Pensioni e migranti: quale sostenibilità per il sistema previdenziale italiano?

La recente rilevanza del dibattito mediatico sull’immigrazione impone una riflessione anche sull’impatto esercitato dai flussi migratori sul sistema pensionistico: i dati del Quinto Rapporto Itinerari Previdenziali sulle prestazioni pensionistiche erogate ai lavoratori stranieri 

Alberto Brambilla e Mara Guarino

L’Italia ha davvero bisogno degli immigrati per garantire la sostenibilità del proprio sistema di protezione sociale? A distanza di qualche mese da alcune dichiarazioni che sostenevano la tesi della necessità di immigrati per garantire il sistema pensionistico, tra cui quella del Presidente Inps Tito Boeri, il Quinto Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale italiano aiuta a fare ulteriormente chiarezza sul tema e a valutare quindi il contributo degli immigrati al sistema pensionistico italiano e, in generale, al “sistema Italia”.

Cominciamo con alcuni numeri, suddividendo i lavoratori stranieri in extracomunitari e neocomunitari: cosa è successo negli ultimi 10 anni? I lavoratori attivi extracomunitari sono aumentati del 25%, passando da 1.547.475 a 1.948.260 del 2015 (ultimo anno disponibile). Il loro reddito medio è stato pari a 12.068,60 euro annui il che implica, per via delle deduzioni e detrazioni, che abbiano pagato poco o nulla di Irpef e circa 6.5 miliardi di contributi sociali, di cui 1,8 miliardi a carico dei lavoratori e il resto a carico delle aziende. Per contro, nel medesimo periodo, i pensionati sono quasi triplicati passando da 28.293 a 81.619 mentre i percettori di prestazioni a sostegno del reddito (disoccupati in generale) sono aumentati di quasi 5 volte da 20.047 a 113.458. Nello stesso arco temporale, i lavoratori attivi neocomunitari sono aumentati del 23% (da 704mila a 867mila), con un reddito medio di 10.220 euro e con contributi pagati per poco meno di 3 miliardi, di cui circa 800 milioni a carico dei lavoratori stessi e il resto pagato dalle aziende. Anche in questo caso il gettito Irpef è stato quasi nullo. Per contro, il numero dei pensionati è aumentato da 18.482 a 30.467 e i percettori di prestazioni a sostegno del reddito sono quasi triplicati (da 13.851 a 41.060).

Già da questi primi dati si rilevano dunque due importanti evidenze, vale a dire che: a) la crescita dei lavoratori attivi si va riducendo, mentre il numero dei pensionati e degli assistiti aumenta a ritmi molto elevati; b) è in aumento il numero dei disoccupati, che ha raggiunto circa quota 180.000. Con  queste premesse, diventa dunque difficile giustificare ulteriori necessità di lavoratori stranieri, considerando oltretutto l’alto livello della disoccupazione autoctona. 

Numero cittadini extracomunitari per tipologia di prestazione

Fonte: Quinto Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale italiano a cura del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

Un ulteriore dato interessante, ma da leggere in modo prudente, che aiuta a descrivere il complesso fenomeno dell’impatto dei flussi migratori si ricava dal XV Rapporto annuale dell’Inps che, nel periodo compreso tra il 1960 e il 2016, ha stimato in meno 140 miliardi di euro (181 se rivalutati sulla base dell’inflazione) le entrate contributive versate da lavoratori provenienti da Paesi stranieri, a fronte di una spesa pensionistica di 108 miliardi (190 milioni l’anno di rendite erogate a 20.000 persone di origine straniera). Si noti poi che, già oggi, il numero di pensionati supera invece i 120.000 soggetti. Basta quindi un (presunto) saldo positivo da 32/36 miliardi per guardare agli stranieri come alla “salvezza” del sistema previdenziale italiano? No, perché questo valore, esattamente come accadrebbe se la stima riguardasse i l avoratori italiani, evidenzia un risparmio che varrebbe solo nel caso in cui nessuno dei contribuenti stranieri – che, al 2016 non aveva ancora maturato il minimo contributivo - riesca a ottenerlo in seguito. Invece, è molto probabile, anche in tempi non lunghi, che molti richiederanno le prestazioni pensionistiche. Senza considerare, peraltro, il calcolo di future eventuali prestazioni assistenziali.  

Come si vede, il quadro da valutare è in realtà molto più vasto e articolato. Al netto di letture semplicistiche, occorre innanzitutto ricordare che la tenuta di un sistema pensionistico “a ripartizione” non dipende solo dai livelli delle aliquote contributive e dalle prestazioni, ma anche dall’andamento del tasso di occupazione della popolazione in età di lavoro. In quest’ottica, una politica migratoria sostenibile sarebbe da ponderarsi sulla base dei fabbisogni della domanda di lavoro sul territorio nazionale. Situazione che non sembra rispecchiare il caso dell’Italia dove, stando alle statistiche Ocse, negli anni della crisi economica (2008-2014), a fronte di una diminuzione degli occupati italiani di poco superiore a 1,4 milioni di unità e una disoccupazione complessiva oltre la soglia dei 3 milioni, il tasso di occupazione degli immigrati è addirittura crollato del 10% mentre sono continuati gli ingressi per effetto, tra gli altri, della libera circolazione dei neo-comunitari, delle ricongiunzioni familiari e dei fenomeni irregolari. Se, in genere, i Paesi di accoglienza dei lavoratori stranieri hanno tassi di occupazione oltre il 70%, il nostro Paese arriva a malapena al 58,1%. 

Ulteriore problema di fondo è l’incapacità italiana di investire sulle competenze acquisite nei Paesi d’origine: gli immigrati che vengono in Italia sono per la maggior parte di bassa istruzione e bassa qualificazione professionale e spesso occupati come manovalanza a basso prezzo, quando non addirittura in nero, con l’effetto ancor più negativo di abbassare gli standard retributivi e lavorativi per tutti i lavoratori, compresi quelli i italiani che, notoriamente, hanno i livelli di reddito tra i più bassi della UE a 15. Inoltre, come lo stesso Quinto Rapporto ben evidenzia, c’è una sproporzione tra numero di lavoratori e percettori di indennità di disoccupazione e mobilità, possibile sintomo di riscossioni indebite di prestazioni a sostegno del reddito in concomitanza di lavoro sommerso.

Il tutto senza sottovalutare che proprio levasione fiscale e contributiva è, insieme a una spesa per assistenza che cresce a ritmi insostenibili, una delle vere minacce alla futura sostenibilità del sistema di welfare italiano, già invece di capace di raggiungere un sostanziale equilibrio (+0,22% nel 2016) in termini di spesa pensionistica pura.  Il rapporto attivi-pensionati ha toccato nel 2016 quota 1,417, dato migliore dal 1997 (primo anno utile al confronto) e non molto distante da quell’1,5% che costituisce oggi un obiettivo di concreta sostenibilità. A prescindere dai migranti che arriveranno, il sistema svela dunque margini di miglioramento: a patto però di investire in uno sviluppo capace di sostenere lavoro e produttività.

Numero extracomunitari, per i primi 10 Paesi per tipo di prestazione

Fonte: Quinto Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale italiano a cura del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

Le rilevazioni del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali sembrano quindi evidenziare come l’immigrazione non costituisca una soluzione ai problemi che affliggono il Paese, né sotto il profilo della natalità né sotto il profilo occupazionale. Se, da un lato, è illusorio credere che il processo di invecchiamento della popolazione possa arrestarsi grazie all’apporto degli stranieri, i quali oltretutto già mostrano anche sul fronte della natalità i primi segnali di avvicinamento al modello italiano, dall’altro bisogna considerare che l’apporto dei migranti non è da solo in grado di contrastare né le vere carenze del mercato del lavoro italiano, che sono l’adattabilità ai nuovi processi produttivi e la specializzazione (sono già oggi disponibili oltre 130.000 posti che non sono coperti per mancanza di specializzazione), né l’invecchiamento della popolazione che abbisogna di un grande piano nazionale e non di continui lamenti.

Una tesi, questa, peraltro supportata anche da un recente studio sul contributo della demografia alla crescita economica italiana realizzato dalla Banca d’Italia che, con spartiacque fissato al 2041, evidenzia come l’apporto delle immigrazioni in termini di potenziale di crescita economica, derivante dal rapporto tra popolazione in età lavorativa e non lavorativa, risulterà negativo nei prossimi decenni. Il tutto in un momento già delicato per il Paese, costretto a fronteggiare gli effetti dell’invecchiamento della popolazione anche in termini di equilibrio del sistema pensionistico e uscita dal mercato del lavoro.

Un’ultima importante nota da considerare all’interno del quadro generale riguarda infine l’inevitabile scostamento tra i dati ufficiali riferiti agli stranieri effettivamente noti all’INPS in quanto contribuenti e/o percettori di prestazioni previdenziali, assistenziali o a sostegno del reddito e i dati diramati dalle organizzazioni umanitarie, secondo cui gli stranieri in Italia sarebbero almeno 5 milioni. A questa cifra bisogna aggiungere (dati Migrantes) anche 400mila regolari non residenti, 200mila richiedenti asilo e almeno 435mila irregolari (secondo altre stime vicini agli 800 mila), per un totale di 6 milioni di persone. Questi immigrati, per la sola sanità, costano circa 11 miliardi l’anno, cui occorre sommare i costi per l’abitazione, la scuola e gli altri oneri pubblici che, come abbiamo visto, non sono coperti dalle imposte dirette.

L’immigrazione, come insegnano i Paesi che l’hanno già sperimentata, è un investimento, con costi che nei primi 10/15 anni, superano le entrate (come accade oggi nel nostro Paese dove si può stimare che, al netto del sistema pensionistico, i costi eccedano le entrate per oltre 15 miliardi l’anno). Ma gli investimenti vanno fatti per bene e, a parte gli ingressi per motivi umanitari, vanno indirizzati sulla base delle reali esigenze del Paese, e non in un modo scoordinato e disorganizzato che penalizza sia gli stranieri sia gli italiani. 

Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

Mara Guarino, Itinerari Previdenziali

23/4/2018

 
 

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