Un sistema fiscale più equo? Meno diritti e più doveri

Tra i temi più ricorrenti nell'agenda della politica italiana spicca spesso la riforma fiscale e in particolar modo dell'IRPEF: progressività e riduzione del carico su lavoro, fasce deboli e classe media le parole all'ordine del giorno. Senza tuttavia troppa attenzione ai dati che suggerirebbero altre direzioni e soluzioni...

Alberto Brambilla

La riforma fiscale con particolare riguardo all’IRPEF è ormai diventata un tema ricorrente. La descrizione è quella di un Paese oppresso dalle tasse e quindi le parole d’ordine di destra, centro e sinistra (ma ha ancora un senso questa tripartizione?) sono: “progressività”, riduzione del carico fiscale sul lavoro, per le fasce deboli e per la classe media. Ma questa visione corrisponde alla realtà? E, seconda domanda, come si coniuga una riduzione delle imposte con la nostra altissima spesa sociale e assistenziale? Insomma, se riduciamo le tasse chi pagherà il generoso welfare? Cerchiamo, sulla base dei dati MEF, elaborati dal Centro Studi di Itinerari Previdenziali, di analizzare la realtà del 2018, ultimo anno di cui si dispone di tutte le informazioni economiche.

Dalle dichiarazioni dei redditi 2018, dichiarati nel 2019 ed elaborati nel giugno dello scorso anno, esce la fotografia di un Paese diverso e meno oppresso dalle tasse di quello narrato: a) su 60,360 milioni cittadini residenti in Italia a fine 2018, i contribuenti dichiaranti sono 41.372.851 ma i versanti, vale a dire coloro che pagano almeno 1 euro di IRPEF, sono stati 31.155.444 (434.622 in meno rispetto al 2011). Quindi, quasi la metà degli italiani - 29,204 milioni pari al 48,38% - non ha redditi e vive a carico di qualcuno: una percentuale atipica per un Paese del G7, dove per l'azzardo si “giocano" 107 miliardi più altri 20 irregolari ogni anno. Insomma, giochiamo di più e abbiamo più locali (210mila tra ricevitorie, sale da gioco, bingo, scommesse, slot, etc.) dell’intero servizio sanitario. 

b) Chi paga l’IRPEF? Dalla tabella in pagina si vede che i contribuenti delle prime due fasce di reddito (fino a 7.500 e da 7.500 euro a 15mila) sono 18.156.997 pari al 43,88% del totale contribuenti (cui corrispondono 26,490 milioni di abitanti), e versano il 2,42% di tutta l’IRPEF, vale a dire 4,15 miliardi di euro (meno di 32 euro a testa, 22 considerando i cittadini), e di conseguenza si suppone anche pochissimi contributi sociali, per cui - con molte probabilità - saranno dei futuri pensionati assistiti dalla collettività. I dichiaranti tra i 15.000 e i 20.000 euro di reddito lordo sono 5,724 milioni, versano il 6,56% dell’IRPEF totale, pari a 11,255 miliardi, e un'imposta media di 1.966 euro, che si riduce a 1.348 euro per cittadino, un importo ancora insufficiente a coprire per intero anche il solo costo pro capite della spesa sanitaria (1.886,51 euro). c) Questi primi 3 scaglioni di reddito, che rappresentano circa il 60% della popolazione, versano 15 miliardi di IRPEF ma ne ricevono per la sola sanità 50,325, per l’assistenza sociale altri 70 miliardi e per l’istruzione circa 54 miliardi. Insomma, solo per queste tre funzioni - poi c’è tutto il resto - la restante parte degli italiani (soprattutto i 5,4 milioni) versa in redistribuzione a questo 60% di popolazione 174,3 miliardi

Tabella 1 - IRPEF 2018, tutti i contribuenti persone fisiche per scaglioni di reddito

Tabella 1 - IRPEF 2018, tutti i contribuenti persone fisiche per scaglioni di reddito

Fonte: elaborazioni Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali su dati MEF

d) Considerando il gettito IRPEF 2018, al netto del bonus Renzi e di tutte le agevolazioni, pari a 171,63 miliardi di euro tra IRPEF ordinaria (l’89,93% del totale), addizionali regionali (7,17% del totale) e addizionali comunali (2,89% del totale), il grosso del carico fiscale e del finanziamento del nostro welfare state grava sul 13,07% di contribuenti con redditi da 35mila euro in su, che versano circa il 58,95% di tutta l’IRPEF e che non beneficiano, se non marginalmente, della miriade di bonus, sconti, agevolazione, detrazioni e deduzioni: dato su cui riflettere quando si affronta lo spinoso tema della riforma fiscale. In dettaglio sopra i 300mila euro di reddito lordo annuo dichiarato si trova solo lo 0,10% dei contribuenti, 40.880 soggetti che pagano il 6,05% dell’imposta complessiva; lo 0,10% paga più del doppio del 43,89% degli italiani! Tra 200mila e 300mila euro si colloca invece lo 0,14 %dei contribuenti che versa il 3,06% di tutta I’IRPEF, mentre con redditi lordi sopra i 100mila euro c’è l’1,22% dei contribuenti, che tuttavia paga il 19,80% dell’IRPEF. Sommando a questi scaglioni anche i titolari di redditi lordi da 55.000 a 100mila euro, si ottiene che il 4,63% dei contribuenti paga il 37,57% dell’imposta totale e, considerando i redditi dai 35.000 ai 55mila euro lordi, si arriva al famoso 13,07% che paga il 58,95% di tutta l’IRPEF. Volendo infine ricomprendere anche il 7,77% dei contribuenti con redditi dai 29 ai 35mila euro, che tuttavia versa imposte non sufficienti a pagarsi tutti i servizi, si ottiene che il 20,84% versa quasi il 72%% di tutta l’IRPEF, il 21,43% dei contribuenti tra 20 e 29 mila euro l’anno versa il 19,54%, ancora insufficiente per pagarsi tutti i servizi (3.782 euro per contribuente e 2.593 euro per cittadino), mentre il restante 58% circa paga solo l’8,98%. 

e) Un dato interessante è la percentuale di aliquota media pagata da ogni singolo scaglione di reddito: fino a 12.000 si aggira intorno al 2%, passa tra il 5% e il 9% per redditi da 12 a 20 mila per salire al 16% fino a 29mila; sopra i 29mila e fino ai 40mila si va dal 19% al 21%, mentre poi si sale fino al 40%. Se l’idea, ad esempio, fosse quella di ridurre le aliquote medie per i redditi tra i 20 e i 35mila euro di 3 punti percentuali, le entrate scenderebbero di circa 10 miliardi. A pagare il conto sarebbe ancora quel 13% che, certamente, si vedrebbe ridotto il già esiguo numero di deduzioni e detrazioni (polizze sanitarie, fondi pensione, ristrutturazioni e poco altro), con il rischio - paventato da alcuni partiti politici . di doversi pure pagare la sanità pubblica in quanto ricchi.

Perché uno dovrebbe pagare le tasse per poi non ricevere alcun servizio? Perché assumersi responsabilità (doveri) di lavorare anche oltre le canoniche 37 ore senza essere pagati quando ci si ammala o si riposa in ferie per poi dover pagare anche per gli altri che, oltretutto, beneficiano di questo enorme flusso di trasferimenti (il 20% dell’intera spesa pubblica)? Non sarebbe meglio introdurre, seppur in via sperimentale per 3 anni, il contrasto di interessi tra chi compra la prestazione e chi la fornisce, consentendo a tutte le famiglie di portare in detrazione dalle imposte dell'anno il 50% delle piccole spese domestiche - lavori idraulici, elettrici, edili, manutenzione di auto e moto, erc - effettuate con regolare fattura elettronica (incrocio dei codici fiscali), nel limite di 5.000 euro annui per una famiglia di 3 componenti? Limite che aumenta di 500 euro per ogni ulteriore componente e per il quale, nel caso di incapienza, si potrebbero prevedere misure compensative (quota asili nido, mense ecc.). Si favorirebbe l’emersione del nero con benefici concreti per le famiglie, aumentandone il potere d’acquisto e favorendo i consumi, a favore dei nostri concittadini, e soprattutto di quelli onesti. Un po' meno diritti e più doveri aiuterebbero il Paese.

Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

1/3/2021

L'articolo è stato pubblicato su Il Messaggero del 22/2/2021
 
 

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