Il reddito di cittadinanza oggi: criticità e prospettive

Il reddito di cittadinanza così come attualmente disciplinato dal decreto legge n. 4/2019 è davvero efficace nella sua duplice natura e funzione di misura di contrasto alla povertà e di intervento di politica attiva del lavoro?

Piero Righetti

Il problema della povertà e le misure per combatterla

La povertà è in continuo aumento nei Paesi occidentali maggiormente industrializzati e in particolare in Italia dove negli ultimi anni il numero di persone in povertà assoluta – con un reddito cioè che, secondo la definizione dell’Istat, è pari o inferiore a quello necessario per acquistare i beni necessari a “conseguire uno standard di vita minimamente accettabile” – è passato dal 3,1 al 7,9% della popolazione. Si tratta di quasi 5 milioni di individui  - 1 italiano su 12 -  per la gran maggioranza donne e minori.

Pur con la premessa che, in quanto tali, non possono comunque dirsi una verità assoluta - controversa la metodica di determinazione della povertà relativa, mentre eper quanto riguarda la povertà assoluta va considerato che si tratta di stime spesso contraddette da analisi correlazione tra povertà e elusione/evasione, lavoro irregolare e criminalità organizzata; senza considerare poi che il 34% dei “poveri” è rappresentato da famiglie con capofamiglia uno straniero appena arrivato in Italia senza disporre di mezzi, evento che inevitabilmente non può che tradursi in un "aumento della povertà" (andrebbe semmai fatta  per buon senso e per non creare falsi allarmismi, che poi generano enormi costi per la collettività, una analisi separata tra povertà italiana e nuovi arrivati ) - sempre secondo queste stastiche, in passato i più poveri si trovavano soprattutto tra gli anziani ma, in questi ultimi anni, si trovano in modo crescente anche tra i giovani. Una situazione che secondo il Social Justice Index pone l’Italia al 25° posto tra i 28 paesi dell’Unione europea.

Questa mancanza di “giustizia sociale”, questo gravissimo aumento della povertà è, secondo molti economisti e secondo la stessa Banca d’Italia, una delle principali cause (ma al tempo stesso anche una conseguenza) della nostra bassa crescita economica negli ultimi decenni. Una causa dunque ma anche una conseguenza, per combattere la quale, o almeno ridurla in modo consistente, ci siamo mossi con grave ritardo rispetto a quello che hanno fatto, ad esempio, la Francia negli anni Ottanta, introducendo misure innovative come il Revenu minimum d’insertion, o la Germania che ha adottato iniziative simili.

Nello stesso periodo in Italia un’apposita Commissione presieduta da Paolo Onofri evidenziava la mancanza di “uno schema di reddito minimo per chi è totalmente privo di mezzi”, per introdurre il quale furono varate dal primo Governo Prodi, alla fine degli anni Novanta, alcune misure sperimentali, peraltro territorialmente e finanziariamente molto limitate, definite "reddito minimo di inserimento" e ben presto abbandonate. Due furono le “sperimentazioni” di questo reddito: la prima, 1998-2000, interessò 39 Comuni di cui 2/3 al Sud; la seconda, 2001-2002, ne coinvolse altri 267. I concreti beneficiari di questa misura (che, se estesa a tutto il territorio, avrebbe potuto “interessare” quasi 2 milioni di famiglie) furono soltanto poco più di 50.000, di cui l’85% al Sud e le somme mediamente erogate per famiglia 360 euro mensili. La relazione al Parlamento del 2007 su ciò che concretamente era successo evidenziò che in molti casi erano state indennizzate persone che lavoravano in nero, che avevano fatto dichiarazioni false e messo in atto “espedienti vari” come cambi di residenza o modifiche allo stato di famiglia “sospetti”, al punto che “al 31 dicembre 2003, su 21.079 famiglie beneficiarie oggetto di accertamento, 2.432 avevano avuto la revoca del sussidio”. Di particolare interesse è il punto di questa relazione in cui si evidenzia come solo circa il 2% degli 11.431 partecipanti ai programmi di inserimento aveva trovato un’occupazione, il 3,6% finito le scuole dell’obbligo e il 4,6% conseguito un diploma o un attestato formativo.

Diversa, più generale e rilevante, è stata l’introduzione, a partire dal gennaio 2018, del REI, il reddito di inclusione, considerato una misura universale di contrasto alla povertà, gestita dai Comuni, erogata dall’INPS e, all’inizio del 2019, sostanzialmente ancora in fase di rodaggio.

Il reddito di cittadinanza introdotto dalla Legge di Bilancio per il 2019 e dal decreto legge del 29 gennaio 2019, n. 4 – da convertire in legge entro il prossimo 29 marzo – ha subito creato una serie di valutazioni e di critiche su tutti i suoi aspetti, sia generali che particolari, a cominciare dalla sua stessa natura, giuridica ed economica, che per alcuni sarebbe prevalentemente di misura di contrasto alla povertà e per altri di intervento di politica attiva del lavoro.

Una cosa è certa: il reddito di cittadinanza ha già suscitato una quantità e intensità di discussioni che ben pochi precedenti ha nella storia della Repubblica.

È comunque indubbio che, al di là del fatto se si possa giuridicamente ed economicamente considerare una “misura universale di contrasto alla povertà” – definizione dalla quale dovrebbe essere eliminato in ogni caso l’aggettivo universale, se non altro per i tanti “paletti” cui è subordinata la sua concreta erogazione – il reddito di cittadinanza ha, per come è stato delineato nel decreto legge, una duplice funzione, quella di introdurre una misura di contrasto alla povertà e quella di rappresentare, almeno formalmente, un concreto e generale intervento di politica attiva del lavoro. Un campo, quello delle misure di politica attiva del lavoro in cui l’Italia era finora intervenuta (a parte alcune misure autofinanziate di formazione professionale permanente e di staffetta generazionale a carico dei Fondi di solidarietà di settore) soltanto da poco tempo, marginalmente e con scarsa efficacia, nonostante le innovazioni introdotte dal decreto legislativo n.150/2015 (si vedano in particolare gli artt. da 1 a 17) rimaste di fatto quasi soltanto buone intenzioni e/o riforme programmatiche.

Se non altro per quanto se ne è parlato e scritto, da quasi un anno ormai, le due caratteristiche di base del reddito di cittadinanza sono ormai ben note: a) sussidio mensile, individuale e/o familiare, per un massimo di 18 mesi rinnovabile per altri 18 dopo una sospensione di 30 giorni, utilizzabile da chi ne ha fatto richiesta e/o dall’impresa che lo assume; b) sistematica assistenza del sussidiato nella ricerca di un’occupazione da parte di un navigator (sostanzialmente un tutor) con obbligo di disponibilità al lavoro e di concreta accettazione di un’occupazione a pena di decadenza dal sussidio.

 

I punti di criticità dell’attuale disciplina del reddito di cittadinanza

A parte il fatto, assolutamente scontato, che per creare posti di lavoro non è sufficiente emanare una legge o un decreto – con la sola eccezione dei provvedimenti che stabiliscono l’assunzione di impiegati pubblici, civili o militari, stanziando al tempo stesso le somme necessarie per retribuirli – va evidenziato  che la concreta introduzione nel nostro ordinamento del reddito di cittadinanza (come disciplinato dal decreto legislativo n. 4, artt. da 1 a 13, suscettibili peraltro di modifiche anche rilevanti nei sessanta giorni di conversione in legge) presenta per la sua concreta attuazione una serie di criticità e punti di snodo che dovranno necessariamente essere risolti o snelliti, almeno nei loro aspetti più rilevanti. Punti di criticità e di snodo che possono essere così sintetizzati:

  • rischio di sovrapposizioni e dubbi di competenza tra i numerosi “soggetti” coinvolti nella concessione del sussidio: Centri per l’impiego, Caf, Uffici Postali, Agenzie del lavoro, INPS, Anpal, Agenzia delle Entrate, Regioni, Province, Comuni;
  • difficoltà di “colloquio informatico” tra le rispettive e diverse banche dati;
  • bassa efficienza della maggior parte dei Centri per l’impiego (prima della Legge di Bilancio per 2019 erano 501 quelli principali, più 51 secondari e 288 distaccati con funzioni di “sportello” e avevano circa 9.000 dipendenti, più 1.600 promessi dal governo Gentiloni ma ancora in via di assegnazione);
  • problemi logistici e strumentali di molti Centri per l’impiego, di cui alcuni dipendenti dalle Regioni, altri dalle Province, altri ancora dai Comuni;
  • problemi legislativi e di raccordo normativo conseguenti alle attuali competenze in materia di politica del lavoro di Regioni e Province, soprattutto a statuto speciale, e alle possibili diverse e maggiori competenze nel caso di un riconoscimento, come richiesto insistentemente, di una più ampia autonomia alle Regioni a statuto ordinario;
  • rischio di violazione della privacy individuale in caso di effettivo controllo dei conti correnti e delle modalità di utilizzo della postal-pay da parte dei richiedenti il sussidio;
  • tempi e modalità previsti per la selezione e l’assunzione dei navigator, di cui 6.000 presso Anpal Servizi e 4.000 presso i Centri per l’impiego, con tempi attuativi troppo ristretti e/o difficilmente prevedibili in concreto;
  • rischio di possibili impugnative della normativa dinanzi alla Corte Costituzionale da parte di Regioni, autonome o anche ordinarie, per violazione di proprie competenze e/o autonomie, nella scelta di avvalersi per il tutoraggio dei sussidiati di un navigator al posto di proprio personale già in servizio e già dotato di specifiche professionalità;
  • possibilità o meno di continuare a concedere sussidi similari già in pagamento, come avviene da tempo nelle Province di Trento e di Bolzano, in sostituzione del reddito di cittadinanza;
  • istituzione presso l’Anpal e presso il Ministero del Lavoro di due “apposite piattaforme digitali per il coordinamento rispettivamente dei centri per l’impiego e dei comuni”, piattaforme da collaudare attentamente ed in grado di colloquiare con tutti questi uffici, molti dei quali sprovvisti in tutto o in parte di una strumentazione adeguata alle necessità, anche di monitoraggio, analisi e controllo, delle due nuove piattaforme;
  • eventuale cumulabilità o incompatibilità del reddito di cittadinanza, di cui può fruire chi assume un sussidiato, con incentivi similari già in vigore come Bonus sud, Resto al Sud, Naspi, Dis-coll, assegno di ricollocazione, ecc.;
  • funzionamento della postal-pay o tessera di cittadinanza (che, secondo alcuni, non sarebbe altro che la social card dell’ex Ministro Tremonti, e cioè una carta-acquisti “utilizzabile per il sostegno della spesa alimentare e sanitaria e per il pagamento delle bollette di luce e gas”;
  • limiti di utilizzabilità della postal-pay e possibile violazione della privacy individuale, in aggiunta alle violazioni in cui può incorrere l’INPS monitorando i conti correnti bancari e postali di chi chiede il reddito di cittadinanza;
  • tempi troppo ristretti concessi ad esempio all’INPS per definire le domande di concessione del reddito di cittadinanza.

Per concludere e al di là di quelle che potranno essere le modifiche in sede di conversione del Decreto n. 4, si può osservare che il reddito di cittadinanza non è assimilabile a un vero e proprio reddito di base (basic income), che è un reddito minimo incondizionato garantito a tutti su base individuale (e non anche familiare come il reddito di cittadinanza), senza controlli e “sganciato” dal reddito e da qualsiasi prestazione lavorativa (improponibile in Italia). Il reddito di cittadinanza potrebbe forse definirsi un “sussidio selettivo”, subordinato alla disponibilità e all’impegno a lavorare, al limite per un minimo di 8 ore settimanali per le necessità del proprio Comune di residenza (ci troviamo forse in presenza di un’ipotesi di "Lavori socialmente utili 2"?).

Da un altro punto di vista il reddito di cittadinanza sembra quasi, per come è stato formulato, voler assimilare il “povero” al “disoccupato”, considerato forse uno sfaticato, spesso al limite della buona fede, con conseguente necessità di continui controlli e di sanzioni pesantissime (si prevede addirittura la carcerazione per 4/6 anni). In realtà non è vero che tutti i disoccupati sono poveri e che i poveri sono tali perché disoccupati: la sovrapposizione di questi due concetti infatti non è assolutamente esatta. 

Laddove poi gran parte della povertà economica deriva da “povertà educativa”, forse più che sussidi occorrerebbe fornire formazione e cultura (anche con partecipazione ad attività di pubblica utilità remunerate con aiuti) sia ai fini di un reinserimento sociale sia eventualmente lavorativo: è la cultura l’unico metodo utile per ridurre la povertà; fornire aiuti economici senza gli adeguati strumenti, è improduttivo.

Perché il reddito di cittadinanza possa davvero decollare e avere un’utilità sociale, oltre che individuale, appare comunque indispensabile:

  • prorogare il REI, apportando eventuali modifiche, fino alla reale entrata in funzione del reddito di cittadinanza;
  • stabilire rigorosamente competenze e campo di azione dei vari soggetti, pubblici e privati, che vi sono coinvolti;
  • coordinare sistematicamente l’azione di tutti questi soggetti;
  • fissare tempi di adempimento e scadenze che possano essere effettivamente rispettate;
  • dotare i vari soggetti di tutta la strumentazione necessaria a rendere possibile il “colloquio” e l'interscambiabilità tra le varie banche dati;
  • formare adeguatamente, prima dei sussidiati, i navigator e i tutor;
  • creare un sistema di coordinamento e valutazione globale periodica sul funzionamento del reddito di cittadinanza e sul suo effettivo impatto sul mercato del lavoro.

 

Conclusioni e possibili sviluppi

Da ultimo restano comunque forti dubbi sulla concreta applicabilità delle misure e delle modalità del reddito di cittadinanza come fissate dal decreto 4/2019 e su che cosa potranno fare, e con quale efficacia, organismi come l’Anpal (che dovrebbe sovraintendere a tutto ciò che il reddito di cittadinanza è come “politica attiva del lavoro”), i Centri per l’impiego (“gonfiati” con 10.000 nuovi assunti, prevedibilmente con scarsissima professionalità specifica), l’INPS (che dovrebbe riconoscere o negare il diritto al sussidio), gli Uffici Postali, i Caf e le varie autorità di controllo della “lealtà e buona fede” dei percettori del reddito di cittadinanza. Se il reddito di cittadinanza dovesse rimanere così come è attualmente previsto e configurato, le considerazioni sulla sua utilità potrebbero essere in estrema sintesi le seguenti: qualche beneficio lo può apportare nella lotta alla povertà ma quasi nessuno invece, almeno nel breve periodo, per favorire nuova e concreta occupazione (a parte le assunzioni all’Anpal e ai Centri per l’impiego che rischiano seriamente di diventare semplici “assumifici”).

E, proprio da ultimo, c’è questa osservazione da fare: l’importo del reddito di cittadinanza previsto dal Decreto, poiché in molti casi è addirittura superiore alla retribuzione che percepiscono moltissimi lavoratori privi di effettive qualificazioni, non è che da incentivo rischia di diventare addirittura un disincentivo al lavoro e/o una concreta spinta al lavoro in nero?  

Piero Righetti

18/2/2019

 
 

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