controllo, di legare le prestazioni a corsi obbligatori per recuperare competenze per trovare un lavoro e, nel contempo, obbligare tutti i beneficiari a dedicare qualche giorno ogni settimana a lavori di utilità per la propria comunità. E per quelli, tanti, che hanno “problemi” (gli inoccupabili) prevedere la presa in carico obbligatoria da parte dei servizi sociali per risolvere le dipendenze o le patologie e, se non c'è collaborazione, chiudere tutti i sussidi, indicando i soggetti renitenti nella banca dati dell'assistenza (ancora tutta da fare in Italia, mentre c'è e funziona bene nei Paesi avanzati). Ma soprattutto occorre iniziare dalla terza media a insegnare educazione civica, finanziaria, previdenziale e cominciare a spiegare che per vivere bisogna lavorare (ti guadagnerai il pane con il sudore della tua fronte), principio fondamentale che ormai non si spiega più neanche in chiesa. È tutto solidarietà, un volemose bene, un dare a tutti perché nessuno resti indietro. Poi, per finanziare queste spese, si dimentica il merito e si prendono i soldi da chi li ha.

Se non verranno rimossi i gravi ritardi italiani, quali insufficienti redditi, scarsa occupazione, organizzazione del lavoro vetusta, semplificazione delle norme e politiche attive al posto dell’assistenzialismo, sarà difficile che l’euforia su trasformi in sviluppo vero. Governo e parti sociali devono da subito porsi gli obiettivi economici e sociali del PNRR, vale a dire incremento dell'occupazione e dei redditi con numeri precisi; sindacati e imprese negozino una nuova organizzazione del lavoro; i ministeri mettano a punto in poche settimane (tanto si conoscono già le necessità) i percorsi scolastici, scuole professionali in primis, per favorire l'occupazione e la impiegabilità delle persone. Ma soprattutto vanno tagliati tutti i sussidi che in soli 12 anni hanno raddoppiato il numero dei poveri, ridotto quello dei lavoratori e aumentato i costi a carico della collettività del 60%.

Senza lo svecchiamento della contrattazione e l’accantonamento di obsolete forme di assistenza, dubito che dopo il PNRR ci sarà ancora euforia. 

Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 

3/1/2022

L'articolo è stato pubblicato su Il Messaggero del 22/12/2021
 
 

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