Rivedere Quota 100 e la riforma Fornero con regole certe e fisse per almeno 10 anni

Quota 100 è in scadenza e il tema "pensioni" sarà verosimilmente affrontato in Legge di Bilancio: l'occasione per regalare finalmente agli italiani regole stabili per il prossimo decennio, garantendo flessibilità in uscita e maggiore equità di trattamento per i contributivi puri

Alberto Brambilla

Nonostante il pressing UE, delle soluzioni per uscire da Quota 100 si parlerà probabilmente in autunno in Legge di Bilancio: sarebbe stato meglio conoscere oggi le regole per il prossimo anno ma la priorità è stata data giustamente al PNRR. La prossima revisione sia di Quota 100 sia di alcune parti della legge Fornero dovrebbe garantire almeno per i prossimi 10 anni una “pace pensionistica”, una certezza delle regole senza ulteriori modifiche risolvendo almeno le due questioni principali: a) garantire un minimo di flessibilità in uscita dal mercato del lavoro, anche in vista della inevitabile fase di ristrutturazioni aziendali post COVID-19; b) consentire ai giovani, i contributivi puri che hanno iniziato a lavorare dopo il 31 dicembre 1995, di avere le stesse regole e gli  stessi requisiti di accesso alla pensione degli altri lavoratori, comprese le prestazioni di integrazione al trattamento minimo ed evitando invece la non condivisibile soluzione della cosiddetta “pensione di garanzia”. 

Nel seguito ci occuperemo del primo punto, vale a dire dell’uscita flessibile verso la pensione introdotta con la legge Dini del 1995 accanto al metodo di calcolo contributivo, progettato proprio per garantire questa flessibilità: chi esce prima dal mercato del lavoro avrà una pensione più bassa perché ne beneficerà per più anni; viceversa chi esce con età maggiori percepirà prestazioni più elevate perché ne beneficerà per meno anni dato che la rendita pensionistica è calcolata sia in base ai contributi versati sia all’aspettativa di vita al momento del pensionamento. Per garantire un'ordinata uscita da Quota 100, oltre alla “pensione di vecchiaia” con 67 anni di età, adeguata alla aspettativa di vita e almeno 20 di contribuzione (una sorta di quota 87 o più) si potrebbe operare come segue. Innanzitutto, rendere stabile la cosiddetta pensione di “vecchiaia anticipata” con 42 anni e 10 mesi per gli uomini (1 anno in meno per le donne) che scadrà nel 2026, eliminando definitivamente l’aggancio alla aspettativa di vita e qualsiasi divieto di cumulo tra lavoro e pensione, prevedendo agevolazioni per le donne madri (ad esempio 8 mesi ogni figlio fino a massimo 24 mesi), per i caregiver (un anno) e per i precoci maggiorando del 25% gli anni lavorati tra i 17 e i 19 anni di età. 

In secondo luogo, rafforzare tutte le modalità di uscita anticipata previste per APE socialecompresi i cosiddetti lavori gravosi, utilizzando però tre strumenti che hanno il pregio di non gravare sul bilancio dello Stato e che possono aiutare l’intero comparto produttivo nella ristrutturazione post pandemica e nella riqualificazione del personale: 1) l’isopensioneche consente già oggi ai lavoratori delle aziende con più di 15 dipendenti un anticipo fino a un massimo di 4 anni (7 anni fino al 2023), con costi e contributi figurativi interamente a carico delle imprese; 2) i contratti di espansione che prevedono una forma di ricambio generazionale, con l’assunzione di un giovane ogni tot prepensionati per i dipendenti delle imprese con più di 250 addetti (ma il Decreto Sostegni bis potrebbe abbassare la soglia a 100, anche qui oneri totalmente a carico delle imprese); 3) i fondi esubero o di solidarietà, oggi attivi per le banche e le assicurazioni (ne è stato creato uno anche per l’industria farmaceutica) e immediatamente attivabili per industria, commercio, servizi, artigianato e agricoltura. Per contratti di espansione e fondi esubero l’anticipo è di 5 anni rispetto ai requisiti di pensionamento standard, quindi già oggi si può accedere a questa forma di “prepensionamento” con 37 anni e 10 mesi per gli uomini e 36 anni e 10 mesi per le donne, indipendentemente dall’età anagrafica: quindi, con 60 anni, una quota 97/98, oppure con 62 anni di età e 20 di contributi, una quota 82 (in media con quota 97/100). Quota ancora più bassa con l’isopensione. 

Infine, si può prevedere anche qualche ulteriore forma di flessibilità, tipo "Quota 102" (64 anni di età con 38 di contributi, di cui almeno 36 effettivi), ma non certo i 62 anni con 20 di contribuzione a carico dello Stato o un profluvio di misure come APE sociale o lavori gravosi, che creano pesanti squilibri nei conti pubblici e debiti a carico delle giovani generazioni. Le soluzioni indicate sono del resto confermate dall’analisi dei risultati di Quota 100: i lavoratori andati in pensione con 62 anni di età e 38 di contributi (la vera Quota 100) sono stati meno di 15mila negli anni 2019-20 e la quota media -  quale somma tra età anagrafica e anzianità contributiva di quanti hanno usufruito del provvedimento - è pari a circa 103, mentre la stragrande maggioranza (107mila nel 2019 e 177mila nel 2020) ha beneficiato dei 42 anni e 10 mesi (un anno in meno per le donne) previsti per la pensione anticipata; oltre 35mila l’anno per quanto riguarda le altre anticipazioni.

Molto spesso i lavoratori sono più preparati dei loro rappresentanti politici e sindacali: ricordate il TFR in busta paga? Non lo scelse nessuno! Quota 100 ha avuto poco successo perché il 90% dei potenziali pensionati ha la prestazione calcolata per almeno il 65% con il metodo di calcolo contributivo: a 62 anni questo significa una riduzione permanente del 10%, ragione per la quale chi può resta al lavoro almeno fino ai 64/65 anni. Se lavorando si guadagna 100, con la pensione a 67 anni e 37 di contributi si ottiene circa il 73%, mentre con Quota 100 a 62 anni non si va oltre il 63%.

Come si vede, indipendentemente dalla scadenza di Quota 100, ci sono già oggi molte possibilità di uscita anticipata: un maggior utilizzo dei fondi bilaterali, attualmente alimentati da una contribuzione intorno allo 0,32% della retribuzione lorda (un terzo a carico dei lavoratori), più altre contribuzioni già fissate dai contratti collettivi, risolverebbe le necessità delle imprese di ristrutturazione dei processi produttivi e garantirebbe, dopo la fine del blocco dei licenziamenti, un “paracadute” per i lavoratori non più reimpiegabili assorbendo le causali ex APE sociale e garantendo a 67 anni una pensione decorosa senza costi per la collettività. Anzi, magari restituendo il beneficio ricevuto con almeno 2 giorni di lavori socialmente utili. 

Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 

27/5/2021

 
 
 

Ti potrebbe interessare anche