COVID-19, mismatch e politiche attive: quale futuro per il mercato del lavoro italiano?

Il 30% dei disoccupati italiani rischia di essere escluso dal mercato del lavoro: in parte sono professionalmente inidonei, in parte non accettano le offerte di lavori disponibili. Ecco perché, senza politiche attive mirate, sarà difficile passare dall'assistenza alla ripresa dell'occupazione

Claudio Negro

Tono molto soddisfatto dei sindacati per l’accordo con governo e imprenditori per l’ulteriore proroga del divieto di licenziare (anche se in realtà si sono aggiunte solo le aziende che hanno tavoli di crisi aperti al Ministero). Avranno pensato: "Forse tiriamo a fine anno prima del botto"! E poi - chiaramente pensato ma non detto - con la riforma degli ammortizzatori sociali di Orlando chissà che non arrivi qualche nuova infornata di cassa integrazione. Dopodiché, qualunque cosa dovesse accadere, che succeda il più tardi possibile...

Vorrei provare a fare qualche conto circa la consistenza di quel “dopo” e azzardare una panoramica sui mezzi con cui si potrebbe trattarlo.

 

I dati sull'occupazione post COVID-19

Innanzitutto è bene cercare di quantificare lo stock di “disoccupati COVID” con cui faremo i conti, sommando i licenziati ai licenziandi del dopo-blocco, meno i riassorbiti nel frattempo. Partiamo dal dato ISTAT di maggio che segnala 2.620.000 disoccupati, compresi (secondo le nuove regole UE) coloro che sono in CIG da oltre 3 mesi. Da notare che rispetto ad aprile i disoccupati scendono di 36.000 unità: molto poco ma, guarda caso, esattamente corrispondente all’aumento del numero di occupati nello stesso periodo. Incremento determinato da un aumento di 93.000 lavoratori a termine cui fa contralatare un calo di circa 60.000 autonomi: segno flebile ma evidente che le nuove assunzioni  stanno cominciando a svuotare il serbatoio di disoccupati che in tutti questi mesi si era venuto formando. 

Per la composizione di questo stock di disoccupati bisogna ricorrere a un po’ di empirismo: secondo ISTAT (serie storiche corrette alle nuove disposizioni UE) i dipendenti a tempo indeterminato a maggio 2021 sono circa 350.000 in meno rispetto a febbraio 2020, ma tra questi sono compresi oltre 20.000 pensionati; i tempi determinati sono più o meno equivalenti (recuperando un crollo di oltre 300.000 unità), mentre gli autonomi sono caduti a meno 430.000. Statisticamente, lo stock di disoccupati attuali parrebbe essere dovuto per quasi 800.000 unità (il 30% del totale) al calo di tempi indeterminati e autonomi. E gli altri? Non è possibile ottenere dati aggiornati dall’INPS sui fruitori di prestazioni CIG, quindi non è possibile azzardare ipotesi su quanti del 1.820.000 disoccupati rimanenti siano cassintegrati in attesa che scada il divieto di licenziamento. Anche perché non si può sapere se e quanti siano tra i disoccupati i giovani che cercano occupazione. Si può solo segnalare una tendenza positiva: gli “attivi” sono cresciuti di 570.000 unità rispetto a maggio 2020. La discussione non è accademica: con i giovani in cerca di prima occupazione si possono utilizzare politiche diverse da quelle di un ex lavoratore, magari licenziato in là con gli anni. Comunque, se con un’operazione un po’ discutibile sul piano metodologico sottraiamo gli “attivi” allo stock residuo, arriviamo a una cifra tra 1.200.000 e 1.300.000. Un controllo sull’attendibilità di questo valore si può fare empiricamente a partire dal dato di aprile 2021, quando 5.300.000 erano i lavoratori in CIG: oggi - informa l’INPS - le ore autorizzate sono il 76% in meno, che in termini di ULA (Unità di Lavoro Equivalente a Tempo Pieno) restituisce un valore di 1.220.000 cassintegrati attuali.

Si può pertanto ragionare su una composizione del “plateau disoccupati più o meno di questo tipo: 320.000 licenziati e percettori di NASpI (INPS aprile 2021), 1.220.000 cassintegrati con licenziamento congelato, 570.000 “attivi”, per un totale di 2.110.000 unità, cui occorre aggiungere 430.000 occupati persi nel lavoro autonomo. Questo, cosa più cosa meno, è il numero di persone che andranno aiutate con politiche attive del lavoro a trovare nuova occupazione. 

Quante di queste persone verranno occupate dalle dinamiche spontanee del mercato? Confindustria, per i comparti che rappresenta, prevede per il 2021 innanzitutto un incremento delle ore lavorate e, a traino, un aumento delle ULA fino al 3,8%; tuttavia, il numero delle persone occupate potrebbe perdere il 1,4% per via delle chiusure/ristrutturazioni aziendali. Bankitalia prevede che l’aumento di ULA possa addirittura seguire il tasso previsto di crescita del PIL, quindi superare il 4%. Poiché il rapporto tra ULA e occupati è normalmente attorno al 90%, è ipotizzabile parlare di circa 800.000 occupati in più. Tuttavia, secondo i dati Confindustria, questa crescita di ULA potrebbe accompagnarsi a un calo di oltre 300.000 occupati part-time, autonomi, stagionali, etc. Il che mostra una frammentazione notevole nelle dinamiche di ricollocazione del nostro stock.

 

Le possibili dinamiche della ripresa post coronavirus

Le previsioni in generale segnalano una ripresa forte del comparto manifatturiero e delle costruzioni con robuste ricadute sull’occupazione; il comparto dei servizi è ancora zavorrato, ma dà segni di ripresa soprattutto nell'ambito di turismo e ristorazione (legato evidentemente alla stagionalità) con ripercussioni occupazionali soprattutto nei contratti a termine. In generale, però, la ripresa sembra ricalcare uno schema a K, con settori che crescono con forte velocità: il Financial Times segnala  ad aprile una crescita dell’export del 6% rispetto a gennaio, contro l’1% di Germania e Francia: merito soprattutto delle aziende che hanno intensificato la loro presenza sulla rete. Nel 2015 solo un’azienda su dieci pensava di utilizzare la tecnologia digitale. Da allora il progresso é stato costante e la presenza italiana in quel grande negozio virtuale, creato da internet, é divenuta massiccia. Ma la distanza tra imprese digitalizzate e quelle che non lo sono (servizi a basso valore aggiunto, manifatture tradizionali non inserite in filiere, la gamba rivolta in basso della K) aumenta rapidamente, con impatti corrispondenti sull’occupazione: di alto profilo professionale e adeguata retribuzione per le prime, di scarso contenuto e scarsa retribuzione per le seconde. 

Tuttavia, l’impatto di questa dinamica sul rapporto domanda-offerta di impiego non sembra produrre effetti differenti sulle diverse fasce del mercato del lavoro. Come mai? Molto utile per conoscere la dinamica del mercato rispetto allo stock di disoccupati italiani è l’Osservatorio Excelsior di Unioncamere: per il trimestre giugno-agosto le aziende cercano 560.000 dipendenti da assumere, ma segnalano che il 30% è di difficile reperimento.

Le maggiori difficoltà si riscontrano nelle professionalità più alte: dirigenti, professioni con elevata specializzazione e tecnici (come medici, farmacisti, informatici) che hanno un indice di difficoltà di reperimento superiore al 43%, ma che rappresentano soltanto 92.000 unità rispetto a quelle ricercate. Peggio la fascia operai specializzati e conduttori di impianti e macchine, per i quali la difficoltà di reperimento è poco inferiore al 40%, ma per quantità decisamente superiori, 173.000. Perfino per le professioni non qualificate (manovali, facchini, corrieri, addetti alle pulizie) l’indice di difficile reperibilità supera il 18%; e per le professioni legate al turismo (cuochi, camerieri, ecc.) sfiora addirittura il 30%. L'elemento più rilevante rilevante è proprio la causa del mismatch: il dato totale dice che il 12,8% è dovuto alla preparazione inadeguata dei candidati, mentre il 15,3% alla mancanza di candidati. Per questa ragione, su 560.000 persone che le imprese vorrebbero assumere da qui ad agosto 186.000 non verranno reperite e, tra queste, la maggioranza per mancanza non di formazione ma di candidati, persino per i lavori per i quali non è richiesta nessuna particolare professionalità.

 

Un problema di politiche attive per il lavoro...

Questa immagine dà un’idea del problema delle politiche per ricollocamento che il GOL, che è il programma specifico all’interno del PNRR, dovrà organizzare. Ci sarà bisogno (al netto di un inevitabile e conclamato intervento sul sistema di educazione-formazione, che comunque non potrà dare risultati prima di qualche anno) di un forte intervento per adeguare le competenze adeguabili anche al di fuori di un percorso formativo pluriennale: cosa che non sembra impossibile per profili quali tecnici informatici (mismatch per mancanza di competenze 24,5%), estetisti (28,5%), operai meccanici ed elettromeccanici (25,9%), conduttori di mezzi di trasporto (22,8%).

Ma altrettanto sembra determinante uno strumento che consenta di rimediare a quello che pare essere un evidente gap tecnico: l’impressione è che il mismatch per mancanza di candidature sia soprattutto riconducibile a una mancanza di (adeguata) informazione. Molte sono le questioni sollevate a proposito della difficoltà di ricollocazione, tra cui l’indisponibilità dei candidati a lavorare lontano da casa e l’offerta di retribuzioni bassissime ed extracontrattuali da parte delle aziende. La seconda ragione certamente esiste ma marginalmente: le imprese target di Excelsior praticano retribuzioni contrattuali. Di qui, la sensazione che una comunicazione più accessibile, puntuale e diffusa delle domande-offerte di lavoro potrebbe portare a una riduzione di quel 15% di mismatch generato dalla mancanza di candidati.

Abbiamo quindi già due strumenti di Politiche Attive: la formazione-riqualificazione a breve termine finalizzata alla rioccupazione e un sistema di informazione di vasta accessibilità per mettere in contatto domanda e offerta.

La prima dovrebbe, in teoria, essere messa in campo da un soggetto capace di individuare sul territorio le cause del mismatch per preparazione insufficiente. Molto virtuosa potrebbe essere una cooperazione tra sistema delle imprese e Centri per l'Impiego, che per la verità vedo difficile da praticare e che comunque lascerebbe aperto il problema di chi dovrebbe concretamente gestire la formazione così individuata. I CPI (non tutti) dispongono di “scuole” di formazione professionale, poco flessibili per adattarsi a quella che è di fatto formazione continua di breve durata. Chi dispone del know how e degli strumenti sono le Agenzie per il Lavoro, che fanno normalmente questo tipo di formazione per il personale che somministrano, e i fondi interprofessionali, istituzionalmente basati sul territorio. Le prime sono anche in condizione di conoscere i fabbisogni formativi del territorio grazie ai loro contatti organici con le aziende, i secondi perché espressione diretta sul territorio delle imprese e dei sindacati. Basterebbe consentire alle prime di entrare in un sistema finanziato con risorse pubbliche e ai secondi di intervenire anche su lavoratori non ancora dipendenti dalle imprese, ma destinati a esserlo, magari restituendogli il prelievo forzoso istituito da Renzi.

Quanto al sistema informativo, è opportuno prendere atto del fatto che finora le varie piattaforme a livello sia territoriale che nazionale non hanno avuto alcun successo. E mi lascia molto dubbioso l’ipotesi recentemente avanzata di rendere obbligatorio per le imprese postare le proprie ricerche di personale su una piattaforma informatica nazionale: un’idea che sembra discendente diretta del collocamento numerico! In realtà, come sottolinea il CRISP (Università degli Studi Milani-Bicocca), i mercati del lavoro sono prevalentemente locali e le aziende si affidano alle inserzioni, alle reti di comunicazione informale e, in parte, alle Agenzie per il Lavoro. Mai ai Centri per l'Impiego. Se si ritiene di fare un grande sforzo per riqualificare i CPI e metterli in grado di gestire, con il coordinamento di ANPAL, un sistema di banca dati interattivo, ben venga. Ma la bomba occupazionale 2021 deve essere gestita con strumenti già pronti all’uso: in un sistema pubblico-privato a pari condizioni, che finanzi la domanda e non l’offerta, si può anche pensare a costruire con le imprese e gli operatori una rete pubblica che raggruppi l’offerta di lavoro e sia interfacciabile dalla domanda, utilizzando una piattaforma sul modello di quella già positivamente sperimentata per Garanzia Giovani.

Si tratta di azioni mirate, finalizzate ad avere effetto in tempi brevi rispetto a uno stock di disoccupati per i quali esiste una domanda e per i quali sono identificabili le ragioni del mismatch. Tuttavia, forniscono già un modello operativo da portare a sistema, i cui cardini devono essere - anche sulla base delle best practice finora sperimentate - la parità totale di accesso e funzioni tra operatori pubblici e privati accreditati, il finanziamento all’offerta e non alla domanda (sistema dotale), la libertà di scelta dell’operatore ma l’obbligatorietà di attivarla in tempi certi, la condizionalità  per riattivare l’Assegno di Ricollocazione. E, infine l’incardinamento, su un unico soggetto (ANPAL secondo la visione che ne aveva il Jobs Act) dell’erogazione del trattamento di disoccupazione, del finanziamento della politica attiva, dell’attuazione dell’eventuale provvedimento di condizionalità.

Misure quali contratti di espansione, formazione per i cassintegrati e così via fanno certamente parte di un sistema moderno di politiche attive per il lavoro, ma è importante che il sistema resista al primo vero impatto di COVID-19, che si registrerà verosimilmente nel secondo semestre dell’anno, e che di conseguenza il GOL preveda uno stanziamento adeguato: l'effetto coronavirus, come visto in precedenza, potrebbe essere di 3-400.000 unità da ricollocare nel 2021, al netto - si spera - delle dinamiche autonome di mercato. Sulla base dell’esperienza di Dote Unica Lombardia e riproporzionando ai numeri del mercato del lavoro nazionale, il costo dovrebbe essere di 7-800 milioni, solo di Assegno di Ricollocazione (o come lo si vorrà chiamare), e soltanto per il secondo semestre 2021. 

Claudio Negro, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali e Fondazione Anna Kuliscioff

12/7/2021

 
 

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