Occupazione, per il mercato del lavoro italiano il peggio deve ancora venire

Allo "scadere" del blocco dei licenziamenti e della CIG con causale COVID, tenuto conto anche delle crescenti difficoltà degli autonomi per chiusure e lockdown, è probabile che l'Italia possa contare un milione di disoccupati in più: impossibile sussidiarli a lungo, fondamentale allora indirizzare le risorse europee verso nuove politiche attive del lavoro

Alberto Brambilla e Claudio Negro

La pandemia da SARS-CoV-2 e i relativi lockdown hanno prodotto nel 2020 una perdita record per l’occupazione e un'esplosione della cassa integrazione e degli ammortizzatori sociali.

Oltre all’enorme aumento del debito pubblico e alla perdita di PIL (-8,9%), che potrebbe essere del 9,2% a consuntivo, per l’occupazione è stata una débâcle: a) le ore lavorate settimanalmente pro capite sono state 2,9 in meno (2,5 nel lavoro dipendente) rispetto all’anno precedente. b) Vola la cassa integrazione, con 2.960.686.616 di ore autorizzate, la stragrande maggioranza con causale COVID, cui si aggiungono circa 1 miliardo di ore a carico dei fondi di solidarietà: circa 15,2 volte le ore del 2019 (259.653.602) e degli anni precedenti. Soltanto negli anni della crisi finanziaria, tra 2011 e 2015, era stato superato di poco il miliardo di ore. Secondo l’INPS nel corso dell’anno hanno usufruito di CIG circa 6.900.000 lavoratori dipendenti, cui vanno aggiunti 4.200.000 lavoratori autonomi che hanno beneficiato dei vari bonus. Quindi, nei 10 mesi (da marzo a dicembre) del 2020, ben 11,1 milioni di lavoratori hanno usufruito, in misura e tempi variabili, di sostegni al reddito in costanza di rapporto di lavoro: si tratta del 48% del totale degli occupati (dipendenti e autonomi), dato mai visto nella storia del Paese. 

c) Il 7,2% delle imprese private risulta chiuso, con un impatto clamoroso sull’occupazione di meno 444.000 unità (ultima rilevazione statistica Istat): un valore assai superiore anche ai -390.000 del 2009 sul 2008 (scoppio della crisi finanziaria) e che è l’esito composito di dinamiche diverse e perfino apparentemente opposte. Meno 393.000 i dipendenti a termine, meno 209.000 gli autonomi, più 158.000 i dipendenti a tempo indeterminato, dato quest’ultimo che maschera una realtà ben più tragica: il saldo positivo è dato esclusivamente dalle trasformazioni di contratti a termine e, soprattutto, dal blocco dei licenziamenti per motivi economici. In tutti i mesi del 2020, con l’eccezione di dicembre a causa delle trasformazioni, il saldo di avviamenti col corrispondente mese del 2019 è sempre stato negativo e il saldo delle cessazioni segue lo stesso trend a partire da aprile. 

d) Il tasso di occupazione, dopo il 58,9% di febbraio, ha continuato a oscillare attorno al 58%, col minimo a giugno (57,6) senza segnalare nessuna inversione di tendenza: il +58,2% di novembre è stato prontamente ridimensionato al 58% di dicembre. Esaminando i dati di stock osserviamo che a pagare il conto più salato sono stati: 1) i contratti a termine, che rappresentano oltre l’88% dei nuovi disoccupati, anche se circa 20.000 contratti a termine cessati sono stati trasformati in contratti definitivi; era dagli ultimi mesi del 2016 che i contratti a tempo determinano non erano così poco numerosi; 2) le donne, che hanno perso 312.000 occupate, il 70% dell’occupazione perduta. La perdita dei contratti a termine si spiega con il blocco dei licenziamenti per cui la flessibilità si scarica tutta su di loro, anche come effetto collaterale delle restrizioni inventate dal cosiddetto Decreto Dignità.

Per quanto invece riguarda le donne la realtà è più complessa: la dinamica dell’occupazione femminile si muova nella direzione opposta rispetto alla crisi del 2008. Allora il ricorso al lavoro femminile, soprattutto part-time e in comparti ad alta intensità di mano d’opera con basso contenuto professionale, era stato importante per contenere il calo occupazionale e incrementare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Stavolta accade il contrario. I settori più colpiti dal lockdown sono quelli a bassa tecnologia e labour intensive: turismo, commercio, assistenza, settori nei quali le donne sono molto presenti e costituiscono la maggioranza dei contratti a termine. Il che fornisce la spiegazione del clamoroso dato di dicembre rispetto a novembre, quando si sono registrati -101.000 occupati, di cui ben 99.000 donne. Tuttavia, occorre d'altra parte osservare che a dicembre scadono (abitualmente) molti contratti a termine soprattutto nel comparto terziario, colpendo soprattutto le lavoratrici e i lavoratori/trici autonomi, per i quali si attesta un -80.000 unità, valore che non si registrava dal 2012, in piena crisi.

Dal punto di vista delle classi d’età l’occupazione è caduta sensibilmente soprattutto in quella più giovane (15-34 anni: -54,4%) e in parte in quella successiva, fino a 50 anni (-1%); aumenta solo nella fascia over 50, sia pure modestamente (0,6%). Un dato molto significativo e preoccupante (perché rappresenta di fatto l’indice di fiducia delle forze di lavoro) è la crescita del tasso di inattività, cioè della popolazione in età lavorativa non occupata né in cerca  di lavoro: 13.579.000, 482.000 in più di un anno fa, poco più dell’occupazione perduta, il che potrebbe indicare che chi ha perso il lavoro è assai poco fiducioso di ritrovarlo e non si attiva. Naturalmente, aumentando il numero di chi non cerca lavoro diminuisce anche il numero di chi non lo trova, e ciò determina l’illusione ottico-statistica di una riduzione della disoccupazione, in calo di 0,6 punti rispetto a 12 mesi fa. 

In assenza di investimenti che spingano la ripresa economica, basata anzitutto su un'efficace campagna vaccinale, il peggio deve ancora venire. Se nel 2020 le cessazioni di contratti permanenti sono state 370.000 in meno del 2019 (circa 300.000 meno degli anni precedenti, dati INPS e BankItalia), è ipotizzabile che alla scadenza del divieto di licenziamento - attualmente fissata al 31 marzo - e di molti ammortizzatori sociali, vengano a maturazione circa 400.000 cessazioni "fisiologiche". Inoltre, a questi esuberi fisiologici occorrerà sommare quelli aggiuntivi, determinati dalle crisi e dalle chiusure di almeno il 7% delle aziende secondo le stime, che si manifesteranno non appena scadrà la CIG con causale COVID con un incremento degli esuberi di 600.000 unità, che si potrebbero aggiungere a quelli fisiologici e a quelli dei lavoratori autonomi. Peraltro, il numero di 444mila nuovi disoccupati non tiene conto dei tantissimi autonomi e delle partite IVA che non lavorano ma non vogliono chiudere l’attività.

Se con gli investimenti dei fondi europei e con politiche del lavoro del tutto nuove non sapremo ricollocarli al lavoro, non potremo continuare a sussidiarli per molto tempo, e le prospettive di una crisi sociale drammatica diventerebbero attuali.

Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

Claudio Negro, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

8/3/2021

 
 

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