Articolo 8, il detonatore di una rivoluzione nelle relazioni industriali

Dell'articolo 8 del cosiddetto "decreto Sacconi" non si sente parlare spesso. Eppure, dalle sue disposizioni passano alcune questioni cruciali relative alla contrattazione di secondo livello e ai suoi spazi di competenza 

Claudio Negro

Una specie di fantasma si aggira per il sistema di relazioni industriali in Italia, concretissimo ma molto spesso ignorato o esorcizzato: quello dell'art. 8 della L. 148 del 2011. Si tratta di una norma pensata dall'allora Ministro del Lavoro Maurizio Sacconi, che intervenne drasticamente  nel dibattito in corso tra CGIL, CISL, UIL e Confindustria circa la riforma del modello di contrattazione collettiva. La questione all'ordine del giorno era la promozione della contrattazione di secondo livello (aziendale o territoriale) e gli spazi di sua competenza. Mentre le parti sociali concordavano sul fatto che questi spazi sarebbero stati espressamente indicati dalla contrattazione nazionale (CCNL), Sacconi con l'art. 8 espanse (e in forza di legge..!) a dismisura questa facoltà, prevedendo che accordi collettivi aziendali o territoriali (di prossimità è il termine tecnico) - purché sottoscritti dalla maggioranza delle Organizzazioni Sindacali maggiormente rappresentative, o dalle loro rappresentanze in azienda - possano derogare a norme contrattuali o anche legislative, con le uniche esclusioni di quelle Costituzionali o Comunitarie. 
 
Si tratta, com'è evidente, di un potere enorme che viene trasferito dalla disponibilità nazionale (legislazione e CCNL) a quella locale/aziendale e, soprattutto (sia pure con qualche limite), dalla disposizione di legge a quella negoziale tra le parti.
 
Nonostante la scontata ostilità delle associazioni sindacali e in buona parte anche datoriali, che infatti si impegnavano a non ricorrere all'art.8, le parti sociali concretamente esistenti lo hanno utilizzato, senza tanto strombazzarlo, più volte, magari con l'escamotage di non citare esplicitamente l'art. 8 nell'accordo sottoscritto.  FCA, ILVA, Golden Lady sono i casi più noti, ma molto più numerosi sono i casi poco conosciuti, anche perchè le parti sociali preferiscono non fare molta pubblicità a questi accordi che, di fatto, smentiscono le posizioni politiche ufficiali. Ed è anche piuttosto probabile che nei prossimi mesi si assista a un proliferare di questi casi, per superare le limitazioni poste dal Decreto Dignità ai contratti a termine e alla somministrazione. Del resto, pur mantenendo una fiera opposizione di principio, perfino la CGIL da almeno 5 anni non rivendica più la soppressione dell'art.8.
 
Ma al di là della sua indubbia utilità nell'aprire varchi nell'ingessatissimo sistema delle relazioni industriali, l'art.8 mette a fuoco due snodi sui quali da tempo si attende una parola di chiarezza dalle associazioni datoriali e sindacali. Il primo è quello che riguarda la relazione tra contrattazione centralizzata e di prossimità.
 
Nella vulgata comunemente accettata la contrattazione nazionale serve a garantire trattamenti minimi universali anche a chi non ha forza negoziale. Su questa base dovrebbe essere lecito che in un'impresa si concordi di applicare un accordo collettivo diverso, se liberamente contrattato, come in effetti avviene per esempio in Germania e in FCA. In realtà, le associazioni sono fieramente contrarie a questa ipotesi che metterebbe in discussione le gerarchie interne; un'argomentazione ricorrente è che la giurisprudenza fa riferimento alle retribuzioni fissate dai CCNL per stabilire in sede giudiziaria la “equa retribuzione” prevista dalla Carta Costituzionale. Argomentazione che verrebbe meno se venisse introdotto nell'ordinamento il salario minimo. Nel concreto, esiste da sempre un antagonismo tra la contrattazione centralizzata e quella di prossimità: la prima prevale quando si tratta di garantire condizioni migliori a una platea vasta (l'Autunno Caldo e gli anni Settanta), la seconda quando diventa centrale il rapporto tra retribuzione e produttività per far aumentare i salari senza scassare l'economia. E questa è appunto la situazione attuale, in cui per le imprese che lavorano per l'export e quelle che sono fortemente ICT il CCNL sta stretto, sia in termini economici che per le normative in materia di orario, inquadramento, modalità di erogazione della prestazione lavorativa.
 
Il secondo è quello è quello relativo alla validità degli accordi collettivi: in mancanza di una legge attuativa dell'art. 39 della Costituzione (“I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”) si è sopperito, nella legislazione e nella giurisprudenza, con il riferimento ai “sindacati comparativamente maggiormente rappresentativi sul piano nazionale”, cioè CGIL, CISL e UIL. Ormai, però, la diffusione di nuovi soggetti sindacali e la frequenza di accordi separati pone seriamente la questione di una norma universalmente vincolante per determinare le procedure attraverso le quali un accordo collettivo, anche se non sottoscritto all'unanimità, acquisisce valore. 
 
Claudio Negro, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali e  Fondazione Anna Kuliscioff

5/12/2018

 
 
 

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