Lavoratori che ritardano la pensione e pensionati al lavoro: quali possibilità in Italia?

Il dibattito su lavoratori senior in Italia si concentra tipicamente sull’importanza di misure di flessibilità in uscita dal mercato del lavoro. Poco incentivati, quando non addirittura penalizzati, i “pensionati lavoratori” o quanti desiderano proseguire la propria attività lavorativa anche dopo la maturazione dei requisiti per la pensione

Mara Guarino

Come ben evidenziato dal primo Osservatorio sul Mercato del Lavoro Itinerari Previdenziali, l’obiettivo – fissato a suo tempo dalla Strategia di Lisbona – di una maggiore partecipazione degli over 55 alla forza-lavoro è stato indubbiamente centrato dall’Italia. A ben guardare, tuttavia, le ragioni di questo “successo” sembrano più che altro risiedere nell’effetto congiunto dell’invecchiamento della popolazione e del progressivo aumento delle carriere lavorative indotto “forzatamente” dalla Legge Monti-Fornero che, con alcune discusse rigidità cui sono seguite altrettante discusse salvaguardie o altre misure “tampone”, ha di fatto ristretto il flusso in uscita dal mercato del lavoro.

Viceversa, poco o nulla è stato fatto per incentivare un invecchiamento (professionale) attivo degli over 55: assecondando pressione mediatica e vulgata popolare e spesso trascinati da alcuni falsi miti – sin troppo acriticamente accettati nel nostro Paese – sul ricambio generazionale, l’attenzione ai problemi dei lavoratori di fascia 55-64 anni si è quasi unicamente concentrata sulla pur cruciale questione della flessibilità in uscita (e del mandarli in pensione “il prima possibile”), trascurando del tutto il rovescio della medaglia. La mancata (o comunque lacunosa) attuazione di strategie di active ageingper fare un esempio, basterà pensare ai temi della formazione e dell’obsolescenza delle competenze professionali – ha fatto e fa tuttora sì che, anche quando “costretti” ad allungare la propria carriera professionale – i lavoratori senior italiani non siano messi nelle condizioni adeguate per farlo. E non migliore è la situazione di quanti scelgono volontariamente di restare sul lavoro anche una volta maturati i requisiti utili alla pensione.

Malgrado alcune sperimentazioni passate (realizzate però con esiti piuttosto scarsi), in Italia al momento non si può dire che la prosecuzione del lavoro – una volta maturati i requisiti per la pensione di vecchiaia – sia particolarmente incentivata. Si prenda in particolare il caso del lavoro subordinato: attualmente, il dipendente che maturi i requisiti per la pensione può scegliere di restare al lavoro fino a un massimo di 70 anni, esclusivamente sulla base di un accordo con l’azienda. Al di là di ragioni personali o familiari, l’unica prospettiva è – in questo caso - quella di un assegno pensionistico “più ricco”: la legge non prevede infatti nessuna incentivazione diretta alla prosecuzione, ma indubbiamente un’incentivazione implicita risiede nella crescita dei coefficienti di trasformazione all’aumentare dell’età. Eppure, come sottolineato anche dall’Osservatorio “Lavoratori over 55 e active ageing”, non sarebbero pochi i lavoratori che proseguirebbero la propria carriera oltre la maturazione dei requisiti pensionistici a patto di poter beneficiare di condizioni favorevoli, tra cui un’organizzazione del lavoro più flessibile (orari, etc) e un adeguato piano di formazione.

Spingendo il discorso addirittura oltre vale poi la pena di rivolgere l’attenzione non solo ai lavoratori over, ma anche ai pensionati che svolgono un’attività lavorativa. Quanti sono – numeri alla mano – i pensionati “lavoratori” in Italia? Un interessante aiuto in tal senso è offerto dall’ultima edizione dell’approfondimento sulle dichiarazioni individuali dei redditi Irpef e quelle aziendali relative all’IRAP. L’analisi condotta dal Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali evidenzia infatti anche la provenienza del reddito per ogni singola tipologia di dichiarante: se, da un lato, è interessante notare come tra gli oltre 20 milioni di lavoratori dipendenti circa 65.000 soggetti dichiarino anche redditi da pensione che si sommano e cumulano con quelli da lavoro, ancor di più lo è sottolineare che tra i pensionati italiani se ne contano 412.000 che sono anche lavoratori dipendenti, 69.000 che sono anche imprenditori e 115.000 che hanno comunque redditi da lavoro autonomo. Per fornire un ordine di grandezza, nel 2016 i pensionati italiani erano circa 16,1 milioni, di cui oltre 8 con prestazioni integrate o totalmente a carico della fiscalità (e, di conseguenza, esenti da Irpef).

La normativa vigente consente dunque a tutti gli effetti ai pensionati di lavorare (anche perché difficilmente si potrebbe negare in toto il diritto al lavoro), ma in più occasioni l’ordinamento è intervenuto per disciplinare tale eventualità e, in particolare, per definire in quale misura sia consentito cumulare la pensione ed eventuali redditi da lavoro. Attualmente, non viene previsto alcun limite al cumulo nei casi delle pensioni di vecchiaia, anticipata o di anzianità, mentre sono previsti vincoli e/o limiti parziali per pensioni di inabilità, assegni di invalidità o pensioni ai superstiti. Resta poi ovviamente inteso che sia in caso di lavoro dipendente che autonomo, il pensionato professionalmente attivo è comunque tenuto al versamento dei contributi: tali versamenti supplementari concorrono a determinare (e “aumentare”) l’importo dell’assegno pensionistico a mezzo del cosiddetto “supplemento di pensione”, che può essere richiesto dopo almeno 5 anni dalla decorrenza della pensione divenendone di fatto parte integrante.

Non sono mancate e non mancano tuttavia proposte volte a introdurre limitazioni ulteriori e più stringenti, generalmente individuate sulla base del reddito e riguardanti appunto il tema della cumulabilità; proposte sulle quali grava molto spesso (e ancora una volta) la convinzione che i senior “rubino” il posto di lavoro ai più giovani. Una convinzione, non solo spesso smentita dai dati ma che, anche alla luce dell’evoluzione delle competenze richieste per entrare nel mercato del lavoro, sembra per molte professioni in primis il riflesso di un tempo – e di un mercato del lavoro, quello dell’organizzazione taylorista - che non c’è (quasi) più.

Il tutto con l’aggravante di trascurare, non solo il valore (cruciale per i più giovani) delle competenze portate dai più esperti, ma anche la partecipazione attiva dei pensionati lavoratori al finanziamento del sistema Paese, attraverso tasse e contributi versati. 

Mara Guarino, Itinerari Previdenziali

17/9/2018

 

 
 

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