Occupazione in crescita, ma la produttività è ferma

Calano a gennaio gli occupati a tempo indeterminato, mentre aumentano i contratti a termine: cosa rivela un'analisi dettagliata dei dati sull'andamento del mercato del lavoro riferiti al mese di gennaio

Claudio Negro

La rilevazione ISTAT sul Mercato del Lavoro relativa a gennaio 2018 non presenta particolari novità, ma alcuni dettagli che è opportuno approfondire.

In generale, c’è una lieve crescita dell’occupazione che riporta gli indicatori al livello del novembre 2017 dopo il piccolo calo di dicembre (58,1% il tasso di occupazione). Cresce anche il tasso di disoccupazione, esattamente nella misura in cui cala il tasso di inattività (0,2%): segno di una fiducia crescente nella possibilità di trovare lavoro. Da notare la continua crescita del tasso d’occupazione femminile che stabilisce un nuovo record assoluto col 49,3%.

Un primo dato su cui riflettere è che a gennaio calano gli occupati a tempo indeterminato (-12.000) e aumentano quelli a termine (+ 66.000). Ci si attendeva che gli sgravi per le assunzioni permanenti introdotte dalla Legge di Bilancio da gennaio avrebbero prodotto risultati positivi, come del resto testimoniato da alcune rilevazioni parziali (p. es. Veneto Lavoro). Ci può essere una parziale spiegazione di carattere tecnico: i tempi concretamente utili per fare assunzioni a gennaio sono meno di una ventina di giorni e un rallentamento delle operazioni è plausibile. Vedremo a febbraio.

Un’altra possibile ragione è più strutturale, e se vera anche più preoccupante: vale a dire che parte delle imprese non sia ancora, o non sia ancora convinta di essere, in fase di crescita consolidata e, quindi, preferisca ancora affidarsi a contratti di breve durata. In Lombardia, per esempio, l’indice di crescita della produzione industriale era al + 5,1% a dicembre rispetto all’anno precedente, ma settori importanti (stampa, alimentari, tessili) sono parecchio sotto quest’indice, e mezzi di trasporto e abbigliamento sono addirittura in negativo. È verosimile che questi comparti non abbiano dato un contributo alla crescita occupazionale, e men che meno all’occupazione permanente. Da osservare che a livello nazionale, nel manifatturiero (2017 rispetto al 2016), il calo delle assunzioni a tempo indeterminato e la crescita di quelle a termine non presentano grandi numeri: rispettivamente -8.000 nel e + 87.000. Il grosso del fenomeno è piuttosto nel terziario: - 56.000 e + 824.000 (Osservatorio INPS). Allora è verosimile concludere che, mentre gli incentivi del Jobs Act davano risposta ad una situazione in cui le imprese avevano bisogno di ricostituire gli organici, oggi nel manifatturiero la maggioranza delle aziende giudica gli organici adeguati e che la residuale domanda di lavoro sia più prudente affrontarla con assunzioni a termine. Ciò vale a maggior ragione nel terziario, nel quale la ripresa è più indietro rispetto al manifatturiero: + 0,2% il valore aggiunto del comparto rispetto al + 0,9% dell’industria. Altro indicatore interessante: nel quarto trimestre 2017, il 73% delle imprese industriali risultava in espansione, contro il 60% scarso del commercio-servizi (ISTAT). Dunque, la crescita occupazionale che ci si aspetta potrà venire da un ulteriore incremento del manifatturiero e, soprattutto, dall’estendersi della ripresa al terziario: i margini di crescita sono significativi.

Una sorpresa (per la verità già anticipata dai dati di dicembre): aumenta l’occupazione nella fascia “giovane”. Al netto della componente demografica nella fascia 15-34 anni il tasso di occupazione sale del 2% e tra i 15 e 24 anni addirittura del 6%, ma questa crescita è determinata in gran parte da contratti a termine: nella fascia di età fino ai 25 anni le assunzioni a termine nel 2017 sono state l’822% di quelle a tempo indeterminato, nella fascia da 25 a 29 il 540%, mentre nel totale le assunzioni a termine sono state il 400% rispetto a quelle a tempo indeterminato. Da notare che le assunzioni a tempo determinato tra le donne sono state il 480% rispetto al tempo indeterminato (il record è tra le donne sotto i 25 anni, dove le assunzioni a termine sono state il 931% rispetto a quelle permanenti).

Attenzione però a interpretare in modo corretto questi dati: in primo luogo, si riferiscono alla dinamica della assunzioni, non allo stock di occupati, tra i quali i contratti a termine restano al 16,8%, in leggera crescita ma comunque nella media europea. In secondo luogo, il numero di assunzioni a termine non corrisponde a un pari numero di lavoratori: uno stesso lavoratore può avere avuto (e per lo più è stato così) più assunzioni a tempo determinato nel corso dello stesso anno. In conclusione, il boom di assunzioni di giovani e donne è sostenuto essenzialmente da contratti a termine, il che sembra confermare l’ipotesi che le imprese che non si sentono ancora stabilmente inserite nel ciclo di crescita preferiscono assumere mano d’opera più flessibile, ricorrendo a contratti a termine e privilegiando i lavoratori che vengono ritenuti più disponibili alla flessibilità, per l'appunto donne e giovani. Se è davvero così, esistono possibilità concrete che questa occupazione gradualmente si trasformi in buona parte in occupazione permanente.

È opportuno introdurre una riflessione sugli indici di produttività, perché hanno importanti effetti su quelli occupazionali. Nel quarto trimestre 2017 si è registrata, dopo molto tempo, una crescita  minima della produttività del lavoro: 0,1% per ora lavorata e 0,2% per unità lavorativa annua (cioè il numero degli occupati a tempo pieno, calcolati anche come somma delle posizioni a part time). Il che certamente è positivo ma segnala che, come fattore produttivo, il lavoro cresce pochissimo (dopo peraltro 13 anni di stagnazione mentre in UE cresceva significativamente) e che l’aumento del valore aggiunto è essenzialmente dovuto al fattore capitale, sostenuto principalmente dagli investimenti in macchinari e particolarmente in ICT. Questo, da un lato, è positivo perché indica che il nostro tessuto produttivo (soprattutto quello industriale) ha imboccato la strada della Quarta Rivoluzione Industriale, dall’altra parte rischia di essere una plastica dimostrazione che il valore aggiunto può crescere anche a prescindere dal fattore lavoro. E questa considerazione può pesare parecchio sulle scelte delle aziende e sull’occupazione.

E se questa è la tendenza, non potranno bastare facilitazioni di carattere fiscale e contributivo a contrastarla, se non nei comparti maturi che potranno offrire occupazione di bassa qualità. E allora occorrerà cominciare sul serio a parlare di “capitale umano” e di come formarlo. 

Claudio Negro, Fondazione Anna Kuliscioff 

27/3/2018

 
 
 

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