Perché Quota 100 e come superarla (anche con il welfare complementare)

Un'operazione non esente da criticità ma che ha avuto sicuramente il merito di introdurre maggiore flessibilità nella fin troppo rigida riforma Monti-Fornero: le proposte di Alberto Brambilla, Presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, per superare Quota 100 e costruire un sistema pensionistico più equo e sostenibile

Alberto Brambilla

Dalle anticipazioni del Settimo Rapporto a cura del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali emergono alcune notizie positive sulla tenuta del sistema pensionistico italiano: mentre cresce il tasso di occupazione (58,5%), nel 2018 il numero dei pensionati (16.004.503) è risultato il più basso degli ultimi 22 anni, con il risultato di portare il rapporto attivi/pensionati a quota 1,4505, vale a dire molto prossimo a quell’1,5 che potrebbe garantire la sostenibilità di medio-lungo periodo di un sistema a ripartizione come quello italiano.

Su questi dati, aggiornati al 31/12/2018, incombe però una possibile ombra, quella di Quota 100 che, avendo sdoganato il pensionamento dei lavoratori con 62 anni di età e 38 di contributi, rischia di deteriorare questo delicato equilibrio, aumentando, almeno temporalmente, il numero dei pensionati senza garantire, in particolar modo nel settore privato, il promesso ricambio generazionale tra profili senior in uscita dal mercato del lavoro e giovani dipendenti in ingresso.

Una misura da cancellare dunque? In realtà no, nonostante il provvedimento bandiera della Lega abbia sicuramente delle pecche. Innanzitutto, non cancella la riforma Monti-Fornero (si tratta infatti di una misura sperimentale di durata limitata nel tempo: 3 anni per Quota 100, 8 per il blocco dell’adeguamento alla aspettativa di vita della anzianità contributiva) e, ancora di più, non tiene conto delle specifiche situazioni dei lavoratori, concedendo in una sorta di “liberi tutti” l’uscita anticipata a tutti coloro che soddisfano il requisito anagrafico e contributivo, compresi quanti – in assenza di particolari situazioni fisiche e familiari o estranei a lavori particolarmente gravosi e usuranti – avrebbero di fatto potuto continuare a lavorare.

Si tratta comunque di un’operazione costosa. Certo, non saranno tra i 600mila e i 900mila i beneficiari, così come previsti inizialmente, ma si tratterà di non più di 230.000 tra Quota 100, precoci, APE sociale e opzione donna per il 2019 e, probabilmente, altri 110mila tra il 2020 e il 2021; e anche i costi previsti dal decreto (48,5 miliardi) saranno meno: circa 27 miliardi. Il provvedimento è ormai abbondantemente finanziato fino al 2027 e nel solo triennio 2020-2022, senza alcun intervento, prevede già un risparmio di circa 9 miliardi. Il grosso dei lavoratori con il sistema retributivo o misto che poteva approfittare di Quota 100 senza rimetterci molto è infatti già uscito; a partire dal prossimo anno, invece, la maggior parte di coloro che potrebbe accedervi avrebbe almeno il 60-65% dell’assegno pensionistico calcolato con il metodo contributivo, rischiando di perdere in media il 10%. Che non è poco, come dimostra anche il fatto che il numero delle domande sia già calato da un ritmo di 3.500 a circa 250 richieste giornaliere. 

Una norma che va comunque modificata, anche perché reintroduce il divieto di cumulo (per tutti i beneficiari di Quota 100), ma le variazioni devono essere fatte gradualmente perché  qualunque cambiamento in corsa delle regole rischia di avere effetti negativi, creando nuovi esodati. Inoltre, nell’intervenire su Quota 100 occorrerà tener conto che il provvedimento ha comunque evidenziato la necessità di introdurre flessibilità in una riforma Monti-Fornero che ha sì centrato l’obiettivo di tenere sotto controllo i conti, ma che si è rivelata fin troppo rigida soprattutto per i più giovani, i cosiddetti contributivi puri, consentendo l’accesso alla pensione a 64 anni solo a patto di aver maturato un assegno pari a 2,8 il minimo, una soglia che -  considerate le retribuzioni attuali - rischia appunto di tagliare fuori almeno il 65%-70% dei giovani lavoratori.

Insomma, flessibilizzare l’uscita resta comunque un’esigenza da portare avanti ma, per farlo, occorrerebbe avere quello che agli ultimi governi - a prescindere dal colore politico - è mancato, vale a dire il coraggio di chiudere il ciclo delle riforme con un intervento definitivo e strutturale, dando ai cittadini delle certezze con regole semplici e valide per tutti. Troppi, al contrario, i rammendi e i rattoppi che, in deroga ai limiti fissati dalla Monti-Fornero, hanno peraltro finito paradossalmente con il sacrificare, tra una salvaguardia dichiarata o “mascherata” e l’altra, gran parte di quelle risorse che la riforma si proponeva di risparmiare, con risultati poco equi oltre che onerosi.

Nel concreto cosa fare dunque? Mantenendo i requisiti per la pensione di vecchiaia a 67 anni di età, indicizzata all’aspettativa di vita, e almeno 20 di contribuzione, quello che si potrebbe fare è sostituire le varie Quota 100, opzione donna, APE sociale e agevolazioni varie, da un lato, estendendo  ad altre categorie professionali i fondi esubero (che, sul modello di quanto fatto già fatto da banche e assicurazioni, sarebbero completamente finanziati da imprese e lavoratori, dunque a costo zero per la collettività) e, dall’altro, consentendo un pensionamento flessibile con 64 anni di età, sempre indicizzata, con almeno 39 anni di contributi, di cui non più di 3 figurativi.

Il tutto rendendo stabile la pensione anticipata, con 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini e uno in meno per le donne, rigorosamente svincolati dall’aspettativa di vita, ed eliminando il divieto di cumulo. Nei primi anni, si spenderebbe certo forse qualcosa in più ma, a regime, questa “Quota 103” dovrebbe costare meno di Quota 100 anche perché, trattandosi di pensioni prevalentemente contributive, non si farà altro che restituire quanto versato.

Fatta questa premessa e rivolgendo l’attenzione soprattutto ai più giovani, resta comunque fondamentale non trascurare il fatto che l’Italia è un Paese ad alto tasso di invecchiamento e le cui finanze pubbliche difficilmente consentiranno sul lungo periodo di aggiungere ulteriore spesa al già costoso (e generoso) welfare state. Tutte ottime ragioni per interventi concreti volti ad agevolare il welfare complementare, partendo da un rafforzamento del ruolo del secondo pilastro in ambito pensionistico. Ben vengano allora iniziative di alfabetizzazione e sensibilizzazione, ma da affiancare anche in quest’ambito a misure più strutturali: i vantaggi fiscali associati alle fasi di adesione, contribuzione ed erogazione delle prestazioni non mancano, così come non va sottovalutato il ruolo del welfare aziendale (che andrebbe comunque meglio “finalizzato”), ma riproporre periodicamente il meccanismo del silenzio-assenso sul modello UK potrebbe essere una prima soluzione per dare maggiore forza propulsiva alle iscrizioni.

Non senza trascurare, infine, alla luce delle pressioni sociali ed economiche che sempre più eserciteranno le tendenze demografiche in atto, la necessità di riflettere sul ruolo - e sulla possibile obbligatorietà della Long Term Care - nella protezione dal rischio della non autosufficienza.   

Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 

6/12/2019

 
 

Ti potrebbe interessare anche