In lockdown non abbiamo fatto smart working, ma abbiamo capito se e come farlo

Una ricerca della CGIL in collaborazione con la Fondazione Di Vittorio ha coinvolto seimila persone, interrogandole sulla loro esperienza di lavoro smart: positiva, a patto che di smart working si tratti, e non di soluzioni improvvisate

Giovanni Gazzoli

Tra le tante cose la cui storia ha avuto un “pre” e “post” COVID-19 c’è sicuramente lo smart working che, per cause di forza maggiore, è entrato nella quotidianità di aziende e lavoratori, forzando un passaggio culturale che – quantomeno in Italia – avrebbe probabilmente impiegato più tempo per avvenire naturalmente. È infatti abbastanza emblematico che prima della pandemia vi facessero ricorso circa 500mila persone, aumentate negli ultimi mesi fino a 8 milioni.

Ecco perché è necessario evitare che, con la fine dell’emergenza, si smetta di riflettere sulla diffusione, l’utilità e l’implementazione del lavoro agile: da qui nasce la ricerca che CGIL e Fondazione Di Vittorio hanno svolto sull’esperienza di smart working vissuta da un campione di circa 6mila lavoratori. Dall’analisi dei dati anagrafici emerge innanzitutto che lo smart working non è per tutti. I rispondenti infatti detengono un titolo di studio medio-elevato, a dimostrazione che solo una parte di tipologie lavorative, alle quali è possibile accedere con una determinata formazione, possono essere svolte da remoto. Restano ovviamente fuori molte professioni, da quelle che richiedono un lavoro manuale come gli operai, a quelle che si basano sulle relazioni personali come gli infermieri a domicilio.

Un altro dato interessante è quello del settore in cui i rispondenti lavorano: il 66% nel privato, il 34% nel pubblico. È innegabile che la flessibilità e la responsività dei soggetti privati abbia permesso una più agevole diffusione dello smart working nelle aziende rispetto che negli uffici pubblici, ma c’è da dire che anche questi ultimi hanno “partecipato all’esperimento”: se il discorso della forzatura del passaggio culturale vale a livello sistemico, lo fa ancora di più rispetto al settore pubblico, spesso caratterizzato da burocrazia, lentezza e sistemi informatici inadeguati; lo dimostra anche il fatto che il 15% dei lavoratori pubblici in più rispetto ai privati hanno fatto ricorso al lavoro agile senza averlo desiderato. Sorprende comunque vedere che nonostante la situazione di emergenza evidente, l’utilizzo di questo strumento di lavoro non sia stato sempre condiviso: infatti solo nel 37% dei casi è stato attivato in modo concordato con il datore di lavoro, nel 36% unilateralmente dal datore e nel 27% attraverso l’intervento del sindacato.

Per quanto riguarda gli aspetti organizzativi, ci si può chiedere cosa serva affinché l’esperienza dello smart working passi da una risposta improvvisata a una situazione di emergenza, ad una metodologia strutturata e su misura delle necessità di lavoratori e datori di lavoro. Un primo passo sarebbe quello di sviluppare delle adeguate competenze, ossia uno degli aspetti più lamentati dai soggetti interrogati dall’indagine: infatti, molti di loro ritengono che per lavorare da casa occorrano competenze specifiche, come ad esempio per l’utilizzo della tecnologia o per l’organizzazione del lavoro o, ancora, per la gestione dello stress; competenze che mancavano al 31% delle persone. I principali problemi emersi durante questo esperimento forzato sono stati: la gestione degli spazi, spesso ricavati e improvvisati (50%); la consapevolezza dei propri diritti, come la disconnessione o il controllo a distanza; le tecnologie, come pc, smartphone, cuffie o stampanti, spesso (soprattutto per le donne) condivise in casa con altri. 

La ricerca definisce questa esperienza come home working, non avendo le caratteristiche né del lavoro agile (smart) né del telelavoro. Le risposte sulla percezione del cambiamento nel lavorare da casa piuttosto che in ufficio sembrano confermare questa affermazione: il 45% delle persone non ha percepito cambiamenti, il 32% solo parzialmente, ed appena il 23% ha visto cambiamenti effettivi. Questo per diversi motivi: dalla relazione con i responsabili (per molti è peggiorata) ai carichi di lavoro (aumentati per via della mancanza di un orario limite di riferimento), passando per le condizioni logistiche.

Nel decidere dunque se e cosa fare perché lo smart working si affermi definitivamente, portando tutti i vantaggi che solo una corretta implementazione può portare, è importante considerare anche le caratteristiche dei lavoratori. Per esempio, gli uomini hanno vissuto questa esperienza in modo indifferente per il 13% in più che le donne, per le quali spesso è stata più stressante, alienante e complicata. Ci sono poi i vantaggi logistici: quasi tutti (94%) sono concordi sul risparmio dei tempi di spostamenti, specie se pendolari, sulla flessibilità e sul potenziale bilanciamento dei tempi di lavoro-cura-libero; per il 55% può ridurre lo stress causato dal lavoro. Ciò che invece mette timore è il venir meno della relazione: il 71% ha paura di avere meno occasioni di confronto e scambio con i colleghi; inoltre, c’è da considerare la problematica accessoria dell’aumento dei carichi familiari, problema rilevato dal 71% delle persone.

In sostanza, “il 60% degli intervistati vorrebbe proseguire l’esperienza di smart working anche dopo l’emergenza, il 22% no”; indeciso il restante, la maggior parte donne.

In conclusione, la ricerca sottolinea che l’esperienza svolta non si può definire propriamente di smart working, che invece interviene in presenza di sostenibilità, reale conciliazione dei tempi, mantenimento delle stesse condizioni (sia organizzative sia relazionali), informazione e consapevolezza e preservazione della dimensione collettiva del lavoro.

Giovanni Gazzoli, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

2/7/2020

 
 
 

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