Tutto tornerà come prima

Una volta superata la fase più acuta della pandemia di COVID-19 la tentazione di lasciarsi tutto alle spalle potrebbe essere forte. Eppure, non dovrebbe essere certamente così per scienza e politica che hanno molti insegnamenti da trarre dall'esperienza coronavirus: uno su tutti, la necessità di passare dalla "narrazione" ai fatti

Alberto Brambilla

Ormai siamo al coro unanime, un comune sentire, un misto di ignoranza, superstizione e conformismo; una massificazione del pensiero, prono anche a farsi schedare con le app e perdere le conquiste prime dell'essere umano, cioè la libertà personale e la tutela della propria intimità per la paura del virus. Dopo lo slogan "state a casa", adesso imperversa "nulla sarà più come prima". E, invece, tutto tornerà come prima e la storia ce lo ricorda.

Senza tornare al 1300 e alle terribili pestilenze che decimarono la popolazione europea, basterà ricordare la spagnola del 1918. Anche allora “state a casa e nulla sarà più come prima” e invece tutto è tornato normale, e anche più di prima, nonostante i morti siano stati tra i 50 e i 100 milioni. E neppure l'asiatica del 1957 (2 milioni di morti), la Hong Kong del 1968, la SARS del 2002-03, la cosiddetta “influenza suina” del 2009 e la MERS del 2012.13 ci hanno fatto cambiare vita. Anzi, la popolazione mondiale è passata da meno di 1 miliardo nel 1800 all'1,7 miliardi del 1918 e, dunque, ai 7,4 miliardi di oggi, e la circolazione di persone e merci (la globalizzazione) ha toccato livelli mai visti dell'umanità. Domani sarà uguale none appena saranno note le cure ci dimenticheremo presto di questo mostro.

Ma si è trattato di un mostruoso virus o il mondo della scienza, - eccessivamente dipendente da organizzazioni come OMS, FDA (l'agenzie del farmaco USA), EMA, (l'agenzia europea), AIFA, Istituti superiori di sanità (ISS) - si è fatto trovare burocratizzato, politicizzato, impreparato e, forse, succube dei potentati multinazional-farmaceutici? La risposta ce la danno i medici in prima linea, esatto opposti di quelli che vedete tutte le sere in TV, i medici che lottano tutti i giorni e vedono morire in modo terribile per asfissia moltissimi pazienti, uomini e donne con le loro storie, i loro affetti e le loro speranze di vita. Per loro la ricerca di soluzioni è di vitale importanza; pur di salvare vite, si sperimentano tutti i farmaci possibili già noti: antivirali, antimalarici, farmaci contro l’AIDS, e ora l’eparina il cortisone e così via. Ma le "vestali della scienza" si riservano: occorre la sperimentazione.

Un giornalista chiede al Presidente del Consiglio superiore di sanità (in quei giorni morivano 700 esseri umani ogni 24 ore): “Non si potrebbero sperimentare cure nuove o utilizzare vecchi farmaci pur di non far morire le gente"? Con una flemma olimpica il nostro risponde che non è possibile; che la scienza deve essere certa e, quindi, no a queste cure (bollate anche da 2 noti volti televisivi come fake). Ma "Professore - chiede preoccupato il giornalista - quando si potranno usare"? Come il giudice descritto dal sommo De André nell'Antologia di Spoon River, lo scienziato sentenzia: “Forse tra 4 o 5 settimane, dipende”. E la gente continua a morire ma non si sa il motivo: lo potremmo scoprire con le autopsie, le uniche che possono dire dove il virus colpisce e dove curare, ma la scienza anche qui non si espone, forse sa che le sale autoptiche "di livello virus" sono poche e quella di Milano è stata chiusa il 30 marzo dalla Procura. Invece, la speranza arriva proprio dai medici in prima linea che forse, senza aspettare le autorizzazioni dei burocrati, hanno trovato cure per evitare di intubare pazienti e per guarirli.

Nulla cambierà dopo che avremo trovato le cure giuste come per polmonite, influenza, infarti e così via, ma due cose invece dovranno cambiare. La prima è che la scienza scenda dal piedestallo e ammetta tutta la sua incapacità, faccia mea culpa per l'essere riuscita a dare come unico consiglio in oltre cento anni quello di "stare a casa" e che chieda scusa alle centinaia di migliaia di morti per malattie respiratorie, che forse respiratorie non erano (oltre 53mila morti nel solo 2019); che sia più umile, torni in laboratorio o in corsia, si dimetta dagli incarichi politici e che finalmente si mettano all'ISS i medici che hanno dato valore aggiunto alla lotta al virus. La seconda cosa che deve cambiare è il rispetto per la natura. Noi umani dobbiamo comprendere che non siamo i padroni della madre Terra, siamo solo suoi ospiti e, se esageriamo, la natura ce lo fa comprendere. Ci abbiamo messo 1.800 anni a raggiungere i 980 milioni di terrestri e 150 per passare da 1,6 a 7,4 miliardi: che vogliamo fare? Far figli per raddoppiarci e poi costringerci, come i topi a sbranarci tra di noi per cibo, acqua, risorse naturali? Per fare come la Cina che massacra una civiltà millenaria come il Tibet per avere il controllo sull'acqua che nasce dai monti di quel paese, e tutti zitti? Ecco cosa deve cambiare: il rispetto per la natura e per i nostri consimili

La politica, oltre che smettere di far campagna elettorale perenne anche sulla salute, dovrà passare dalla narrazione ai fatti: riorganizzare la sanità, gli ospedali ma soprattutto il territorio, produrre i materiali sanitari e fare ricerca togliendola alle grandi multinazionali. Queste per operare devono fare profitto; lo Stato invece può investire senza fini di lucro. L'enorme guadagno sarà quello di prevenire le pandemie che arriveranno sicuramente nei prossimi anni, o curarle al meglio. Saranno investimenti che produrranno grandi risparmi e ridurranno il dolore per i troppi morti.

Alberto Brambilla, Consigliere economico alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e 
Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

25/5/2020

L'articolo è stato pubblicato su Libero Quotidiano del 20/5/2020
 
 
 

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