Un Paese in perenne campagna elettorale

Elezioni perenni, competizione politica e troppe piccole amministrazioni frenano crescita e sviluppo: il punto di vista di Alberto Brambilla, Presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

Alberto Brambilla

Tra i tanti problemi che affliggono il nostro Paese e ne costituiscono un limite allo sviluppo e alla crescita, vale la pena di affrontarne almeno due: 1) la grande instabilità politica, causata in parte dalle leggi elettorali, ma soprattutto dal perenne stato di “campagna elettorale; 2) la bizantina, complessa e parcellizzata macchina amministrativa.

Veniamo al primo punto: dal febbraio 2013 al prossimo gennaio 2020 (7 anni), in Italia si sono tenute/si terranno ben 22 tornate elettorali tra europee (2), politiche (2) e amministrative (18) per regioni, province e province autonome, vale a dire 3,14 campagne elettorali ogni anno (5 nel 2013 e 2018, 4 nel 2019, 3 nel 2014 2 nel 2017 e 1 nel 2015 e nel 16) che hanno riguardato 218 amministrazioni centrali e periferiche, con esclusione dei comuni. In pratica, eccezion fatta per  il 2015 e 2016, ogni anno siamo stati sottoposti a 7 mesi medi di campagna elettorale e di discussione post elettorale.

Ma, nel contempo, non ci siamo fatti mancare nulla, perché nello stesso periodo si sono avvicendati ben 5 governi (Letta, Renzi, Gentiloni, Conte 1 e 2): 5 governi in 7 anni, non è poco! Giusto per memoria: in questi 7 anni la spesa sociale è passata da 92,7 a oltre 120 miliardi, con un incremento medio annuo del 5,3% di gran lunga superiore all'inflazione e al PIL e per un costo cumulato a carico della collettività di 750 miliardi, frutto delle innumerevoli promesse fatte sia in sede elettorale sia dai ministri che, con grande velocità, si sono avvicendati (e sulla cui professionalità e competenza, ma anche sulla semplice capacità di far di conto, ci sarebbe da discutere).

Basti pensare a reddito e pensione di cittadinanza, Quota 100, flat tax, pensioni a 1.000 euro al mese, assegno di 1.200 euro l'anno per ogni nato fino ai 18 anni, pensione di garanzia, quattordicesima mensilità, taglio al fatidico “cuneo fiscale” (il nuovo mantra della politica), e così via. E infatti, sempre nel periodo in esame, nonostante i 90 miliardi di euro risparmiati grazie a Draghi e al suo QE, abbiamo accumulato ben 222 miliardi di nuovo debito pubblico: non male in 7 anni, definiti “di austerity” della politica; pensate se non ci fosse stata l'austerity della “cattiva” Europa quanto debito avremmo lasciato da pagare ai nostri ragazzi.

Una domanda: è andato tutto bene per i politici? E la povertà, con tutti questi soldi, è diminuita (o addirittura abolita)? Per la politica non è andata bene; a livello nazionale negli ultimi 4 anni c'è stata una “volatilità elettorale” enorme, molto più intensa di quella dei mercati finanziari: il Parito Democratico è passato dal 40% di gradimento a meno della metà in brevissimo tempo; stessa cosa per il Movimento 5 Stelle, sceso dal 34% a meno della metà, mentre la Lega ha in un anno più che raddoppiato i consensi. Ma neppure alle elezioni è andata bene, perché su 209 elezioni ci sono stati ben 131 cambi di governo a livello centrale e locale, cioè nel 63% dei casi gli elettori hanno “mandato a casa” - per usare un gergo molto in voga nella politica di oggi - quelli che governavano. È probabile che memori di questa situazione PD, Leu e M5S abbiano preferito restare ai loro posti.

E com'è andata per i cittadini, il “popolo” cui si appellano i politici per poter agguantare l'agognato scranno? A vedere i consumi, il PIL e il sentiment della popolazione, si direbbe che nonostante il ricorso alla vecchia formula panem et circenses le cose non siano migliorate. Che fare, dunque, visto che questo stato di perenne campagna elettorale è così dannoso? Basterebbe accorpare, con un po’ di tempo, le elezioni in 2 tornate ogni 5 anni; risparmieremmo tanti soldi e avremmo (forse) politici che, anziché girovagare per il Paese promettendo tutto a tutti, starebbero al lavoro. 

Il secondo tema che frena l'attività amministrativa e, quindi, l'intervento pubblico in economia e di conseguenza – keynesianamente - lo sviluppo, è l’eccessiva parcellizzazione delle nostre amministrazioni locali, nonché l’ormai obsoleta definizione di regioni/province autonome, a statuto speciale o meritevoli (come Valle d'Aosta o le province di Trento e Bolzano) di mega-trasferimenti a carico della collettività. Su 7.978 comuni (si veda la tabella a seguire), quelli che hanno meno di 1.500 abitanti (meno di una microimpresa) sono 2.846 (il 35,7% del totale), con 2,51 milioni di abitanti complessivi (il 3,6% sul totale); da 1.500 a 3.000 (una PMI) ci sono 4.825 comuni (il 60,5%) con oltre 31 milioni di abitanti. Sopra i 3.000 troviamo solo 307 comuni (il 3,8%) con oltre 27 milioni di abitanti (il 45% del totale). È così che i poli industriali (ogni “comunello” vuole il suo), le rotonde, le strade e così via restano divisi al confine, e grandi opere se ne vedono poche e con realizzazioni lentissime. Lasciamo pure i nomi dei comuni, ma o utilizziamo le ex province (in cerca d'autore) o predisponiamo consorzi di comuni da non meno di 20mila abitanti: i poli amministrativi dotati di piani regolatori e di sviluppo, con un sindaco e uffici unificati, si ridurrebbero a meno di un terzo, con grande beneficio per l'efficienza e il costo della Pubblica Amministrazione, e anche meno guerriglie elettorali.

Lo stesso discorso andrebbe fatto per le ex province, che non dovrebbero avere meno di un milione di abitanti; si ridurrebbero a meno di 55. E così arriviamo anche alle regioni: che senso ha avere Valle d'Aosta (126.202 abitanti), Molise (308.493), Basilicata (567.118), Umbria, Trentino-Alto Adige, Marche, Abruzzo, Liguria, Calabria? Regioni tanto piccole ma con gran parte dell'occupazione nella Pubblica Amministrazione. Si potrebbe arrivare, come un tempo aveva previsto la fondazione Agnelli, a non più di 11 regioni. Ma con elezioni ogni massimo 2 anni e mezzo e con un'amministrazione più compatta, di quanto aumenterebbe il livello di sviluppo e di quanto diminuirebbe la litigiosità elettorale?

Sulla stabilità elettorale citofonare Portogallo, sul resto il beneficio sarebbe molto rilevante per i giovani e per le finanze pubbliche.

Tabella 1 – Numero di comuni italiani per numero di abitanti 

Numero di comuni italiani per numero di abitanti

Elaborazioni a cura del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

Alberto Brambilla, Centro Studi e Ricerche Presidente Itinerari Previdenziali

21/10/2019

 
 
 

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