L'assistenza? Necessaria, ma solo il lavoro fa uscire davvero dalla povertà

Anche i dati dimostrano che l'occupazione è il principale rimedio, reale e unificante, contro la povertà economica: di qui, l'importanza di un sistema di welfare che non escluda l'assistenza a chi è in difficoltà, ma sappia riconoscere il giusto valore a politiche attive del lavoro, educazione e formazione

Claudio Negro

Sul Corriere della Sera dello scorso 18 aprile, Antonio Polito ha messo sotto accusa su quelle che, secondo lui, sono le inadeguatezze e gli errori della sinistra nella gestione della crisi del welfare: avere “dimenticato il disagio sociale”, avere ritenuto che “alla povertà doveva pensarci il lavoro”, “che il problema sociale si potesse risolvere con l'istruzione”, avere ignorato i “perdenti della nuova competizione sociale” che “il populismo ha raccolto dietro le sue bandiere”. 

Si tratta di un punto di vista che vorrei contestare nel merito, non per far polemica con Polito, del quale ho sempre avuto grande stima, ma perchè la sua posizione è emblematica di una tendenza "autoflagellatoria" che si va manifestando nella sinistra riformista.

Innanzitutto, credo che vada ampiamente ridimensionata la vulgata dei “perdenti... i forgotten men”, i poveri che costituirebbero l'esercito dei populisti. Le cifre comunemente accettate (5 milioni tra poveri assoluti e relativi) vanno riviste alla prova dei fatti: 1 milione 650.000 le persone già individuate come destinatarie del reddito di cittadinanza, cui si possono aggiungere circa 200.000 nuovi destinatari attesi e, per precisione statistica, circa 80.000 immigrati residenti da meno di 10 anni e, quindi, non aventi diritto. Un totale di 1.930.000 individui, assai lontani dagli oltre 5 milioni stimati dall'ISTAT e sui quali sono sempre stati fatti tutti i conti e le valutazioni. Anche pensando che la cifra possa ulteriormente crescere per varie ragioni difficilmente potrà essere raggiunta la metà dei poveri “attesi”. Chi ha decretato il successo del Movimento 5 Stelle alle elezioni del 2018 non sono questi “dimenticati”: anche se tutti in blocco avessero votato il Movimento, non avrebbero rappresentato neppure il 25% degli oltre 10 milioni di voti riportati dal partito. La leggenda dei forgotten come base dei populisti non funziona...! A meno di introdurre una categoria nuova, quella del forgotten percepito, ossia chi - pur non rientrando nei criteri per definire la povertà assoluta - povero si sente. Naturalmente, il sentiment è un indicatore serio e da non sottovalutare, ma va necessariamente ricondotto a qualche riscontro oggettivo se si deve tenerne conto nel definire politiche di protezione sociale:  e, al dunque, questi 5 milioni "non saltano fuori"...

La domanda sorge allora spontanea: questo numero è davvero così elevato, come appare dai dati diffusi dall’Istat? Come ben evidenziato anche in questo approfondimento a firma del Prof. Brambilla, i dubbi sulla quantificazione della povertà assoluta e relativa sono parecchi, a cominciare dalla metodologia di rilevazione della spesa per consumi, sulla quale si basa il calcolo della povertà: la rilevazione mediante "diario cartaceo" è insicura (è difficile che le famiglie coinvolte dichiarino, ad esempio, spese per “vizi”, mentre eviteranno dichiarazioni che possano mettere a rischio la fruizione di eventuali sussidi correlati al reddito) e non rileva le correlazioni tra povertà e altre variabili tra cui, in primis, l’infedeltà fiscale. 

Forse, il reddito di cittadinanza avrà come utile effetto collaterale quello di renderci una statistica vera della povertà in Italia! Intanto, occorre riconoscere che, al di là delle semplificazioni statistiche, manca un'analisi puntuale sulle cause della povertà: ad esempio, oltre la metà dei poveri si può individuare in soggetti a rischio per gioco d’azzardo, droghe, alcol, (tutti consumi che, certo, non compaiono nei “diari cartacei” Istat), sindromi riconducibili a una "povertà educativa" che spesso precede e genera la povertà economica. Ancora, non va trascurato, che maggiori livelli di povertà assoluta e relativa  riguardano le famiglie straniere, dato compatibile con il loro recente arrivo in Italia e col fatto che devono "ripartire da zero". Il che induce a fare qualche considerazione sul conclamato impoverimento degli italiani: ad esempio, per la povertà relativa la situazione delle famiglie italiane non è peggiorata rispetto ai livelli pre-crisi 2008. Come rileva sempre il Professor Alberto Brambilla nell'articolo "La lotta alla povertà tra assistenzialismo e doveri dimenticati", rispetto al 2008 i contribuenti che dichiarano fino a 7.500 euro l’anno, e che quindi rientrerebbero tra i poveri assoluti (massimo 625 euro al mese, dunque con consumi ridotti) sono diminuiti di circa 1.245.000 unità; e così pure i contribuenti che dichiarano tra 7.500 e 15.000 euro, che rientrano sia nella povertà assoluta sia nella relativa, diminuiti di 1.210.000 unità. Anche i dichiaranti tra 15mila e 20mila euro (potenziali poveri relativi se con famiglia a carico), sono diminuiti di circa 1 milione e 40mila unità. 

D'altra parte, qualche riflessione  dovrebbero indurla i dati patrimoniali e le spese dei nostri concittadini: tra i Paesi OCSE siamo nella fascia più alta per  possesso della casa, parchi auto e moto, possesso di telefonini (le spese per la telefonia sforano gli oltre 24 miliardi l’anno), numero di abbonamenti alle pay tv; senza trascurare anche i 100 miliardi spesi per il gioco d’azzardo, i quasi 20 miliardi per il fumo, i 15 per l’uso di droghe. Dati che non fanno immaginare un popolo malandato e che rinuncia alle cure sanitarie...

Se incerta è la definizione e la quantificazione dei poveri, non aveva allora torto la sinistra a dire che è il lavoro l'unico rimedio reale, trasversale e unificante alla povertà. Significativa a riguardo la sovrapposizione statistica tra povertà e disoccupazione: il 26,7% (dati ISTAT 2017) dei poveri sono disoccupati in cerca di lavoro, l'11,9% sono disoccupati non attivi, solo il 4% sono pensionati. Soltanto il 6% degli occupati rientra nella fascia dei poveri (il che implica comunque il dover aprire una riflessione sui working poors). I dati ci dimostrano inoltre che effettivamente esiste un rapporto inverso tra istruzione e povertà: ISTAT rileva che le famiglie in cui la persona di riferimento ha soltanto la licenza elementare cadono in condizioni di povertà nel 10, 7% dei casi, nel 9,6% in caso di licenzia media. Con un titolo di studio superiore la percentuale di povertà precipita inveceal 3,6%. Occupazione e istruzione, in quanto funzionale all'occupazione, sono effettivamente le assicurazioni più certe contro la povertà. E allora il problema principale che dovremmo porci è quello dell'istruzione-formazione e delle politiche di servizio al lavoro.

Dall'articolo di Polito che ha costituito la premessa per questa riflessione pare invece emerge una visione del welfare come soluzione alternativa per chi non lavora, il che sarebbe del tutto condivisibile nell'eventualità di un sussidio temporaneo legato a un percorso di inserimento lavorativo (come è in tutta Europa), salvo casi eccezionali di persone non in grado di lavorare per patologie o età (persone che sono però di solito assistite con rendite ad hoc), ma che non è invece condivisibile laddove si venga a creare una condizione in cui, di fatto, diventa possibile scegliere tra sussidio e lavoro. Esattamente come accadrà con il reddito di cittadinanza, tanto che lo stesso Presidente INPS Paquale Tridico ha dichiarato che sottrarre le persone alla povertà conta di più che avviarle al lavoro. 

Ma torniamo alla questione di fondo: quanti sono i poveri “veri” in Italia?  Qual è la priorità di un'agenda di governo che pensi al futuro e non alle prossime elezioni? L'assistenza o l'occupazione? Ovvio che l'una non esclude l'altra: ma dove va messo l'accento? Questa - e va resa esplicita e valorizzata - è la distanza che corre tra il welfare del riformismo liberal-socialista e l'assistenzialismo populista.

Claudio Negro, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali e Fondazione Anna Kuliscioff 

13/5/2019

 
 

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