Una pesante eredità: COVID-19 e quei risultati mancati malgrado le chiusure

Per quanto i dati di aprile inizino a segnalare un'importante inversione di tendenza, il governo Draghi e il Paese tutto scontano ancora una pesante eredità nella gestione della pandemia di COVID-19: nell'ultimo anno l'Italia non è stata affatto un buon modello sotto il profilo né sanitario né economico

Alberto Brambilla

Dal nuovo aggiornamento sugli effetti sanitari ed economici di SARS-Cov-2 sul nostro Paese elaborato dal Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali risulta evidente la pesante eredità lasciata dal governo Conte II sia al governo Draghi, che peraltro ha radicalmente cambiato la squadra operativa, sia al Paese quanto a numero di decessi e disastrosa situazione economica.

E pensare che nelle lunghe conferenze stampa l’ex premier presentava l’Italia come un modello per la lotta  a COVID-19 cercando di nascondere le inefficienze e le tante bugie dette, a partire dalla dichiarazione del 27 gennaio 2020 in cui affermava che “l’Italia è prontissima a fronteggiare l’emergenza avendo adottato misure cautelative all’avanguardia”. Il 3 febbraio, a Radio Capital, Speranza confermava “sul coronavirus non bisogna creare allarmismi, perché la situazione è sotto controllo, stiamo parlando di numeri residuali". Scopriremo poi che non esisteva alcun piano pandemico: c’era solo quello del 2006 neppure aggiornato al precedente SARS-CoV-1 del 2002/3 o alla  pandemia influenzale A/H1N1, “la suina” del 2009 dichiarata pandemia dall’OMS che invitava ad adeguare i piani anti-pandemici (piani sui quali finalmente farà luce la Procura di Bergamo) e alla MERS 2012/13. E così, fino a maggio inoltrato dello scorso anno, siamo stati senza mascherine, DPI, gel mentre i medici lottavano a “mani nude” contro il virus. Il “modello Conte” poi ha fallito anche sugli acquisti di mascherine protettive se è vero che i sequestri di prodotti inefficaci e dannosi si susseguono, a cominciare da quello di 60 milioni di pezzi sequestrati dalla Guardia di Finanza. Ma quante vite umane avremmo salvato se al posto dell’inesperienza e incapacità dell’uno vale uno, ci fossero stati Draghi, Figliuolo e Curcio?

E veniamo ai risultati. Itinerari Previdenziali per i principali 30 Paesi ha analizzato 4 parametri-base ricavati dai dati del Fondo Monetario per la parte economica e dalla John Hopkins University per quelli sanitari. Nel dettaglio, il numero dei decessi ogni 100mila abitanti, per valutare la risposta alla crisi sanitaria; la variazione del PIL nel 2020 per misurare le conseguenze economiche degli interventi dei vari Paesi (ad esempio, lockdown); il deficit 2020, che indica quanto ogni Paese si è indebitato per far fronte alla pandemia; l’incremento del debito pubblico nel 2020 anche in rapporto al PIL. Il presupposto di partenza è semplice: un Paese che ha fatto tante chiusure, bloccato commercio e produzione, perso molto in termini di PIL e fatto tanto debito dovrebbe almeno aver ottenuto buoni risultati sanitari nella lotta al virus, dunque meno morti. Viceversa, chi ha chiuso poco - e, di conseguenza, ha esposto maggiormente la popolazione ai contagi - dovrebbe avere registrato più decessi e più problemi sanitari. A ognuno di questi indicatori, è stato assegnato un punteggio. 

In base ai dati aggiornati al 30 marzo, il nostro Paese si classifica: a) al terzo posto (tra i peggiori) per numero di decessi ogni 100mila abitanti (178,60), battuto dal Belgio con 200,46 e Regno Unito con 190,76. Seguono USA (168) Portogallo, Spagna e Messico (160), distanziando gli altri Paesi. b) L'Italia è all'ottavo posto per perdita di PIL nel 2020, preceduta da Iraq (12%), Spagna (11,1%), Argentina, UK, Portogallo e Grecia (9,5%), e c) al dodicesimo posto per deficit, dove spiccano Canada e USA con circa il 19%, seguiti da Brasile, Iraq e UK con una pecentuale tra il 17% e il 16%. d) Siamo al terzo posto per incremento del debito pubblico, superati dal Giappone che nel 2020 ha avuto un aumento del 28,2%, e dalla Spagna con il 27,6% contro il nostro 27%; seguono il Canada con il 26%, UK e USA con il 22% e la Francia con il 20%. Il risultato finale? In questa classifica otteniamo il terzo peggior piazzamento con un indicatore di 20,37, preceduti da UK (21,88) e Spagna (21,74) e tallonati dal Belgio.

Per avere una misura “dinamica” e prospettica della risposta a COVID-19 di ciascuno dei Paesi monitorati, lo studio introduce poi altri 2 indicatori: l’indice di mortalità, cioè il numero di decessi registrati rapportati al totale dei contagiati, e il numero di vaccinati ogni 100 abitanti. Per l’indice di mortalità il nostro Paese si classifica al quarto peggior posto con un valore pari al 3,1%, superato però da Paesi non propriamente esemplari: Messico (9,1), Egitto (5,9), Cina e Iran. Quanto al numero di vaccinati (fonte: Our World in Data, People vaccinated per hundred) al 30 marzo eravamo appena sopra la media con l’11%, superati da Israele (60,4), UK (45), USA (28), Portogallo, Francia e appena prima della Spagna. In definitiva, quello che è certo è che non siamo un modello: l’eredità è pesante e ne subiremo le conseguenze per almeno i prossimi 2-3 anni.

Tabella 1 - COVID-19, indice di performance aggiornato al 31 marzo 2021

Fonte: elaborazioni a cura del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

Fortunatamente, i dati di fine marzo e dei primi giorni di aprile fanno invece segnare un’inversione di tendenza per quanto riguarda i vaccini, sull’organizzazione in generale del contrasto alla pandemia e anche sul dire schiettamente la verità agli italiani: su quest’ultimo aspetto Draghi ha già fatto il primo miracolo. 

Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 

28/4/2021

 
 
 

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