"Eppur si muove": previdenza complementare, TFR e uscite per prestazioni in capitale

I numeri dimostrano che lo stato di salute della previdenza complementare non è così delicato come spesso viene descritto, ma c'è ancora molto da fare. Se possibile, senza cadere nella tentazione di irrigidire eccessivamente lo strumento ma piuttosto tentando di agevolarne le finalità

Alessandro Bugli

Riprendendo una celebre frase attribuita al Galilei, utilizzata anche da Itinerari Previdenziali per intitolare un evento di più di 5 anni fa, possiamo dire che c’è sicuramente ancora tanto da fare, ma la previdenza complementare italiana non è poi così “flebile” come spesso capita di sentirla descriverla.

Sono passati quasi 13 anni dall’entrata in vigore del noto decreto legislativo 252/2005: la riforma avrebbe dovuto partire l’1/1/2008, ma ne fu anticipato il kick off di un anno (1/1/2007). Di seguito una diapositiva e alcune considerazioni sul come procede la materia, in attesa della pubblicazione del Settimo Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale. 

Provando a dare atto della crescita che il decreto 252/2005 e l’impegno di tutti hanno consentito di conseguire, abbiamo ritenuto di riassumere e mettere a confronto at a glance in una sola tabella: 1) i dati della complementare nell’anno prima dell’entrata in vigore del decreto (2006); 2) quelli a un anno di distanza dall’entrata in vigore (2008); e 3) i dati più recenti (settembre 2019). I dati sono quelli COVIP, con nostre elaborazioni; si è deciso volontariamente di escludere dal conto il modello delle polizze individuali ante decreto (i PIP “vecchi”), chiuse alle nuove adesioni all’entrata in vigore del d.lgs. 252/2005, ragione per la quale i valori sono leggermente diversi da quelli presenti nelle tabelle COVIP.

Tabella 1 - La previdenza 2006, 2008 e 2019 a confronto

Tabella 1 - La previdenza 2006, 2008 e 2019 a confronto

Fonte: elaborazioni a cura del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali su dati COVIP 
 

Dai dati si scopre che:

  1. il meccanismo dell’adesione ai fondi pensione per “silenzio assenso” su tutta la base dei lavoratori dipendenti all’entrata in vigore della riforma e, anche, l’avvio dei “nuovi PIP” - nel giro di un paio di anni – hanno prodotto una crescita dell’82% del numero di iscritti. Il differenziale dei 10 anni successivi (2008, sino al primo semestre 2019) arriverà ad attestarsi al 105%, ma poco in confronto all’effetto impattante che un “re”-automatic enrolment in stile 2007 potrebbe avere per stimolare interesse sulla materia e spingere ancora con più forza le adesioni contrattuali. Si noti poi come i PIP “nuovi”, in questi anni, abbiano prodotto un numero di nuovi iscritti (+ 379%) pari quasi a tutti quelli dei fondi negoziali e dei fondi aperti sommati tra loro. Le adesioni “contrattuali” degli ultimi anni (cioè quelle prodotte dall’azione commendevole del datore di aprire unilateralmente il fondo pensione al lavoratore e contribuirvi secondo le regole di contratto) hanno prodotto numeri interessanti per la crescita degli iscritti dei “negoziali” ma, in assenza del contestuale conferimento del TFR, crescono molto le “teste” iscritte, ma non così forte i risparmi accumulati (anche se i numeri non sono trascurabili, +293% per i negoziali). Vale la pena di ricordare che non conta solo il numero di iscritti ma, essendo in un modello defined contribution, l’ammontare dei contributi e l’anticipo del loro versamento rispetto alla pensione; 
     
  2. i risparmi previdenziali sono cresciuti del 205% in questi 10-11 anni, arrivando a 173 miliardi di euro, in luogo dei 56 del 2008. 

In conclusione, possiamo ben ribadire: “Eppur si muove!”. Fatto il confronto, siano consentite due rapide considerazioni stimolate dalla lettura della relazione COVIP:

  1. Il tema TFRIn termini assoluti, su base annua, la raccolta di TFR tra 2008 e 2019 è cresciuta, ma non in termini “impressionanti”. Se nel 2008 la raccolta annuale di TFR era di 5 miliardi, oggi (dato a fine 2018) siamo a poco più di 6. Va per correttezza detto che questo ammontare è comunque importantissimo in termini relativi se si guardi al totale della contribuzione annua. Di 16,2 miliardi di raccolta 2018, 6 (più di un terzo) vengono dal TFR. Il che fa comprendere l’importanza del trattamento di fine rapporto per aumentare le pensioni complementari del futuro.  
    Quello che lascia pensare è che di un totale di quasi 300 miliardi di TFR accumulato dai lavoratori dal 2007 al 2018: a) 62,3 siano finiti a previdenza complementare; b) l’INPS – tramite Fondo di Tesoreria – ne abbia ricevuti (e dovrà restituirne, almeno ad oggi, rivalutati) più di 68 (68,317 per la precisione) e; c) 163,6 miliardi siano sulle carte dei bilanci delle società datrici di piccola e media dimensione (miliardi anche questi da rivalutare, se non altro, al minimo dell’1,5% di cui all’art. 2120 c.c.; in tempi di tassi negativi).  Lasciando a ognuno la sua opinione, le ragioni del perché INPS abbia più TFR in Fondo di Tesoreria (quindi per gestione corrente) di tutti i fondi pensione e anche del motivo per cui la stragrande maggioranza di questo sia trattenuto presso il datore, sembra tuttavia da riferirsi a scelte lontane: quelle proprio in vista dell’entrata anticipata in vigore del decreto l’1/1/2007. 
    Il testo del decreto fu infatti rimaneggiato nella parte in cui si immaginava di creare un modello operativo utile a agevolare i datori di lavoro nell’opera di compensazione di uscita del cosiddetto TFR “circolante” per farlo confluire nei fondi pensione e liberarsi di “accantonamenti” di bilancio (spesso già spesi) che possono porre in seria difficoltà le imprese stesse in ipotesi – ad esempio – si necessità di liquidare i superstiti di uno o più lavoratori di lungo corso in caso di loro decesso (al di là dell’impegno di garantire la rivalutazione del TFR stesso). Rimasero alcuni benefici fiscali, ma di tutta evidenza non così impattanti come si poteva pensare. Questo dato, oltre che a impattare il tessuto economico delle PMI italiane, riguarda anche la macchina pubblica, dato che in caso di impossibilità di liquidare a fine rapporto, il “costo” dell’operazione ritorna comunque sul fondo di garanzia INPS (alimentato con parte del trattamento, ma che in scenari di grave crisi potrebbe non essere in condizioni di liquidare a prima richiesta).  Sempre a ridosso dell’entrata in vigore del decreto 252, si è previsto poi che le cosiddette grandi imprese con più di 50 dipendenti avrebbero dovuto conferire il TFR, obtorto collo, al Fondo di Tesoreria INPS (che, per chiarire, è cosa diversa dal fondo di garanzia TFR) il TFR non destinato in maniera espressa o silente dai lavoratori al fondo pensione. Il tutto contribuendo all’effetto di cui sopra.
    Un ripensamento sull’utilizzo del TFR e del silenzio assenso rimangono passi necessari per aumentare la forza di questo “secondo” pilastro. La partita dovrà tuttavia tenere conto anche del fatto che, se da un lato, si dovesse iniettare maggiore TFR nei fondi pensione, dall’altro lato, si dovrebbe porre attenzione a che questo “montante” (da investire) non finisca come oggi in stragrande parte fuori dal territorio nazionale, ma ritorni in termini di “economia reale” nel sistema Paese. 
     
  2. Il tema delle anticipazioni “libere”, dei riscatti e delle prestazioni in “capitale”. Se si ricostruisce il dato COVIP della raccolta netta 2018, si scoprono due cose interessanti: a) le uscite per prestazioni hanno un rapporto di 1 a 2 sulla contribuzione (16 miliardi entrano, 8 escono). Ma questo non dovrebbe spaventare, se non fosse che i dati COVIP ci restituiscono una platea di iscritti, fatta prevalentemente di uomini (soprattutto per i fondi negoziali), di “mezza età” (dove la fascia 50/54 anni la fa da padrona) e dove i più prossimi alla pensione sono quelli che versano le poste contributive più elevate in media. Se i trend demografici ci dicono che abbiamo meno giovani e che queste generazioni di contribuenti corrono verso la pensione, salvo stimolare risparmio sulle coorti junior, il rischio è quello di vedere piano piano ridursi il delta tra contributi e prestazioni; b) scenari futuribili a parte, quello che lascia più di qualche perplessità è l’approccio all’utilizzo di questo risparmio. Fatte prestazioni per 100, il 91% di queste esce in capitale e in parte non trascurabile per anticipazioni “libere”, senza causale (con il rischio che questi importi non servano poi concretamente per assolvere esigenze di lungo corso e essere mal allocate in termini di wealth management). 

Tabella 2 – Raccolta netta 2018 della previdenza complementare 

Fonte: elaborazioni a cura del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali su dati COVIP 
 

Vogliamo qui evitare ogni facile parlarsi addosso sulle finalità costituzionali dei fondi pensione e sulla presenza di benefici fiscali. Temi veri, ma apparentemente da rinfrescare e rileggere alla luce del moderno sistema di welfare mix. Peraltro, per quanto occorrer possa, non si dimentichi il fatto che la previdenza complementare è ad adesione libera e volontaria. Più si dovesse irrigidire lo strumento, meno sarebbero gli effetti di raccolta del risparmio; il tutto a favore di strumenti meno commendevoli. La genesi della previdenza complementare e gli errori commessi sino al 2005 sono riprova di quanto si racconta. 

I danari sono degli iscritti e dei loro cari. Quel che sarebbe utile, al contrario, sarebbe tentare di agevolare la finalità stessa dello strumento. Se questo serve a garantire un supporto integrativo nella terza età (in logica sempre più LTC), allora bisogna lavorare per stimolare il ricorso libero degli iscritti di soluzioni di prestazioni in rendita. Guardando ad alcune delle attuali convenzioni assicurative per l’erogazione delle prestazioni, l’operazione spesso “non vale la candela”.

Ovviamente, la parte complessa risiede nel comprendere come ottenere il risultato. 

Per cominciare si potrebbe tentare di allineare il calcolo della rendita a quella valida per il regime contributivo INPS (diversamente, si dovrebbe vivere oltre i 90 anni per recuperare i risparmi di una vita). Il ricorso a formule “certe” (a enneanni) o “reversibili” non sembra dare risposta alla domanda. Per contemperare le esigenze degli iscritti e degli assicuratori, se tecnicamente possibile, si potrebbe ragionare su coperture collettive accessorie obbligatorie TCM (già incidentalmente previste dal d.lgs. 252/2005) che, se in corso di accumulo riducono di poco il risparmio previdenziale, consentano ai cari dell’iscritto pensionato di poter comunque ricevere il capitale residuo non convertito, poi, al tempo della rendita, ai superstiti del pensionato di recuperare il capitale residuo non convertito in rendita per premorienza. Il rimborso ai beneficiari e eredi esiste poi, già, in caso di riscatto per morte.  Anche se non necessariamente abbinata alla soluzione descritta, non si dimentichi poi la possibilità di aumentare il livello di impignorabilità e sequestrabilità della rendita, di modo da diversificare e rendere più utile in logica previdenziale – in determinati casi - il ricorso alla liquidazione rateale rispetto alla classica impostazione del “tutti e subito”. 

Questa impostazione peraltro poggia anche sulla (ingiustificata, ma tale) sfiducia verso il settore assicurativo privato. Non a caso, i fondi pensione che liquidano in proprio hanno più elevati tassi di utilizzo della rendita. Da qui, in una visione più ampia del modello multipilastro, si potrebbe immaginare di ritrovare un ruolo di frontman dell’INPS, almeno per i suoi pensionati, attraverso un modello di “totalizzazione” dell’assegno di primo e secondo pilastro in un unico trattamento.

Il tema è certamente serio e da considerare. Mentre gli spunti, tali sono e tali rimangono.

Alessandro Bugli, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali e Studio Legale Taurini&Hazan

11/11/2019 

 
 

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